venerdì 23 dicembre 2011

Natale sul tetto per gli ex Wagon Lits


TORINO - Le ore passano e l’umore sale e scende come la temperatura. In cima, sul grattacielo, tutto è amplificato. Prima che inizi un’altra notte al gelo, Matteo Mele, 43 anni uno dei licenziati della ex Wagon Lits, ha la voce spezzata. Sono da poco andati via l’assessore regionale ai Trasporti Barbara Bonino, Pdl, e il parlamentare Pd Stefano Esposito, che avevano tentato di convincerli a scendere. Una proposta che non è piaciuta né a Matteo né ai colleghi: «Non ci garantiscono più tutele da possibili denunce – spiega, al telefono, Mele -. Invece di aiutarci ci spaventano. Noi vogliamo un lavoro, non chiacchiere. Vogliamo quello che abbiamo perso l’11 dicembre quando ci hanno lasciato a casa, quasi senza preavviso. Restiamo ancora qui, ma mi sento stanco, abbattuto».

Sul grattacielo in costruzione di Intesa Sanpaolo, simbolo contestato della nuova Torino, sono saliti in tre. Erano da poco passate le 20 di mercoledì quando Antonio Previti, Nicola Saba e, appunto, Matteo Mele hanno detto – in accordo con i loro compagni – basta: «Così, senza mai avere risposte, non si può andare avanti. Dobbiamo fare qualcosa di eclatante». Hanno messo sulle spalle tre zaini e una tenda e hanno superato il cancello del cantiere e – non senza preoccupazione – hanno preso le scale a lato del primo pilastro. Su, fino in alto. In cima, dove anche le ombre dei licenziati possono essere viste.

Hanno scelto quel grattacielo, perché il via lo firmò Corrado Passera, quand’era amministratore delegato della banca. Lo stesso Passera, che ora è ministro dello Sviluppo economico, ha avallato la decisione di Trenitalia di cancellare i treni notte. Quelli low-cost, che univano Nord e Sud (da Torino a Lecce o Palermo), dove lavoravano gli 800 licenziati di Servirail Italia ex-Wagon Lits, 65 a Torino (a cui se ne aggiungono altri 12 tra pulizie e manutenzione), addetti all’assistenza e all’accompagnamento nei vagoni letto. Giù, in corso Inghilterra, Orazio Arrigo anima il presidio che non abbandona i tre sul tetto. Ha in mano una lettera: «Non siamo saliti sul grattacielo per fare un dispetto al ministro. Pensiamo, però, che se ha avuto come a.d. la capacità di trovare mezzo miliardo per costruire un grattacielo, che non si capisce bene a cosa serva, ora come ministro dovrebbe trovare il modo di salvare i treni notturni, che gli italiani sanno benissimo a cosa servono». Servono a chi non si può permettere il Frecciarossa.

E il Tav, favorito a discapito dei treni notte e delle tratte pendolari. Il movimento si è, infatti, fatto sentire (c’era pure qualche No Grat, i primi a salire a luglio sulla costruzione) sottolineando le contraddizioni della presenza «di politici pro Tav». «Moretti dice bugie. Non è vero che i treni notte fossero poco utilizzati. Erano un servizio sociale. Li prendevano i tanti che dal Sud vengono a curarsi al Nord. La verità è che da due anni a questa parte è in atto un boicottaggio interno a Trenitalia, per farli fallire. Come? Diminuendo le pulizie e bloccando le prenotazioni» accusa Rosario Esposito, 32 anni di servizio. Alessandro Brienza ne ha, invece, 35 di lavoro. Lucia Dellatte, Maria Ferro, Elisa Vetrone ne hanno molti meno, assunte tra il 2005 e il 2006: «Abbiamo lavorato in condizioni difficili, con treni sporchi e guasti; vissuto il bluff dell’Intercity notte. Abbiamo accompagnato, ogni volta, 104 persone, a differenza delle 52 assegnate ai cuccettisti delle ferrovie. Abbiamo messo le stesse divise di Trenitalia, non ci siamo mai tirate indietro e ora Moreti ci scarica così? La nostra azienda si adegua alla decisione». Arrigo ritira la lettera e tira fuori un disegno: «È di mio figlio di 6 anni e sono rimasto sorpreso da come la sua fantasia abbia ritratto il momento (dietro un treno colorato, davanti tante lapidi e la scritta “Qui riposano i lavoratori dei treni notte. Grazie Moretti” ndr.)».

Al presidio, la tensione sale. L’avvocato Bongiovanni calma gli animi: «I tre stiano tranquilli, non stanno occupando binari, non rischiano niente di così grave, al massimo un’eventuale querela». Ma quando, da Roma, arriva la notizia che è saltato il tavolo di trattativa, l’atmosfera si riaccende. «I sindacati devono finirla di prenderci in giro» dice qualcuno. «Colpa di Trenitalia che si sta rimangiando un accordo quasi fatto» ribatte Angelo Di Blasi, Filt Cgil. In queste ore, la sinistra torinese si è raccolta vicino alla lotta. Michele Curto, segretario provinciale di Sel, da tempo segue la vertenza: «La cancellazione dei treni notturni segna la scomparsa di una cerniera del nostro Paese. La questione è nazionale». Monica Cerutti, Sel in Regione: «Siamo negativamente impressionati da come l’assessora Bonino dimostri subalternità nei confronti di Trenitalia». Il Prc ha portato cibo e con la consigliere regionale Eleonora Artesio ha sottolineato: «Non si possono tagliare le lunghe percorrenze ferroviarie per favorire il Tav». Davide Bono, Cinque stelle, ha portato coperte. Per la lunga notte.

Da il manifesto del 23 dicembre

Reportage per Linkiesta

domenica 18 dicembre 2011

Il Comune di Casale Monferrato rinuncia alle azioni contro Eternit

18 milioni di euro. Il magnate Schmidheiney, dopo 1.800 persone morte per colpa dell'amianto, si assicura il silenzio del Comune di Casale Monferrato. Vota a favore la destra, contro l'opposizione di centrosinistra

Una notte lunga e sofferta per un movimento che lotta da oltre trent'anni. Che si è sentito tradito dalla sua stessa città, ma non ha perso la sete di giustizia, dopo 1800 morti alle spalle: prima gli operai dalle tute sporche d'amianto poi tanta gente che in quella fabbrica della morte non ci aveva mai messo piede.
Il patto col diavolo alla fine c'è stato, il comune di Casale Monferrato (giunta di centrodestra) ha accettato l'offerta di 18,3 milioni di euro offerti dal magnate svizzero, Stephan Schmidheiny (uno degli imputati del processo di Torino), in cambio del ritiro della costituzione a parte civile e della rinuncia a qualsiasi azione legale futura.
Il via libera arriva alle 3.27, dopo un interminabile confronto in consiglio comunale: 19 voti favorevoli (Pdl e Lega) e 11 contrari, nessuno astenuto. Contrari Pd, Sel, Casale si cambia e Democratici per Casale. Pure l'Udc, che aveva chiesto la garanzia che la cifra d'indennizzo fosse vincolata alla ricerca contro il mesotelioma e alle bonifiche.
Qualche consigliere di maggioranza ha abbassato lo sguardo quando ha preso la parola Romana Blasotti Pavesi, 82 anni, cinque congiunti morti di mesotelioma, presidente dell'Afeva (Associazione familiari vittime amianto): «A febbraio saranno trent'anni da quando si ammalò mio marito. Sono sette che non piango più e faccio fatica a dormire ma voglio giustizia. L'offerta del signor Schmidheiny è stata una vigliaccata, una mossa subdola. Per lui, probabilmente, non c'è differenza tra una o 1800 vittime. Chi voterà sì risponderà alla sua coscienza, io, la mia, ce l'ho pulita».
I movimenti vanno e vengono, come le nuvole. Non quello contro l'Eternit. Nella notte più difficile da quarant'anni per Casale, hanno voluto esserci in tanti, cinquecento persone. Hanno portato le storiche bandiere italiane con la scritta Eternit giustizia , hanno resistito alle forze dell'ordine che volevano allontanarli e all'amministrazione che voleva silenziarli.
E hanno gridato «vergogna» e «complici». È alta la dignità di una protesta che prosegue ancora in queste ore (guardate il profilo su Facebook dedicato al processo Eternit). Tanta rabbia e lacrime in una giornata triste. Il Comune di Casale esce da questa vertenza, o future altre, contro Schmidheiny; resta nel maxi-processo (2889 le vittime all'inizio del dibattimento tra Casale, Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli) solo contro il barone belga Louis de Cartier, che alla veneranda età di 90 anni non ha mai chiesto un risarcimento e probabilmente si sente più al riparo del 64enne svizzero.
«Abbiamo pensato all'interesse della città» ha sottolineato Giorgio Demezzi, il sindaco, che non cede di un millimetro: se Casale ha accettato i soldi Eternit è perché «deve avere un futuro diverso, deve puntare a una ripresa economica e sociale che offra una speranza ai nostri figli». «La gente ha urlato il proprio sdegno» racconta Bruno Pesce, di Afeva: «Il Comune si è tirato indietro con un passo che alleggerisce di fatto la posizione processuale di Schmidheiny. Non è una questione di soldi, ma di principio».
Nicola Pondrano, ex operaio Eternit e sindacalista Cgil, uno dei simboli di questa lotta, auspica sulla decisione un ricorso alla Corte dei Conti, perché la cifra non sarebbe congrua al reale danno e non sarebbe stata effettuata una consulenza tecnicoambientale. Diciotto milioni e 300 mila euro (la somma che la Bacon AG pagherà per conto dell'ex proprietario Eternit): «Meglio pochi, maledetti e subito ha scandito in aula una consigliera dai banchi di centrodestra piuttosto che aspettare i tre gradi di giudizio». Il Comune annuncia che saranno spesi per la bonifica, per la ricerca sul mesotelioma, per attirare investimenti. Una commissione «non politica» vigilerà sull'uso dei fondi. A giugno anche il Comune di Cavagnolo (provincia di Torino) aveva accettato, in gran segreto, la proposta dello svizzero in cambio di due milioni di euro.

Da il manifesto del 18 dicembre

Intervista all'avvocato Laura D'Amico: "E' un errore il comune si preclude la strada per futuri risarcimenti"

venerdì 25 novembre 2011

Torino Film Festival al via tra tagli e polemiche


C’è un feticismo che torna ogni volta che si parla di qualche festival. E talvolta stride col contesto. È di tessuto e di colore vivace, rosso per l’esattezza. Richiama un simbolismo pop di dive, lustrini, autografi e portaborse pitonati, i leoni di Venezia, le palme di Cannes e la veltroniana festa di Roma. Si tratta del red carpet, il tappeto delle star, diventato nelle ultime settimane l’oggetto del dibattito cultural-politico torinese, tradotto per l’occasione in Penelope Cruz: farne o meno la madrina (anzi la “seconda madrina”, visto che quella ufficiale è Laura Morante) del Torino film festival? Da una parte l’assessore regionale alla Cultura, il giovane Michele Coppola, Pdl, sfidante di Fassino alle comunali, e il neo presidente del Museo del cinema Ugo Nespolo, fautori di una linea più glamour, “a tutti i costi Penelope”, dall’altra l’assessore comunale Maurizio Braccialarghe (esterno Pd, già direttore del centro produzione Rai di via Verdi) e il direttore del festival, il regista Gianni Amelio, propensi a non snaturare l’anima del festival, “qualità low cost”, perché anche il Tff – in tempi di crisi – fa i conti con i tagli (e, dicono, “i divi costano”): un budget ridotto a 2 milioni di euro per la 29esima edizione, 300 mila in meno rispetto al 2010, un milione in meno rispetto al 2007 (10 milioni in meno dell’attuale edizione del Festival di cinema di Roma).
Strano, ma forse non troppo, che la contesa sul red carpet capiti nella sobria capitale sabauda, strano che capiti al Tff, il principale festival italiano per ricerca e qualità. In realtà, del tappeto rosso se ne parla dai tempi della destituzione del professor Gianni Rondolino e dell’arrivo, nel 2007, di Nanni Moretti alla guida della kermesse: esplose l’attenzione dei media, le paillettes non arrivarono; bastava lui, il divo Nanni. E, così a ogni nuova edizione, qualcuno ci riprova a forzare la natura antidivistica del Tff. Quest’anno, nonostante i tagli, le pressioni si sono fatte insistenti. Nonostante Amelio avesse detto «Qui si viene per i film. Non ci interessa il red carpet né “il modello romano” col suo budget faraonico», la caccia al vip è diventato il leitmotiv delle ultime settimane. Il giovane Coppola non ha mollato il suo endorsement per l’attrice spagnola, musa di Almodóvar, impegnata a Torino nelle riprese di Venuto al mondo di Sergio Castellitto. Alla fine, questa sera, Penelope Cruz sarà ospite (a costo zero, a dispetto delle indiscrezioni su cachet milionari) dell’inaugurazione del festival al Teatro Regio. E ci saranno pure Valeria Golino, Charlotte Rampling, impegnata a Torino sul set di Baby Blues, e il neo-ministro all’istruzione Francesco Profumo. A chiudere indirettamente una polemica, a tratti surreale, ci pensa il regista finlandese Aki Kaurismaki (in programma con Miracolo a Le Havre), premiato con il Gran Torino: «Preferisco i lupi agli uomini pallidi di Wall Street, un horror con loro risulterebbe noioso».
[CONTINUA]

Da Linkiesta, 25 novembre

domenica 20 novembre 2011

La val Susa area di guerra

Area di interesse strategico nazionale. Così, con l'ultimo colpo di coda del governo Berlusconi, è stata trasformata l'area della Maddalena di Chiomonte, quella del cantiere del tunnel geognostico dell'alta velocità Torino-Lione. Lo prevede, per «garantire il regolare svolgimento dei lavori», l'articolo 19 della legge di stabilità, approvata in tutta fretta lo scorso 12 novembre. Cosa significa? E quali sono le conseguenze? Quali diritti mette a repentaglio la militarizzazione della Val di Susa? Ne abbiamo parlato con Daniela Bauduin, avvocato, ed Elena Falletti, ricercatrice in diritto privato comparato, che, dopo aver analizzato i limiti democratici delle ordinanze emesse dalla prefettura di Torino da giugno a ottobre, hanno aperto un nuovo capitolo nella loro ricerca con interventi sulla rivista online Ipsoa della Wolters Kluwer. «Con il maxiemendamento - spiegano - viene dato al cantiere della Lyon Turin Ferroviaire (Ltf), società responsabile della parte comune italo-francese del futuro collegamento ferroviario, un riconoscimento di vera e propria intangibilità». Chiunque si introduca abusivamente nell'area della Maddalena rischia - secondo l'articolo 682 del codice penale (ingresso arbitrario in luoghi, ove l'accesso è vietato nell'interesse militare dello Stato) - un anno di carcere o una multa di 309 euro. Secondo le due studiose, «la militarizzazione del cantiere è l'antitesi di principi riconosciuti, anche a livello internazionale, quali la partecipazione delle popolazioni interessate ai procedimenti decisionali in materia ambientale come affermato dagli articoli 6 (Partecipazione pubblica in decisioni su attività specifiche) e 7 (Partecipazione pubblica ai piani, ai programmi e alle politiche in materia ambientale) della Convenzione di Aarhus (1998), recepita in Italia con la legge 16 marzo 2001 (n. 108)». E vacillano anche i presupposti in materia di sostenibilità ambientale della Carta europea dei diritti fondamentali.
Chiomonte-Napoli
Alle radici, esiste una mancanza di «pianificazione politica» che ha portato l'autorità amministrativa italiana al ricorso continuo e spropositato di strumenti giuridici «straordinari». «È stato, inoltre, praticamente negato ai rappresentanti istituzionali, dissidenti verso l'opera, il diritto di prendere parte all'Osservatorio presieduto dall'architetto Mario Virano. Estromettendo le popolazioni e gli enti locali dai procedimenti decisionali i rischi sono una radicalizzazione del conflitto Stato - cittadini e una minore trasparenza dell'attività amministrativa». Il caso paradigmatico della Val di Susa riporta alla memoria la recente gestione rifiuti in Campania, dove nel 2008 si sperimentò un decreto per rendere le discariche napoletane «siti di interesse strategico», con l'impiego di militari. Chiomonte e Napoli, mille chilometri di distanza: «Ma terre di guerra in cui si ricorre alla forza e a poteri derogatori sul piano normativo. Il tutto - concludono Bauduin e Falletti - in nome dell'emergenza e di una efficienza che mortifica un modo diverso di gestire la cosa pubblica e di svolgere attività amministrative ordinarie».

Da il manifesto, 20 novembre

mercoledì 2 novembre 2011

Democrazia sospesa in Val di Susa

Ingiustificate le ordinanze emesse per fermare i manifestanti

La Val di Susa è la cartina di tornasole dello scivolamento democratico in atto, di un'alterazione della forma di governo parlamentare. Come nel ricorso continuo a decreti leggi a Roma, così nelle ricorrenti ordinanze prefettizie - per sgomberi e zone off-limits - in Valle, qualcosa non torna. Entrambi dovrebbero essere adottati solo in casi straordinari di necessità ed urgenza. Non è così. Perché, allora, stabilizzare l'emergenza? Se lo sono chieste due studiose di diritto, Daniela Bauduin (avvocato, recente autrice con Giancarlo Ferrero di L'economia sommersa e lo scandalo dell'evasione fiscale, Ediesse) ed Elena Falletti (ricercatrice di diritto privato comparato), che hanno analizzato le ordinanze emesse dalla prefettura di Torino da giugno a ottobre.

Partiamo dalla prima, che ordinò lo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena (il presidio No Tav a Chiomonte), emessa il 22 giugno e notificata il 27. Il provvedimento si richiamava all'articolo 2 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, secondo il quale il prefetto nel caso di urgenza o grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare provvedimenti indispensabili per la tutela dell'ordine pubblico. Articolo, ricordano Bauduin e Falletti, dichiarato parzialmente illegittimo - nei limiti in cui attribuisce ai prefetti il potere di emettere ordinanze senza il rispetto dei principi giuridici - dalla Corte costituzionale nel 1961, che invitò il legislatore a intervenire. Ma il testo è rimasto inalterato e «molti prefetti hanno emesso provvedimenti spesso oggetto di censure di legittimità». In realtà, le ordinanze prefettizie non dovrebbero mai essere in contrasto con la Costituzione. Gli strumenti ordinari, davvero, non bastano? Il pretesto dell'urgenza non regge di fronte a una protesta che dura da 22 anni.

Sono poi arrivate le ordinanze del 29 luglio e del 30 settembre, quasi identiche, reiterate e prorogate che hanno, tra l'altro, vietato l'ingresso e lo stanziamento nell'area di persone cose e mezzi estranei alle attività di cantiere. Nemmeno un mese dopo, ecco quella prima della manifestazione del 23 ottobre, con la «zona rossa» istituita dal prefetto, che ha esteso l'area interdetta all'accesso dei manifestanti di alcuni chilometri. È seguita un'ordinanza della Questura, paventando una linea di «tolleranza zero». Provvedimenti «esorbitanti» e «in odore di incostituzionalità». «Questi strumenti - spiegano le studiose - rafforzano il ruolo del governo per far fronte a un'emergenza, che però viene qualificata come tale dallo stesso soggetto che esercita il potere straordinario. Ne consegue l'ampia discrezionalità del prefetto. Le ordinanze dovrebbero essere giustificate da un contesto di eccezionalità e provvisorietà, senza nascondere problemi strutturali e persistenti. Diversamente, si altera la forma di governo democratico-parlamentare». Il legittimo diritto alla sicurezza «non può prevaricare sul diritto di manifestare liberamente il proprio dissenso».

lunedì 31 ottobre 2011

Marchionne rinvia, l’indotto Fiat in Piemonte muore

L’ad Fiat è attivissimo nelle relazioni industriali italiane. Ma i dati di produzione e di vendita delle auto sono negativi e i piani per Mirafiori sono cambiati più volte. Così, di rinvio in rinvio, l’indotto piemontese (sedili alla Lear di Grugliasco, scocche alla Teksid di Carmagnola, gomma per interno motori, ammortizzatori e molto altro) soffoca. Tutto l’automotive arranca (chiude anche Pininfarina) e ormai pochissimi, secondo uno studio Ires, credono che l’accordo Fiat-Chrysler possa avere qualche ritorno positivo sul mondo della componentistica.

«Il lancio commerciale dei nuovi modelli Alfa Romeo e Jeep è previsto per il terzo/quarto trimestre del 2012». Era il 23 dicembre del 2010, il giorno dell’ accordo (senza la Fiom) per Mirafiori, e la Fiat comunicava i nuovi piani per lo stabilimento torinese. Nel mese successivo si sarebbe capito che si trattava di due suv a marchio Jeep e Alfa. Ottobre 2011, contrordine, il Lingotto annuncia in un comunicato, intestato col doppio stemma Chrysler e Fiat: «La produzione del primo modello, un suv a marchio Jeep, è prevista per la seconda metà del 2013». Quasi un anno di ritardo. Confermata la Mito e il suo restyling, volato invece in Serbia il monovolume L0, Mirafiori ha perso due dei cinque modelli prodotti fino al 2010 (Punto e Multipla), ne ha mantenuti altri due, Musa e Idea, quasi al capolinea, e si prepara a un lungo periodo di cassa integrazione. Ma a far le spese dello stallo del gigante Mirafiori e delle incertezze su Fabbrica Italia non sono solo i lavoratori delle Carrozzerie (e i più silenziosi degli Enti centrali, che – alla luce della nuova joint-venture – si domandano quali prospettive avrà la progettazione in Italia), sono una fitta schiera di aziende dell’indotto che in questi giorni comunicano esuberi o ricorrono alla cassa. [Continua]

Da Linkiesta del 30 ottobre

domenica 30 ottobre 2011

Gramsci, un brand di lusso

TORINO - Correva l'estate 2004 e una polemica rovente alimentava la calura torinese. A pochi passi dalla Mole e dal Carignano, in piazza Carlo Emanuele II, conosciuta da tutti come «Carlina», un palazzo storico e malmesso, destinato all'edilizia popolare, sarebbe stato - una volta sfrattati gli inquilini - «convertito» in albergo di lusso provvisto di ogni comfort. Niente, purtroppo, di così strano se non fosse che in quella casa aveva vissuto, dal 1914 al 1922, il giovane Antonio Gramsci, alloggiato presso la vedova Berra, madre dell'amico Camillo, in via San Massimo 14, con ingresso dal civico 5 (oggi 15) di piazza Carlina. E scoppiò la miccia tra fronti contrapposti della prima giunta Chiamparino: da una parte Pdci e Prc, dall'altra il resto della compagine. Toni forti e lacerazioni. «Giunta colta dal male della pietra» stigmatizzò lo storico Angelo D'Orsi, ricordando che in quel palazzo vissero, oltre all'autore dei «Quaderni del carcere», pure Angelo Tasca e i genitori di Gobetti.

Corre, ora, l'autunno 2011 e, spenti i fuochi della polemica, il cantiere, dopo continui rinvii e altre liti, è aperto da sei mesi. Da pochi giorni le impalcature sono state addobbate con il volto e le frasi del grande intellettuale comunista, che da oggetto di contesa si è trasformato in «brand». Certo, meglio di uno spot a un cellulare performante o a un arrogante suv, ma forse si adombra un po' di indulgenza mediatica. L'archigrafia è stata inaugurata il 24 ottobre dal sindaco Piero Fassino. La lunga «scenografia» di 46 metri ideata dalla Fondazione Istituto piemontese Gramsci, racconta alcuni momenti legati alla presenza del politico sardo a Torino, dalla formazione del suo pensiero all'eredità lasciata alle generazioni future. Rivestono i teli esterni alcune sue frasi: «Il mondo è grande terribile e complicato» (Avanti!, 1918); «Istruitevi! Avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza» (L'Ordine Nuovo, 1919). E spiccano i volti dei suoi interlocutori: Einaudi, Verga, Gobetti, Pirandello, Croce, Salvemini e Tasca. «Non sarà solo un'opera meramente commemorativa ma vuol diventare - spiega la Fondazione - l'occasione per un discorso ampio sulla cultura italiana, i suoi protagonisti e i suoi luoghi. E soprattutto sul suo valore per il presente e il futuro della città e dell'Italia». Nascerà anche un'area espositiva multimediale.

Prima di Gramsci, il palazzo aveva già una storia antica. Fu costruito nel '600 come «Albergo di virtù» per gli orfani, poi, nel '900, diventò casa per affitti della comunità ebraica torinese (Gramsci aveva abitato qui - come recita la targa posta sui muri - negli anni delle lotte operaie «contro l'incombente reazione, forgiando il partito comunista, guida decisiva per la libertà e il socialismo»). Poi, l'edificio fu destinato all'Atc (Agenzia Territoriale per la Casa). Nel 2001 il Consiglio comunale di Torino aveva presentato una mozione con la quale si indicava che la destinazione d'uso dell' immobile dovesse restare edilizia residenziale pubblica. Poco dopo, arrivò l'allettante proposta degli scandinavi Radisson e l'amministrazione Chiamparino cambiò idea. Agli svedesi subentrarono successivamente nel 2006 gli italiani De Giuli e gli spagnoli di Nh, vincitori dell'asta con un rilancio di soli centomila euro, rispetto alla base di 7,14 milioni. Il futuro di Casa Gramsci è un quattro stelle «superior».

lunedì 24 ottobre 2011

Vincono i No Tav



Diamoci un taglio. La manifestazione pacifica e determinata del popolo No Tav: 20 mila persone, a Giaglione, domenica 23 ottobre. Una jam session di tamburi, cori dei ragazzi, bandiere al vento, campanacci per festeggiare il taglio della reti che delimitavano la zona rossa.

Da il sito de il manifesto, 24 ottobre

venerdì 9 settembre 2011

Fiat, anche il sindacato Usa morde

Rinnovo contratto auto, luna di miele finita per Marchionne

Torino - Non è sempre così dolce l’american dream. E anche per il Lingotto il nuovo corso a stelle strisce non è privo di intoppi. La Chrysler, ormai targata Fiat, è attualmente impegnata nei negoziati con il sindacato Uaw (United Auto Workers) per il rinnovo del contratto del lavoro. E seppure sia tutto avvolto dal massimo riserbo, sembrerebbero ancora in alto mare. Oltreaceano non c’è la Fiom a cui imputare l’ingovernabilità delle fabbrica, ma la trattativa resta difficile e le posizioni tra la casa di Auburn Hills, guidata da Sergio Marchionne (da pochi giorni presidente della società), e l’organizzazione dei lavoratori, che siede nel cda, sono distanti. «Non siamo nemmeno lontanamente vicini a un accordo» ha riferito una fonte anonima al Detroit News.

Una prima distanza è quella sui salari, in particolare sulle paghe dei nuovi assunti: l’Uaw punta a ottenere un aumento delle retribuzioni degli “Entry-level Workers”. Secondo il presidente del sindacato Bob King i bassi stipendi dei neo-assunti metterebbero a rischio uno «stile di vita da classe media». Attualmente sono pagati 14 dollari l’ora, la metà di quanto prendono i dipendenti senior. Lavorano alla stessa catena di montaggio, ma con paghe diverse (e i malumori non sono più taciuti). I salari furono accettati in vista del rilancio dell’azienda - forse ora con qualche rimpianto - dallo stesso sindacato e approvati da un plebiscitario referendum.

Chrysler non commenta quelle che considera «illazioni» e con Gualberto Ranieri vice presidente delle comunicazioni Chrysler precisa: «Sta andando tutto come da copione». Alti e bassi sono fisiologici nei negoziati, ma i bene informati pensano che difficilmente si possa chiudere prima del 14 settembre, giorno in cui scadrà il contratto dei lavoratori delle tre sorelle di Detroit, Chrysler, Ford e General Motors. Sono coinvolti 113 mila lavoratori.

Quello in corso negli Stati Uniti è un negoziato molto importante, si tratta del primo dopo lo tsunami economico di due anni fa. La più avanti di tutte nelle trattative è la Gm. Ford è invece ancora a una fase iniziale e difficile. I lavoratori della storica casa di Deaborn hanno già minacciato lo sciopero. Eventualità invece impossibile in Chrysler e Gm: il sindacato non può scioperare in seguito all’accordo siglato con il governo Obama nel 2009 per il salvataggio delle due compagnie. Ultima questione i tagli sui costi sanitari: la Chrysler vorrebbe un maggiore e più diretto impegno da parte dei lavoratori nelle assicurazioni sanitarie. Contraria la Uaw, che però vuole trovare al più presto un accordo con Marchionne.

Da Il Secolo XIX del 9 settembre

mercoledì 24 agosto 2011

No Tav, torna la tensione. Ma la ditta dei lavori è fallita

Giornata di nuovi incidenti in Val di Susa. Sotto il viadotto Clarea ci sono stati forti momenti di tensione, con lanci di lacrimogeni. Il tentativo di allargare l’area del cantiere ha provocato le prime scaramucce. Una manifestante è salita sul braccio di una ruspa, bloccandone le operazioni. Un altro No Tav è stato fermato dalla polizia. Intanto, però, la ditta Italcoge, cui era stata assegnata a maggio la preparazione del cantiere della Maddalena, è fallita. E i lavori fatti finora sono fermi a una rete di recinzione

TORINO - Vacanze prescritte per i No Tav. Anche lontano dai riflettori, la mobilitazione del movimento contro il treno superveloce continua. «Fermarlo si può» ripetono ostinatamente a ogni iniziativa. Sugli alberi o digiunando, bloccando il Tgv o l’autostrada del Frejus, manifestando a Torino o, in Val di Susa, di nuovo davanti alle reti del cantiere del tunnel geognostico – ancora agli albori – dove anche oggi è risalita la tensione con la polizia. Spintoni, manganelli, lacrimogeni, una ragazza è salita sul braccio meccanico di una ruspa, bloccando i lavori di allargamento della recinzione del cantiere. Un altro No Tav è stato fermato. I carabinieri lamentano un ferito a un braccio.

Più si risale la valle, più la presenza delle forze dell’ordine diventa visibile: l’ingresso del cantiere che i No Tav chiamano “fortino” ha un severo check-point all’inizio della strada dei vigneti dell’Avanà. Ma delle trivelle della cooperativa romagnola Cmc di Ravenna, detentrice del maxi-appalto (140 milioni di euro) per la realizzazione della galleria, non c’è traccia. Fino a mezzogiorno del 2 agosto, la recinzione dell’area era a carico della Italcoge, poi è intervenuto il Tribunale di Torino e ha dichiarato fallita la società segusina. Una batosta per i 60 lavoratori – che avevano già allestito 400 metri di recinzione – non per colpa dei No Tav, ma, secondo la sentenza del Tribunale fallimentare, di un debito erariale compreso tra i 4 e i 5 milioni di euro e del mancato pagamento di rate a Equitalia per saldarlo. [Continua]

Da Linkiesta del 24 agosto

lunedì 22 agosto 2011

Torino: la protesta dei piccoli comuni contro i tagli



Tutti a Roma venerdì per evitare la morte dei piccoli Comuni. E' l'appello lanciato dalla piazza degli amministratori locali che oggi si sono riuniti in centinaia sotto la Prefettura di Torino per dire No al taglio dei piccoli Comuni previsto dalla Manovra. "Stiamo organizzando dei pullman, dobbiamo essere in tanti" dicono i sindaci. Sono 597 i Comuni piemontesi sotto i mille abitanti che rischiano la soppressione. In piazza insieme agli amministratori locali, sono presenti i rappresentanti delle quattro associazioni di Comuni che hanno organizzato il presidio, Anci Piemonte, Uncem Piemonte, Associazione nazionale piccoli Comuni e Legautonomie Piemonte, diversi assessori regionali e parlamentari piemontesi oltre al presidente della Provincia di Torino, Antonio Saitta.

Da Repubblica.it, 22 agosto

sabato 30 luglio 2011

Un deposito per ogni emergenza

A Saluggia rispunta la Sogin e parte il D2, il megacontenitore «temporaneo» delle scorie che aspira a diventare «permanente». Oltre 30mila metri cubi e 13 metri di altezza per una vita utile di 50 anni. A soli 12 milioni di euro

SALUGGIA - Quando era solo la capitale del fagiolo, Saluggia era conosciuta più che altro dai buongustai, ora che è diventata quella delle scorie radioattive - l'85% dell'eredità nucleare italiana è custodita qui (tra cui oltre 300 metri cubi liquidi a più alta radioattività) - la sua fama si è moltiplicata. Tristemente. I rifiuti sono tutti sistemati in una zona che più inadatta non potrebbe essere: la golena della Dora Baltea e vicino ai pozzi dell'acquedotto del Monferrato (a sostegno basterebbe citare per l'ennesima volta Carlo Rubbia che dopo l'alluvione del 2000 disse che si era sfiorata una «catastrofe planetaria»). In depositi «temporanei». Così, è sempre stato detto, senza convincere troppo i cittadini della piana vercellese. Ma adesso che la Sogin - la società incaricata del decommissioning - sta per avviare la costruzione di un nuovo mega deposito, D2, oltre 30 mila metri cubi e 13 metri d'altezza per una vita utile di 50 anni, lo spettro che questo diventi quello nazionale si fa più consistente. Nonostante le rassicurazioni di parte: «Ospiterà solo i rifiuti radioattivi già presenti nel sito e sarà demolito» ha rassicurato Sogin, dopo le proteste di ambientalisti e centrosinistra che considerano l'opera «spregiudicata e illegittima», concessa da una proroga dell'amministrazione di centrodestra del comune vercellese, in deroga al piano regolatore che vieta di costruire in quell'area.

Che senso ha spendere 12 milioni di euro per costruire un deposito temporaneo pronto per il 2014, nell'attesa della realizzazione del deposito nazionale che per legge (n. 368/2003 ancora vigente) doveva essere completato a fine 2008? L'Unione europea ha, tra l'altro, chiesto di disporre del deposito nazionale dal 2015 e Sogin lo ha previsto nel 2020. Le date, in questa storia, spiegano molto. «Invece di imporre la costruzione del deposito temporaneo - si chiede Gian Piero Godio di Legambiente -, perché non imporre, con le modalità di oggettività e di democraticità previste dalla legge, quella del deposito nazionale, che invece non è neppure stata avviata?».

L'autorizzazione al D2, in deroga alla normativa urbanistica, fu data a dicembre del 2005 dall'ex commissario Sogin, il generale Carlo Jean, in virtù di poteri speciali conferiti dall'«emergenza» dichiarata dal governo Berlusconi. Nonostante l'opera non sia stata costruita nei tempi previsti (inizio entro un anno e termine entro tre), nel 2009 la Sogin ha ottenuto dal comune di Saluggia una proroga di tre anni per l'«ultimazione» del progetto, seppure dal 31 dicembre 2006 fosse terminata lo stato di emergenza. La proroga è stata oggetto di un ricorso straordinario al capo dello stato di Rossana Vallino di Pro Natura, di interrogazioni parlamentari (Luigi Bobba e Roberto Della Seta, Pd, che si sono rivolti anche alla Commissione europea) e di una petizione promossa dal Pd locale - primo firmatario Paola Olivero, capogruppo dell'opposizione - che ha raccolto oltre 2500 adesioni: «Chi ha firmato la proroga per ultimare le opere connesse all'impianto Cemex, fra cui il D2, è un tecnico comunale, architetto Antonello Ravetto, che dichiara sul suo curriculum di essere consulente Sogin. Un lampante conflitto d'interessi» commenta Olivero. Recentemente, la Sogin ha comunicato l'avvio dei lavori del D2 per il 18 luglio (ma attualmente sono in sospeso per documentazione incompleta). Contrari il Parco del Po e cinque comuni limitrofi che contestano la legittimità delle decisioni di Saluggia e si dichiarano pronti «a opporsi con ogni mezzo consentito dalle leggi».

Se Sogin promette una «temporaneità», alcune contraddizioni svelano, secondo Paola Olivero, il contrario: «Per allontanare le scorie, è necessario che nella "filiera" vi sia anche il Waste Management Facility, ovvero l'impianto attraverso il quale i rifiuti dovrebbero essere ricondizionati e poi spediti al deposito nazionale. Ma, visto che non esiste neppure il progetto e l'autorizzazione dell'Ispra, l'affermazione che il D2 sarà smantellato dopo l'allontanamento dei rifiuti è una bufala». E ancora: «Sogin dichiara che metterà solo rifiuti di seconda categoria, mentre nel bando del 2010 parlava anche di rifiuti di terza categoria (a più alta radioattività, migliaia di anni di decadimento), per cui il deposito nazionale non è previsto. Significa che resteranno nel D2, nonostante nessuna ordinanza del generale Jean lo autorizzasse».

Uno dei paradossi di Saluggia è che non ha mai ospitato una centrale, quella di Trino si trova a 25 chilometri di distanza. Per risalire alle radici di questa pesante epopea, dobbiamo tornare al 1970. Quando, accanto al deposito Avogadro (dove sono custodite le barre destinate al riprocessamento francese) realizzato da Fiat a fine anni '50, entrò in funzione l'Eurex, l'impianto di riprocessamento dei combustibili nucleari, di proprietà dell'Enea ora in gestione alla Sogin. Arrivarono elementi di combustibile irraggiati e rifiuti radioattivi derivati. Provenienti non solo dalle quattro centrali italiane, ma anche dal Canada. Questo, spiega il difficile presente del comune vercellese. Godio, Legambiente, conclude: «Dopo il risultato del referendum, ha senso che a gestire la disattivazione siano gli stessi enti e persino le stesse persone che erano state scelte dal governo per rilanciare il nucleare? Nel frattempo, bisognerebbe sospendere almeno le attività nucleari non ancora avviate, come la realizzazione del mega deposito nell'incredibile sito nucleare di Saluggia».

Da il manifesto del 30 luglio

martedì 26 luglio 2011

No Tav: «Mafia e guerriglia non ci appartengono»

Strategie di pace in Val di Susa

Una sequenza spiega più di tanta retorica sugli scontri. E non è uno stralcio delle cosiddette scene di guerriglia, ma una panoramica dell'assemblea serale dei No Tav, dopo ore passate sotto i gas lacrimogeni. È la fotografia di un movimento vivo, plurale e determinato, un'immagine lontana dalle distorsioni mediatiche. Domenica, sono da poco passate le 21 e al campeggio nei pressi della centrale di Chiomonte sono stati spenti anche i fornelli. Prima della sbobba si deve discutere quello che è successo nelle ultime settimane. Elaborare una «strategia collettiva». Ha ancora senso l'assalto al cancello all'inizio della strada dell'Avanà per finire per la sesta volta gasati dai Cs? Pareri e voci si mescolano. «L'obiettivo non è quella cancellata precaria, ma è lassù» dice Alberto Perino indicando La Maddalena. «Là in alto, dove vorrebbero far partire i lavori e portare le trivelle». Una proposta: «Andiamo davanti alle recinzioni tutti nudi con la maschera di Berlusconi». E altri: «Dobbiamo durare anni, non sprecare le energie in una settimana, lavorare su più livelli». «Riportare il tema del Tav sul piano politico», quello suo naturale che non è l'ordine pubblico, ma per farlo devono andare via le «truppe d'occupazione». Così, potrà ricominciare il dialogo.

La Val di Susa è pronta a spiegare democraticamente le ragioni del No. Non vorrebbe più rivedere un volto insanguinato come quello di A., attivista che, mentre cercava di documentare con la macchina fotografica la repressione delle forze dell'ordine, è stato colpito in pieno volto da un lacrimogeno. Portato d'urgenza all'ospedale di Susa è stato ricoverato in prognosi riservata, ha subito diverse fratture facciali, lacerazioni a palato e gengiva. Dal letto del pronto soccorso denuncia: «È vergognoso che un tutore dell'ordine, un carabiniere, spari ad altezza uomo. Poteva andarmi peggio se non avessi avuto la mascherina antigas». Domenica, è stata un'altra giornata di tensione (l'assedio al cantiere e tanti lacrimogeni in risposta, piovuti fino al campeggio), iniziata in realtà in allegria con il raduno di trecento alpini no Tav contrari all'utilizzo dei militari della Taurinense a presidiare il fortino militare. Poi, erano seguiti gli interventi commossi della madre di Carlo Giuliani, Haidi («Il g8 di Genova oggi è qui, dove stanno violando tutto») e del papà Giuliano («Penso che ci siano forze dell'ordine che non condividono le porcherie di altri, ma devono prendere le distanze, denunciarli»).

Successivamente, il cielo limpido del Rocciamelone si è coperto di nebbia ed è stata «battaglia». Intossicati tra i No Tav, cinque feriti tra i carabinieri a detta della Questura, che ha sostenuto di aver interrotto le operazioni per la presenza di due bambini «tra gli antagonisti che scardinavano il cancello». La brutta allusione che li avessero usati come scudi umani è stata rigettata con sdegno dal movimento. Come quella insopportabile che i No Tav c'entrassero con il raid vandalico - un furgone dato alle fiamme - subito due notti fa dalla ditta Italcoge di Susa, una delle aziende che lavorano nel cantiere della Maddalena. Forte la condanna dei No Tav: «È stato un atto di chiaro stampo mafioso che non appartiene né alla nostra metodologia né al nostro dna». Secondo i No Tav, ha detto Perino, «è in corso un disegno torbido volto a criminalizzare il movimento». Per sostenere la tesi dell'attentato di stampo mafioso, ha raccontato che «due anni fa la Italcoge aveva l'appalto di lavori sull'autostrada Salerno-Reggio e si era trovata mezzi bruciati dopo aver denunciato la richiesta di pizzo su alcune fatture». Tesi indirettamente confermata dalle preoccupazioni di Pisanu e Cota sul rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata nei cantieri Tav.

Da il manifesto del 26 luglio

sabato 9 luglio 2011

Sintonie ad alta velocità

Tav, a Torino arriva Aubry, segretaria del Psf: «In Francia nessun problema». Bersani gongola

TORINO - Tra una piattaforma europea «per cacciare le destre» da una parte e le primarie, in tempi più o meno stretti, dall'altra, non si poteva non parlare di Tav. Così è stato, con inevitabili convergenze, nell'incontro a Torino tra il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, e quello del Psf, Martine Aubry, candidata alle primarie per le presidenziali francesi. Sorrisi e sintonie - sotto lo sguardo compiaciuto del padrone di casa, Piero Fassino - distanti dalla fiaccolata per il «bene comune» che poche ore dopo avrebbe invaso la città della Mole.

La Torino-Lione rimane opera irrinunciabile e strategica. Insomma, il Pd tira dritto e incassa l'appoggio dei socialisti francesi. Se nella base del partito o in valle ci sono perplessità, rimangono non senza disappunto minoritarie. «Il problema è, più che come si realizza una ferrovia, come funziona una democrazia. Una decisione democratica può essere contestata, non impedita. Bisogna lavorare all'interno di quella scelta. Non esiste nessuna possibilità di accettare o giustificare atti violenti», taglia corto il segretario del Pd. Che aggiunge: «Vi ricordo che parliamo di una ferrovia, non di un bombardiere».

I due leader, Aubry e Bersani, sono entrambi all'opposizione nei rispettivi paesi, ma con l'ambizione di guidarne presto i governi. La strada non sarà in discesa. La prima, attualmente favorita per il successo alle primarie, ha la grana interna, il caso Strauss-Kahn («Lasciatelo respirare non strumentalizzate la situazione, adesso ha il processo in Usa poi deciderà se rientrare in politica»), il secondo ne ha diverse, a partire dal governo Berlusconi, sul cui stato di salute si dice allarmato: «L'Italia rischia e l'esecutivo è nel marasma». Da Torino, pianificano la «riscossa». Allo studio tra Pd e Psf ci sarebbe, infatti, una bozza programmatica, che vedrà la luce in autunno e che sarà la base della lunga campagna elettorale che impegnerà il centrosinistra di diversi paesi, dalla Francia, alla Spagna, dalla Germania alla Polonia. Una piattaforma che parlerà anche di infrastrutture e collegamenti europei. Quindi, pure del Tav.

Tocca alla Aubry - sindaco di Lille (città gemellata con Torino) oltre che segretario del Psf - dire la sua sull'argomento che più scotta, sottolineando le differenze d'Oltralpe: «In Francia tutta la sinistra è stata unanime nel sostenere il progetto della Torino-Lione. Sono molto dispiaciuta per gli eventi italiani e come Bersani dico che dal momento in cui la democrazia si è pronunciata non c'è nessuna giustificazione alla violenza. È un collegamento molto atteso da anni sia dall'Italia sia dalla Francia - ha sottolineato - È indispensabile per costruire un modello nuovo di sviluppo dell'Europa e per raggiungere uno sviluppo sostenibile». E a proposito delle polemiche sugli scontri che si sono svolti alla ultima, oceanica, manifestazione dei no Tav, ha detto: «Non c'è nessuna giustificazione alla violenza bisogna solo cercare di rassicurare chi ha
dei dubbi». Rimangono, invece, inevase le denunce contro gli abusi delle forze dell'ordine sollevate dagli avvocati del movimento.

Poi, Bersani - nell'ampio capitolo di politica interna - si sfoga: «Tra il marasma evidente nel governo e una manovra che dà un colpo enorme al sociale e lascia interrogativi sulle reali prospettive di stabilità, credo che l'Italia in queste ore corra qualche rischio. Sono seriamente preoccupato. Silvio Berlusconi invece di rilasciare interviste sui suoi disegni futuri (nel 2013 Alfano al governo e Letta al Colle, ndr) dovrebbe dire una parola seria, oppure andarsene. Non so più come dirlo: andare avanti così diventa pericoloso per il Paese. Se l'esecutivo non è in grado di governo deve andarsene». Un'ultima battuta sulla proposta di abolire le province,
riportata in auge da Idv e Fli: «Serietà, riduzione dei costi della politica, semplificazione istituzionale, sì, ma nessuna demagogia generica - spiega Bersani - perché altrimenti chiudiamo anche il parlamento e il Quirinale perché costano».

L'«altra sinistra», in serata, si è ritrovata in piazza con i no Tav, sindacati e tanti cittadini. Una felice risposta alla recente uscita del ministro dell'Interno Roberto Maroni: «In Val di Susa abbiamo visto una nuova forma di spontaneismo armato». Vincono le fiaccole, nonostante la pioggia.

Da il manifesto del 9 luglio

venerdì 8 luglio 2011

«Agenti fuori dalle regole»

Sgombero illegittimo, lacrimogeni, botte. La parola agli avvocati del movimento Convalidati gli arresti per i quattro attivisti, incesnurati, ora detenuti nel carcere delle Vallette

TORINO - È anche una questione di cronologia. Lo sostiene il pool di avvocati che segue il movimento No Tav e sta cercando di ricostruire con testimonianze, documenti e filmati, le violenze di domenica a Chiomonte. Un nutrito gruppo di civilisti e penalisti prepara ricorsi e denunce. Ma restiamo ai fatti. «Il 27 giugno, il presidio è stato sgomberato con un'ordinanza illegittima; il 3 luglio, le forze dell'ordine hanno respinto i manifestanti con metodi non congrui, fuori dalle regole d'ingaggio, lanciando sassi e bottiglie, sparando lacrimogeni ad altezza uomo e dal viadotto. Tutto questo dopo una mobilitazione popolare molto ampia, dieci volte tanto i numeri della Questura» spiega Claudio Novaro, che precisa: «Noi c'eravamo e abbiamo visto». I legali ribaltano la versione della Digos, i ruoli di aggressori e aggrediti e sottolineano la scansione degli avvenimenti. «Già, il lunedì precedente, le forze dell'ordine avevano "gasato" i manifestanti con il lancio di svariati lacrimogeni».

Era il giorno in cui l'ordinanza del Prefetto entrava in vigore, ma sarebbe stata notificata al presidente della comunità montana, Sandro Plano, solo dopo l'operazione («tra l'altro, uno sgombero senza megafono come invece vorrebbe la procedura» sottolinea Stefano Bertone). I legali avevano diffidato il Prefetto dall'intervento e sono ricorsi al Tar del Piemonte. «L'ordinanza è illegittima anche perché riguarda l'area del piazzale della Maddalena che non è interessata dal cantiere. Inoltre, impedisce il passaggio ai proprietari dei terreni e ai viticoltori».
Ed è ancora questione di cronologia se si va alle radici del problema, alla realizzazione di un'opera legittima o meno. Non lo è per il legal team. «Si parla del tunnel di base - spiega - ma non è stata indetta una gara d'appalto». Il 13 luglio, il Tar del Lazio deciderà - dopo aver valutato il ricorso dei sindaci delle valli di Susa e Sangone contro la procedura per l'apertura dei cantieri - se sospendere la delibera del Cipe del 18 novembre 2010 che ha approvato il progetto definitivo del cunicolo esplorativo de La Maddalena.

Tornando agli scontri di domenica scorsa che hanno infiammato le prime pagine, mentre i manifestanti facevano ancora le spese con i postumi delle cariche, l'avvocato Bertone aggiunge: «Il lacrimogeni con gas Cs sono cancerogeni. Se lanciati contro le persone possono uccidere, intossicare, provocare lesioni permanenti e cecità parziale». Sulle violenze il pool sta raccogliendo molto materiale (ha aperto anche una e-mail: segnalazionichiomontenotav@gmail.com ) e preparando denunce, per lesioni e danneggiamento, contro ignoti: «Visto che non sarà possibile individuare chi materialmente ha tirato pietre o danneggiato le tende, vorremmo fosse almeno individuato chi ha diretto le operazioni, al di là dei singoli episodi».

Ieri, il gip di Torino Federica Bompieri ha convalidato gli arresti per i quattro attivisti, ora detenuti nel carcere delle Vallette: Marta Bifani, 32 anni, di Parma, Salvatore Soru, 31 anni, di Maranello, Roberto Nadalini, 32 anni, di Modena, e Gianluca Ferrari, 33 anni di Marghera. «Il giudice non ha tenuto conto delle argomentazioni che abbiamo esposto durante l'udienza - ha spiegato Novaro - né del fatto che tre dei quattro arrestati sono incensurati». Intanto, se i fondi comunitari assegnati alla Torino-Lione subiranno un'ulteriore sforbiciata a causa dei ritardi nei lavori (a dirlo è il commissario europeo ai Trasporti, Siim Kallas), a Torino è tutto pronto per la fiaccolata per «il bene comune», promossa da intellettuali e sindacalisti, con partenza questa sera, alle 21, da piazza Arbarello.

Da il manifesto del 8 luglio

mercoledì 6 luglio 2011

Digos, la difesa: volevano uccidere

Come a Genova «Quelle molotov esposte con la nostra bandiera sono un déjà-vu che ci riporta alle menzogne degli agenti dopo l'assalto alla Diaz» replicano i manifestanti

TORINO - Con gli occhi non si può stare dappertutto. Ma è importante salvare, fotografare. Quando le diverse versioni non combaciano e le distanze diventano siderali, racconti e immagini possono sbrogliare i nodi della matassa. Lunedì erano stati i No Tav a spiegare come si erano svolti i fatti. Ieri, è toccato alla Digos, che sta concentrando le indagini «su circa 300 violenti» protagonisti degli scontri in Val di Susa. «Preciso che non stiamo parlando di appartenenti al movimento No Tav ma di quelli che possiamo definire black block» ha spiegato il capo della Digos di Torino, Giuseppe Petronzi. Una versione che il movimento rigetta totalmente: «Basta con queste leggende». La polizia ha mostrato il materiale che sarebbe stato sequestrato nei boschi di Ramats: estintori, roncole, molotov fatte con bottiglie di birra, maschere antigas, bottigliette con ammoniaca «sostanza che - ha precisato Petronzi - riesce a oltrepassare le protezioni degli agenti». Anche un mortaio artigianale con cui sono stati sparati dei fuochi d'artificio, secondo gli inquirenti ritengono il segnale d'attacco per i violenti nascosti nei boschi.

«Quelle molotov sul tavolo con la bandiera No Tav sono una triste immagine, un déjà-vu che ci riporta indietro di 10 anni, alla conferenza stampa dopo l'assalto alla Diaz» controbatte Francesco Richetto, No Tav: «Non abbiamo visto né bombe né fuochi, abbiamo invece raccolto immagini che testimoniano la violenza delle forze dell'ordine, i lacrimogeni lanciati ad altezza uomo o dal viadotto contro le telecamere di documentaristi. Poi, le pietre contro i manifestanti e la gente gasata dal pericolosissimo Cs (orto-clorobenziliden-malononitrile, ndr)».

«Noi - ha detto, invece, Petronzi - riteniamo di avere operato secondo le regole d'ingaggio, servendoci in maniera appropriata solo del normale materiale in dotazione. Inoltre, non sono stati sparati proiettili di gomma». E a proposito del lancio di oggetti dal viadotto dell'autostrada da parte dei poliziotti (video lo testimoniano) ha replicato che si trattava di «lacrimogeni a mano», gettati per disperdere chi si avvicinava alle recinzioni del cantiere.

La situazione è calda anche nei sindacati di polizia a cui abbiamo provato a chiedere come e se possono essere giustificati, nella gestione della piazza, «spari ad altezza uomo» e il rincorso a gas nocivi. Il Coisp (Coordinamento per l'indipendenza sindacale delle forze di polizia) ha ipotizzato addirittura il tentato omicidio degli agenti: «Volevano ucciderci. Molotov, bombe d'ammoniaca sono armi per ammazzare a differenza dei manganelli». Per il segretario torinese Giuseppe Campisi «le regole d'ingaggio impongono, se la distanza lo permette, che il lancio del lacrimogeno formi una parabola. Ma se manca la distanza le condizioni cambiano, in extrema ratio si può sparare ad altezza uomo. Comunque non mi risulta si siano verificati casi simili».

Sui gas lacrimogeni Cs? «Chiedete al Viminale che ce li dà in dotazione. Non ci risulta, però, siano così nocivi». Poi, aggiunge: «Spira un'aria pesante, qualcuno vuole il morto». La Silp Cgil con il segretario generale Claudio Giardullo condanna «le violenze preordinate» dei manifestanti: «Riteniamo che le forze dell'ordine si siano mantenute complessivamente all'interno delle regole. Per quanto riguarda i lacrimogeni Cs da tempo chiediamo che non vengano usati perché nocivi». Secondo il Sap (Sindacato autonomo di polizia) non sono stati sparati lacrimogeni ad altezza uomo e sui gas Cs il segretario Nicola Tanzi non accetta polemiche: «I mezzi a disposizione delle forze di polizia sono decisi per decreto. Non spetta a noi suggerirne la qualità».

Il dibattito sulla pericolosità del gas Cs ha almeno 10 anni. È messo al bando dalla convenzione mondiale sulle armi chimiche, ma solo in tempo di guerra. Uno dei primi a sollevarlo in polizia fu Gigi Notari, della sinistra Siulp, anche con posizioni scomode: «Ne discutemmo dopo Genova, insieme ai legali del Social forum in seguito alla denuncia di manifestanti che accusavano danni alla vista». Non accetta l'attuale militarizzazione della polizia: «Molto dipende da chi ha la responsabilità della piazza, dai dirigenti. Un ruolo che richiede pazienza e autorevolezza. Brutto segnale che in Italia tutto diventi un problema di polizia».

Da il manifesto del 6 luglio

martedì 5 luglio 2011

«Colpito con una spranga, umiliato con l'urina e lasciato sanguinare»


La storia di Fabiano, 29 anni, pestato dalle forze dell'ordine


TORINO - Bolzaneto è un mostro che ritorna. Succede quando i peggiori incubi diventano realtà. Non c'è pietà se sanguini. Anzi, ti gettano urina addosso e ti spaccano il naso con un tubo d'acciaio. E se gridi «basta» si accaniscono ancora di più. Loro sono gli uomini in divisa, i tutori dell'ordine. Lui, quello dell'incubo, è Fabiano Di Berardino, 29 anni bolognese, militante del Tpo e attivista della rete Global Project. Domenica si trovava a manifestare in Val di Susa, è stato massacrato di botte dalle forze dell'ordine ed è attualmente ricoverato al Cto di Torino con fratture a radio e ulna, setto nasale e lividi in tutto il corpo. «Adesso sto meglio» dice con un sorriso che fatica ad aprirsi a causa degli ematomi. «Ero vicino a una recinzione mentre cercavamo di riprenderci la Maddalena. Era un'azione simbolica, ma ci hanno aggredito con violenza. Mi hanno colpito con un lacrimogeno, quando mi hanno preso mi hanno pestato in dieci. Si accanivano senza pietà.

Poi, prima di portarmi nel deposito dei gas lacrimogeni e mettermi su una barella, mi hanno sputato in faccia, colpito nei testicoli e continuato a picchiare fino a quando non è arrivato un medico militare. Appena si è girato sono stato colpito sul naso con un tubo di ferro. Mi hanno detto che mi avrebbero ammazzato. Sulla barella hanno continuato a pestarmi. Un agente della Digos li ha invitati a smettere perché c'erano le telecamere. Poi, un dirigente di polizia si è avvicinato e ha fatto spostare la mia barella al sole dicendo che non meritavo di essere soccorso e che dovevo pagare per aver tirato le pietre. E che non mi avrebbe mai portato al pronto soccorso ma direttamente in Questura, dove mi sarebbe aspettato il peggio».

Un ragazzo di nome Davide, volontario della Croce Rossa, si accorge di Fabiano. Lo vede che sta male e perde molto sangue. È lui il suo salvatore. Lo fa portare all'ospedale di Susa, poi con l'elicottero, viste le gravi condizioni, al Cto di Torino. Il racconto di Fabiano è lucido. Non dimentica. Ricorda i particolari, pure gli altri manifestanti pestati. In particolare Gianluca Ferrari, un ragazzo di Padova, ferito e portato in carcere: «Stava malissimo» (i legali chiedono di poterlo incontrare, visto che non hanno più notizie). Di Berardino fa una considerazione, che rimanda a 10 anni fa: «È stato come a Genova, si voleva fare male e spaventare la gente, affinché non scenda più in piazza. Non si può massacrare una persona che chiede pietà, come ho fatto io, perché pensavo di morire. Perdevo litri di sangue e mi hanno lasciato sotto il sole per tre ore. La cosa più umiliante è stato un bicchiere di urina lanciatomi addosso. Questa è la polizia democratica di Maroni».

A fianco del giovane c'è Patrizio Del Bello, collaboratore dell'avvocato Simone Sabatini del foro di Bologna: «Stiamo raccogliendo le informazioni per valutare cosa fare. Dare un colpo con una mazza di ferro è quasi un tentato omicidio. Denunceremo quello che è accaduto perché non si verifichino più cose del genere in Italia, dove il reparto mobile, la celere, sfugge alle regole democratiche. Questo è il trattamento che ricevono ogni giorno immigrati e tossicodipendenti che non hanno possibilità di denunciare».

Da il manifesto del 5 luglio

Il VIDEO per Repubblica.it

La Val di Susa non ci sta

Il giorno dopo gli scontri di Chiomonte, la tensione rimane altissima e la versione del movimento No Tav non combacia con la vulgata mainstream. «Eravamo 60mila non 6 o 7 mila, qui black bloc non se ne sono visti, hanno sparato ad altezza d'uomo, ci siamo difesi con la resistenza popolare»

CHIOMONTE - La valle non ci sta. Non ci sta a passare per violenta. «Violenti sono loro, i poliziotti» dicono i No Tav. «I black bloc? Sono una balla inventata dai media. La gente si è difesa come ha potuto dai lacrimogeni proibiti e dai manganelli delle forze dell'ordine. Ci hanno gasato per ore. Sparavano da tutte le parti, dall'alto e ad altezza uomo, pure proiettili di gomma».
Il giorno dopo gli scontri di Chiomonte, la tensione rimane alta. Il movimento si è riunito sotto la tenda del nuovo presidio, all'inizio della Maddalena, poco prima della «zona rossa», per raccontare la propria versione di quello che è accaduto domenica. Non combacia con la vulgata mainstream, a partire dalle cifre: «Erano 60 mila i manifestanti e non 6 o 7 mila come vorrebbe la Questura». Tocca a Maurizio Piccione dei comitati rompere il ghiaccio: «Non c'erano black bloc stranieri, ma solo persone, in grandissima parte della Valle di Susa, che si erano equipaggiati con caschetti e maschere antigas per difendersi dopo quello che era successo lunedì scorso, quando i limoni erano stati una lezione di vita. Tutti a mani pulite. Giovani e vecchi».

«L'obiettivo era assediare il cantiere non occuparlo, passando dai sentieri di Giaglione - racconta ancora Piccione - chi è venuto era attrezzato per farlo. Abbiamo ripreso la baita, simbolo del nostro vecchio presidio, e scoperto che si trova fuori dalla recinzione che protegge i blindati e non i lavori, che non sono nemmeno iniziati, come ci vogliono far credere. Ci siamo avvicinati alle reti, ma ci hanno aggredito a colpi di lacrimogeni, pietre e getti di idranti. Noi ci siamo difesi come abbiamo potuto, non ci è rimasto altro da fare che continuare a difenderci». La baita presidio è diventata un'infermeria: 223 feriti, dicono i manifestanti. Per Lele Rizzo, uno dei portavoce No Tav, «è stato compiuto uno dei passaggi più alti della storia politica italiana. Il nostro modo di agire è quello della resistenza popolare. Si è inventato lo spauracchio dei black bloc perchè non ci si arrende all'idea di un'intera valle che vuole resistere».

Sulle future iniziative, risponde: «Ci riuniremo in assemblea, come sempre». Interviene Davide Bono, consigliere del Movimento cinque stelle: «Se indossare un casco e una maschera antigas per proteggersi significa essere black bloc, allora anch'io lo sono. Voglio ricordare che il movimento No Tav è pacifico e non violento, a differenza di quello che dice la classe politica, di destra e di sinistra, e anche il presidente Napolitano. Certo, ci sono stati manifestanti che hanno lanciate pietre. Avrei voluto fare resistenza non-violenta ghandiana, ma mi chiedo: Ghandi cosa avrebbe fatto davanti ai lacrimogeni Cs? Si sarebbe alzato e sarebbe scappato o sarebbe rimasto a soffocare come i topi?».

Alcuni documentaristi, tra cui Manolo Luppichini, hanno ripreso le cariche ad altezza uomo, gli spari dall'alto, i lanci di pietre da parte degli uomini in divisa. È una testimonianza forte, al presidio non c'è stupore, più rabbia: «Li abbiamo visti con i nostri occhi» dice una signora sui settanta. I valsusini sono esasperati dalla militarizzazione del loro territori, le lori voci sono spesso concitate e talvolta i rapporti con i giornalisti sfociano nel nervosismo.
Ma c'è chi prova a mantenere la calma. Tutti concordano nel dire che «non possiamo e non vogliamo cedere», sintetizza Nicoletta Dosio, esponente storica. Intanto, dal 10 al 30 luglio verrà allestito un campeggio internazionale a cento metri dal blocco della diga. Ieri, il silenzio pomeridiano è stato interrotto da un'esplosione che ha distrutto un camper abbandonato sotto il viadotto dell'autostrada del Frejus. Era dei No Tav. «L'hanno incendiato gli operai dell'Italcoge (la ditta incaricata dei lavori preliminari per il cantiere della Maddalena, ndr), protetti dalla polizia», è l'accusa lanciata da Francesco Richetto. Assente giustificato Alberto Perino: è stato ascoltato come persona informata dalla Procura di Torino sul recupero di «nuove lettere anonime» che gli sono state indirizzate. Ha lasciato il Palazzo di giustizia senza rilasciare dichiarazioni.

Da il manifesto del 5 luglio

giovedì 30 giugno 2011

«Ci riprenderemo la Maddalena»

Domenica la manifestazione a Chiomonte. Il tam-tam su Internet raccoglie 5 mila adesioni in poche ore. I legali del movimento No Tav denunciano la devastazione del presidio

TORINO - Chi arriverà in pullman, chi in treno, chi in macchina o in autostop. Insomma, il tam tam per la manifestazione nazionale del 3 luglio a Chiomonte è iniziato. Basta andare su facebook per farsi un'idea: in poche ore le adesioni alla marcia sono diventate quasi 5 mila. Ed è prevedibile che, domenica, le persone saranno molte, molte di più. Alla fiaccolata di martedì sera a Susa erano in 20 mila, dietro lo striscione «La valle che resiste e non si arrende». Un lungo serpentone di luci, canzoni e bandiere, ha sfilato per il capoluogo della valle. Tante le famiglie; molti i sindaci e gli amministratori locali con la fascia tricolore

Una cosa era balzata subito agli occhi, la distribuzione della mappa per raggiungere la Libera Repubblica della Maddalena, l'ex fortino No Tav ora in mano a 600 agenti. Quindi, non è perso. Anzi, è l'obiettivo; i No Tav hanno fatto una promessa: «Vedrete, ci riprenderemo la Maddalena». Domenica, ci proveranno. E se non ci riusciranno non sarà una sconfitta, ritenteranno ancora, con pazienza e testardaggine, fino al conseguimento di quello che non è un miraggio: «Sarà dura», urlano in coro. Nel 2005, a Venaus, una grande marcia riconquistò la prima area di cantiere dell'alta velocità. Ora, però, la valle è ancora più militarizzata.
Alberto Perino ha concluso la fiaccolata di Susa lanciando un appello per domenica: «Bisognerà venire con gli scarponi e lo zaino. E magari una maschera antigas, occhialini da piscina e limoni, non si sa mai. Andremo nei boschi per riprenderci la Maddalena. Sarà complicato, è tutto blindato. Noi non abbiamo fretta siamo muntagnin (ha detto ridendo, ndr) e abbiamo il passo calmo. Sarà la prima di una serie di grandi manifestazioni che continueranno fino a quando non riusciremo nel nostro scopo. Già da domenica faremo capire che sarà difficile tenere blindato quel territorio. Tremonti ha detto che non potrà costare più la vigilanza dell'opera stessa. Se no, non vale la pena». È probabile che la partenza della marcia del 3 luglio sia spostata a Susa, una sede migliore per accogliere un grande afflusso di persone, l'arrivo rimarrà Chiomonte e la manifestazione si chiuderà alla Maddalena. Ci sarà da camminare di più , ma la fiducia è alta. Beppe Grillo sarà presente («non vedo l'ora di esserci, tutti dovremmo andare»); Rifondazione con il segretario Ferrero ha subito aderito.

Sul web si alternano messaggi di persone che offrono posti in macchina per raggiungere la valle. Un bel segnale, che giunge nel giorno della nascita di Amelie Marie Maddalena, figlia di una coppia valsusina. L'hanno chiamata così in onore della località di Chiomonte che è diventata simbolo del movimento contro l'alta velocità. E se la commissione Ue spinge l'Italia a siglare l'intesa bilaterale con la Francia sulla ripartizione finanziaria, Gianni Vattimo invita l'Europa a non erogare fondi per un progetto «fatalmente condannato a fallire».

Ieri, alla Maddalena, sono continuati i lavori di recinzione del cantiere per il tunnel di base, scortato da centinaia di agenti. L'assessore alla cultura di Chiomonte, Cristina Uran, si è dimessa in lacrime e in polemica: «La polizia si è piazzata lì, nelle stanze del museo archeologico della Maddalena, senza chiedere neppure il permesso. È troppo». E mentre magistratura e forze dell'ordine visionano i filmati degli scontri per identificare chi ha lanciato sassi e oggetti, i legali del movimento denunciano la devastazione del presidio e delle tende dei manifestanti da parte delle forze dell'ordine: oggetti rubati, urina e feci sulle tende. Scrive notav.info: «I dirigenti di polizia prima hanno dato la colpa ai cinghiali, poi agli operai e infine, con mezza ammissione, hanno spiegato che può succedere. La tenda più grossa, ben sfregiata, è quella del pronto soccorso. Questa è la civiltà e la morale dei "conquistatori" della Maddalena?». Il Movimento cinque stelle di Torino, infine, denuncia l'utilizzo di lacrimogeni contenenti Cs (orto-clorobenziliden-malononitrile): «Un'arma chimica vietata nelle guerre internazionali».

Da il manifesto del 30 giugno

mercoledì 29 giugno 2011

Perino: «Hanno devastato il presidio»

Ex bancario ed ex sindacalista della Cisl, Alberto Perino è uno dei leader del movimento No Tav. Carismatico, battuta pronta, modi spicci, questa volta è davvero sconsolato. Anzi «incavolato nero». Ieri mattina, è tornato al presidio della Maddalena, sgomberato con violenza dalle forze dell'ordine. È andato con i camion dei Comuni per recuperare tutto il materiale abbandonato dopo la distruzione del presidio, «a testa alta e con dignità».

Perino, che situazione avete trovato alla Maddalena dopo lo sgombero di lunedì mattina?
Terribile. Sono ore che sono qui e ancora non mi capacito di quello che hanno potuto fare. Hanno devastato tutto, tagliuzzato le tende dei manifestanti, rubato abiti femminili. Addirittura, hanno fatto i loro bisogni dentro le canadesi. Davvero gesti infami, non da Stato democratico.

Qual è il clima in Val Susa e come sta il movimento?
Il movimento è più unito che mai. Non ci arrendiamo e non lo faremo mai. Continueremo a testa alta con le nostre ragioni e la nonviolenza. Lo sgombero della Maddalena non è stato una resa, noi andiamo avanti.

Si stanno svolgendo presidi e sit-in in tutta Italia in vostra solidarietà, che effetto vi fa?
Oggi (ieri, ndr) è una giornata difficile. Speravamo di portare in salvo qualcosa ma è un'impresa impossibile dopo la distruzione violenta che c'è stata. Quindi non riesco a tenere i collegamenti con tutti. Ma mi arrivano continuamente voci e informazioni. E non può che farci piacere, visto la nostra non è una lotta nimby. Riguarda tutti e riguarda il bene comune: il nostro paese, la nostra vita e quella dei nostri figli.

Quali saranno le prossime iniziative?
Ce ne saranno ogni giorno. Dopo la fiaccolata di Susa prepareremo la manifestazione nazionale di domenica (decisa in assemblea a Bussoleno) che dovrà essere grande e partecipata. Invitiamo tutti a venire a Chiomonte.

Da il manifesto del 29 giugno

La valle che non si arrende

Migliaia di persone a Susa per la fiaccolata. Domenica manifestazione a Chiomonte Sono 24 (su 43) le amministrazioni comunali della valle che si sono dichiarate contrarie all'opera

Che testa dura questi valsusini. Difficile farli arrendere, non demordono. Il movimento è ripartito subito, dopo la violenza (lacrimogeni e manganelli) e lo sgombero. Ieri sera alcune migliaia di persone hanno partecipato alla fiaccolata a Susa, dietro allo striscione «La valle che resiste non si arrende». La manifestazione nazionale del movimento si terrà domenica a Chiomonte.
Nella mattinata di ieri è stato, invece, organizzato un presidio di protesta, vicino alla centrale idroelettrica, sulla strada dell'Avanà, davanti all'ingresso di quella che è stata la Libera Repubblica della Maddalena. Un tam tam su internet ha chiamato alla partecipazione. Sono arrivati in tanti, a controllarli c'erano un centinaio di carabinieri: «Siamo sempre più militarizzati, non è una vita normale», si sfoga una signora. E mentre proseguivano i lavori per l'avvio del cantiere del tunnel geognostico e ripartiva la circolazione sull'autostrada A32 (chiusa dalle forze dell'ordine per demolire il guard rail e infrangere le barricate No Tav), alcuni camion di comitati e comuni, autorizzati dall'amministrazione di Chiomonte, si dirigevano al piazzale della Maddalena per recuperare il materiale del movimento.

All'arrivo, il panorama è stato desolante, tutto devastato (come racconta Alberto Perino nell'intervista accanto): tende danneggiate, feci sui sacchi a pelo, vestiti rubati. I No Tav sono riusciti a salvare ben poche cose. Ora, nel luogo dove per oltre un mese si sono alternati dibattiti, concerti e assemblee, restano solo sacchi di rifiuti, qualche sedia e scaffalature. Centocinquanta uomini della società Italcoge e delle altre aziende lavorano per piazzare le recinzioni, preparare le strade per i mezzi, creare lo svincolo dall'autostrada A32. Il cantiere è presidiato da polizia e carabinieri. Intanto, a Chiomonte, il sindaco Renzo Pinard, centrodestra, si sente abbandonato dallo Stato e maltrattato dai No Tav e minaccia le dimissioni: «Sono stufo di proclami da qualunque parte arrivino; i politici alzino il c... e vengano in Valle di Susa a vedere dove è la Tav, dove è la Valle di Susa, dove sono i problemi». Se il comune di Chiomonte è favorevole al tunnel di base, sono invece 24 le amministrazione contrarie al Tav. In totale, i comuni della Comunità montana Valle Susa e Val Sangone, presieduta del presidente Sandro Plano (Pd ma contrario all'opera), sono 43 ma solo una parte è interessata dal tracciato della Torino-Lione, in particolare quelli della bassa Val di Susa. Il fronte istituzionale è parte integrante del movimento. I sindaci sono stati sulle barricate e hanno cercato di trattare con la polizia.

Le forze dell'ordine (e la politica) hanno certo vinto il confronto militare, ma non quello democratico. C'è una valle che chiede di essere ascoltata non caricata. Una battaglia sicuramente l'hanno vinta i No Tav, quella su internet: siti e profili facebook aggiornati in tempo reale, una documentazione e un approfondimento continuo. Come i 150 motivi per dire no alla Tav proposti da Pro Natura: dall'insostenibilità dei costi all'ampia capacità delle infrastrutture esistenti, dalla caduta del traffico merci su questa direttrice alpina all'impatto dei ventennali cantieri.
La protesta va avanti. «Ci riprenderemo La Maddalena» dice Perino. Per Paolo Ferrero, segretario Prc presente durante la notte d'attesa e il blitz, «l'occupazione militare della Maddalena a Chiomonte non chiude la battaglia contro la Tav, opera dannosa anche per le tasche degli italiani, con i suoi 20 miliardi di spesa per lo stato italiano. La Val di Susa è parte di una battaglia più grande sui beni comuni: dall'acqua al territorio al lavoro. Proponiamo la costruzione di una Costituente dei beni comuni che raggruppi tutti i movimenti».

Da il manifesto del 29 giugno

martedì 28 giugno 2011

"Aiuto soffochiamo". Poi la fuga nel bosco

La lunga notte nel presidio di Chiomonte. Nel fronte del no anche lo storico Revelli e l'ex ministro Ferrero. Dopo, le urla e la rabbia dei manifestanti in mezzo alle barricate "Stalingrado" e "Saigon"

CHIOMONTE - Alle 3 di notte l'attesa al presidio No Tav si riempe di tensione. Dicono: “Sono partiti!”. Si riferiscono ai blindati e alle forze dell'ordine avvistati a Bardonecchia e a Torino. Manca poco all'ora del blitz. Le indiscrezioni diffuse alla fiaccolata di Chiomonte, quindi, erano fondate. I numerosi manifestanti si ritrovano nel piazzale della Maddalena, cercano di fare il punto. I sorrisi diventano stretti. Si distribuiscono nelle varie barricate, nei tre punti d'accesso: strada dell'Avanà, Giaglione e lungo l'autostrada Torino-Bardonecchia. Alcune donne preparano i caffé nello stand Alpi libere: “Bisogna stare svegli”. Il leader No Tav, Alberto Perino, aveva detto “Resistere resistere, resistere”. Ci proveranno tutti. Alla Maddalena sono in tanti, giovani e vecchi. Anche qualche volto conosciuto, lo storico Marco Revelli e l'ex ministro alla Solidarietà Paolo Ferrero. Sarà una giornata caldissima.

Poco prima delle 5 il cielo si riempe di fuochi d'artificio. È l'allarme in codice dei No Tav: “Sono arrivati”. E lo hanno fatto in forze, oltre duemila uomini: poliziotti, carabinieri e finanzieri. Ma sull'autostrada, la barricata Stalingrado dove si teme l'attacco maggiore, spuntano solo mezz'ora dopo. draghe con pinze, spalaneve e ruspe.I manifestanti li aspettano con bandiere e caschetti bianchi e urlano: “Giù le mani dalla Valsusa”. Intanto, con le prime luci dell'alba un elicottero sorvola la zona. Il presidio è grande ma le informazioni da un parte all'altra non mancano e la distribuzione delle “truppe” dipende dagli allarmi. Il primo fronte aperto è quello di Giaglione. Sugli altri è una guerra di nervi. Appena la draga incomincia a lavorare con il supporto dell'acqua sparata dagli idranti della polizia partono i cori: “Servi”, “Mafiosi”, ma anche lo storico motto No Tav, “Sarà dura!”. Ma quando òe pinze del mezzo si avvicinano ai volti dei ragazzi in prima fila con le bandiere gli equilibri si rompono. Sopra la galleria corrono in loro soccorso altri manifestanti, che spruzzano vernice contro il parabrezza dell'addetto alla draga. Sale la tensione. Turi Vaccaro, capelli lunghi e piedi nudi, pacifista nonviolento, salta la barricata arriva fino alla ruspa (“volevo solo benedirla” dirà), ma viene preso e fermato dalla polizia. Si diffonde la notizia che all'ingresso di Giaglione la resistenza è difficoltà, pure la barricata ha i suoi problemi alla Centrale, un serpentone di forze dell'ordine e blindati cerca di sfondarla. Qui gli amministratori locali provano a mediare, ma la risposta viene considerata irricevibile. “Ci hanno detto “vi lasciamo prendere le vostre cose e andare via”, noi abbiamo detto di no”. La barricata verrà sfondata alle 8,45 con il lancio di lacrimogeni.

L'attacco si fa più concreto anche contro le barricate Stalingrado e Saigon. I manifestanti resistono, con il loro corpo. Qualcuno tira pietre e oggetti verso la ruspa e le forze dell'ordine, ma viene subito ripreso dalla maggioranza del movimento, che urla di non farlo. Una ragazza si avvicina alle prime file e avverte: “All'unità di crisi (a Bussoleno dove si ritrovano i membri della Comunità montana) hanno detto che presto entreranno e sgombereranno. Hanno un'ordinanza del Prefetto”. Il pool legale dei No Tav scuote la testa: è illegittima: “Non possono cacciarci dal piazzale, perché è stata pagata l'occupazione di suolo pubblico”. Tira brutta aria: quello sarebbe dovuto essere il rifugio in caso di attacco finale. Gli avvocati avevano, tra l'altro, inoltrato una diffida al Ministero dell'Interno ed alla Prefettura di Torino: oltre ai diversi ricorsi ai Tar del Piemonte e del Lazio, infatti, molti dei terreni interessati dall’azione sono di proprietà privata o Ormai è chiara la strategia delle forze dell'ordine: accerchiare il movimento sui tre fronti, assediarlo e cacciarlo con la forza. L'attacco diventa durissimo. Lacrimogeni a raffica. Tantissimi.

Cadono le barricate, la polizia sale e scatta la paura. La fuga. I manifestanti si dirigono nei boschi, verso Ramtas. La Maddalena diventa una nube di fumo. Per chi si attarda è un incubo, tanti si sentono male, gli occhi bruciano e la gola pizzica: “Sto soffocando” urla un ragazzo a cui portano presto da bere. I sentieri tra gli alberi sembrano un luogo più sicuro. Non è così. Le forze dell'ordine sparano ancora lacrimogeni. Senza motivo, ormai hanno il controllo e il pieno possesso del presidio. La gente prosegue per il crinale della montagna con in mano limoni, fazzoletti e acqua. L'aria è irrespirabile, la metà è lontana. Ma nella disperazione scatta qualcosa, la voglia di dire: “Non è tutto finito”. «Abbiamo perso un round, non la guerra. Oggi è andata come si pensava. Non abbiamo potuto resistere a un attacco delle forze dell'ordine che hanno sparato migliaia di lacrimogeni. Andiamo avanti» dice Perino. La resistenza è subito ripartita: blocchi in Valle ma anche a Torino (dove è stato contestato il Pd e il sindaco Piero Fassino). Persa la Maddalena, dopo Ramtas, si corre a Chiomonte e poi a Bussoleno, per l'assemblea. Si devono decidere le prossime iniziative.

Da Il Secolo XIX del 28 giugno


La battaglia della Val Susa


Una raffica di lacrimogeni sparati da polizia e carabinieri contro i No Tav anche dopo lo sgombero del presidio. 80 feriti (tra cui anche alcuni agenti) è il bilancio di una giornata di guerra. Se i cantieri della Tav non apriranno entro il 30 giugno, l'Italia potrebbe perdere i fondi comunitari

Nemmeno i limoni per scacciare il dolore. Nemmeno i boschi per fuggire più sicuri. È stata una pioggia, una raffica di lacrimogeni senza scampo. Lanciati dai plotoni di polizia, carabinieri e finanza contro i No Tav. Anche quando, sgomberato tutto il presidio della Maddalena, i manifestanti sono corsi tra gli alberi, verso Ramats. Lanci violenti e senza motivo. Tra la nebbia, gli occhi rossi e la tosse, il movimento non si è perso d'animo. Sono stati proprio quei passi senza sosta, uno dopo l'altro, in salita e in fila indiana, e quelle voci finalmente amiche dopo la paura mista rabbia, a cementare una nuova forza tra i manifestanti. Una capacità innata di riorganizzarsi e dire, anche dopo una pagina nerissima per la democrazia italiana: «Non tutto è perso».

La giornata calda dei No Tav è iniziata dopo una notte passata quasi insonne alla Libera repubblica della Maddalena, seguita a una fiaccolata a Chiomonte bella e partecipata (5 mila persone). Allegra, tranne tristi presagi che si sono poi rivelati reali. Alle tre, poco prima dell'alba, l'attesa si fa davvero tesa. Dicono che mezzi e uomini sono partiti sia da Torino che da Bardonecchia. L'ansia sale e ci si ritrova tutti nel piazzale (la cui occupazione è stata pagata al Comune). I volti sono tirati, non si sa proprio cosa potrà accadere, stessa risposta anche per lo storico Marco Revelli che ha passato la nottata con i manifestanti. Poco prima delle 5 il cielo si riempe di fuochi d'artificio. È l'allarme in codice dei No Tav: «Sono arrivati». In forze, oltre duemila uomini sparsi tra gli ingressi al presidio. I manifestanti si spostano verso le barricate: Stalingrado, Saigon o quelle di Giaglione o vicine alla Centrale, sulla strada dell'Avanà. Caschetti, sciarpa, ma c'è pure chi non li indossa. «Sarà dura!», il motto del movimento, e Bella Ciao tengono alto il morale. Alle 5,30, appena le luci dell'alba migliorano la visibilità, spuntano uniformi e mezzi. Molti si piazzano nelle gallerie dell'autostrada Torino-Bardonecchia. Arrivano draghe con pinze, spalaneve e ruspe, un elicottero sorvola la zona. Lo farà per tutta la giornata. Inizia l'attacco, che per le prime ore tenta di logorare i nervi, poi si fa concreto.

Il primo fronte aperto è quello di Giaglione. Ma anche le altre barricate vengono colpite. I No Tav resistono. Una draga tenta di rompere il guardrail in vetro vicino alla barricata Stalingrado, la polizia spara acqua con gli idranti. I manifestanti si avvicinano alla grata che divide i due fronti. Partono i cori: «Giù le mani dalla Valsusa», «Servi», «Mafiosi». Le pinze del mezzo si avvicinano ai volti dei ragazzi in prima fila con le bandiere. Sulla gallerie corrono in loro soccorso altri manifestanti spruzzano vernice contro il parabrezza dell'addetto alla draga. La tensione sale alle stelle, la polizia ogni tanto esce dalla galleria, impugna gli scudi o fotografa i manifestanti. Arriva la notizia che Giaglione è difficoltà, pure la barricata vicino alla Centrale, dove un serpentone di forze dell'ordine e blindati cerca di sfondarla. «Aiutateli, chi può vada in loro appoggio» chiede Alberto Perino. Turi Vaccaro, pacifista nonviolento, salta la barricata arriva fino alla ruspa («volevo solo benedirla» dirà poi), ma viene preso e fermato dalla polizia.

Dopo momenti di stallo riparte l'attacco. La difesa diventa complessa. C'è chi tira pietre, ma servono a poco e molti urlano di non farlo. Sanno bene quanto siano già state strumentalizzate e quanti danni abbiano causato al movimento. «L'importante è che ci sia gente» dice una donna. E di persone ce ne sono davvero tante. Un movimento sfaccettato, ricco di anime e di solidarietà reciproca. Non può essere spazzato via dalla violenza della polizia, che - dopo che si è diffusa la notizia dell'ordinanza del Prefetto di sgomberare ogni zona della Maddalena -, pure quella regolarmente pagata dai No Tav, si prepara a sferrare il colpo finale. Gli avvocati scuotono le teste. Tira brutta aria. Il pool di legali aveva, tra l'altro, inoltrato una diffida al Ministero dell'Interno ed alla Prefettura di Torino: oltre ai diversi ricorsi ai Tar del Piemonte e del Lazio, infatti, molti dei terreni interessati dall'azione sono di proprietà privata o concessi dal Comune per manifestazione. Cade la barricata della Centrale e parte il lancio dei lacrimogeni. Fallito il tentativo di mediare dei sindaci, andato in fumo per «una proposta indecente» da parte delle forze dell'ordine: «Vi lasciamo prendere le vostre cose e andare via». La risposta è stata «No».

La strategia della polizia è ormai chiara accerchiare la Libera repubblica della Maddalena da tre fronti: dalla strada dell'Avanà, da Giaglione e dell'autostrada. Assediare i No Tav, con le maniere forti. Lacrimogeni senza sosta. E, soprattutto, ad altezza uomo. Cadono tutte le barricate. Le forze dell'ordine salgono, vengono da ogni parte. Qualche manifestante rimane ferito (saranno 80, compresi gli agenti, nel bilancio complessivo), altri si sentono soffocare: la Maddalena è una nube. Per chi si attarda è un incubo. «Ci siamo trovati di fronte ad un'operazione criminale, abbiamo subito un attacco che ha messo a rischio la vita dei manifestanti», dichiara Lele Rizzo. Le forze dell'ordine prendono possesso dell'intero presidio alle 9,30 (il cantiere può iniziare!). Bisogna correre, scappare. Una signora dai capelli bianchi e il viso sconvolto urla nei boschi: «Basta». La fuga verso Ramats è iniziata. Da lì ripartirà il movimento, che si ritroverà ancora più unito. La notizia di scioperi di lavoratori di Fiom, Cub e Usb li rallegra. «Abbiamo perso un round, non la guerra. Oggi è andata come si pensava. Non abbiamo potuto resistere a un attacco delle forze dell'ordine che hanno sparato migliaia di lacrimogeni. Andiamo avanti» dice Perino. La risposta del movimento è forte: dai blocchi in Valle a quelli a Torino (a Porta Susa), dall'occupazione del municipio di Chiomonte da parte delle donne del paese alla solidarietà ricevuta in ogni regione d'Italia, fino alla marcia di questa sera a Susa.

Da il manifesto del 9 luglio

sabato 25 giugno 2011

«Restiamo umani» in Val di Susa

Al presidio della Maddalena si attende l’intervento delle forze dell’ordine: «Vogliono logorarci, non ci riusciranno». È previsto entro pochi giorni. Le barricate dei No Tav sono state ribattezzate Stanlingrado e Saigon. Un appello di intellettuali a non usare la forza ha raccolto finora 900 adesioni

CHIOMONTE - Quando arriverà Godot? Si domanda un ragazzo in cima alla Maddalena. Anzi, Libera repubblica della Maddalena: il presidio, il fortino dei No Tav. E per Godot intende una scia blu di blindati che accecherà il cielo della Val di Susa, forse di primo mattino. «Arriverà. Arriveranno in massa. E lo faranno tra pochi giorni» rispondono i molti che passano le giornate qui, all’ombra dei castagni, dove si fa festa, si discute e si sta allerta, ma sempre col sorriso. Le labbra si chiudono solo quando si abbassano gli elicotteri delle forze dell’ordine sopra le teste dei valligiani e di chi partecipa al movimento (non solo gente di montagna). «Ci controllano, ci filmano, fotografano le nostre barricate». Ce ne sono tante, costruite a ogni accesso con legno, pietre e reti. All’inizio della strada dell’Avanà (il vino doc di Susa), sul torrente Clarea verso Giaglione o nei pressi dell’autostrada Torino-Bardonecchia, dove il 23 maggio scorso ci fu il primo tentativo, non andato in porto, di avviare il cantiere, scortato dalla polizia. Le due barricate, che costeggiano l’A32, sono state rinforzate e battezzate Stalingrado e Saigon. «Due, tra le poche battaglie che abbiamo vinto» dice Nicoletta.

La strategia delle forze dell’ordine è quella del logoramento. «Ma se fanno così hanno sbagliato in partenza, la gente continua ad aumentare» racconta un signore, non più ragazzo. Attualmente nel piazzale della Maddalena è in corso l’accampamento resistente – dove campeggia il motto di Vittorio Arrigoni «Restiamo Umani» – con iniziative ogni giorno. Musica, film, teatro, dibattiti. L’obiettivo è quella di fare della Maddalena uno spazio vivo, non solo di attesa ma di socializzazione. A suonare sono già venuti i Lou Dalfin e gli Statuto ed «è pieno di giovani band che chiedono di potersi esibire». Qui, si fanno assemblee con la Fiom e si tengono lezioni universitarie, come quella di Massimo Zucchetti del Politecnico sull’uranio e gli effetti sulla salute. Un tema centrale, quando si parla di un tunnel, in una zona uranifera come la Val di Susa.

La notte al presidio è lunga, ma passa alla svelta in compagnia di tante persone, un centinaio ogni volta. E quando le luci calano, l’età si abbassa, tanti i giovani. Le sentinelle e le vedette stanno in guardia. Qualsiasi movimento viene segnalato. Spesso sono falsi allarmi: si sdrammatizza e si pensa di vivere in una sorta di Fortezza Bastiani, raccontata da un redivivo Buzzati. Ma la tensione resta alta. Sembrano questi i giorni decisivi, quelli del blitz. «Lo aspettiamo tra domenica e lunedì. Siamo pronti a resistere» sussurra un manifestante, mentre collauda una barricata. Nelle ultime ore sono aumentate «le pressioni politiche» per l’avvio dei lavori, dal ministro Matteoli («una minoranza non fermerà i lavori»), agli assessori regionali Ravello e Bonino, che hanno lanciato una campagna porta a porta a favore dell’opera, al parlamentare Pd Esposito: «Basta con le chiacchiere. Lo Stato faccia lo Stato e apra i cordoni della borsa». Prima, c’erano stati gli avvisi di garanzia e le perquisizioni nei confronti di esponenti del movimento. E brutti segnali, dopo le pallottole ai deputati Pd, la busta con veleno per topi inviata ad Alberto Perino. Lo stesso veleno, fosfuro di zinco, che aveva ucciso il suo cane.

Tutti elementi che alimentano la tensione. Ecco perché il movimento chiama alla partecipazione. Per arrivare al presidio, basta risalire da Chiomonte la strada dell’Avanà, magari lasciando l’auto all’inizio della salita, dove uno striscione inaugura la Libera repubblica. C’è scritto: «Giù le mani dalla Valsusa» e due poco rassicuranti carabinieri in gommapiuma simboleggiano la militarizzazione della valle. Accanto, quello che alcuni chiamano «check-point», ma altri preferiscono definirlo «punto d’accoglienza». Su un lato, una frase di Francesco Guccini, che pochi giorni fa ha espresso simpatia per il movimento, recita: «Da sempre l’ignoranza fa paura e il silenzio è uguale a morte». I No Tav ce l’hanno messa tutta, in questi vent’anni, a informare l’opinione pubblica italiana su quanto fosse «assurda e inutile» quest’opera, che costerebbe tra 15 e 20 miliardi di euro (tre volte tanto il ponte di Messina). I contributi europei coprirebbero meno del 30% della sola tratta internazionale (il tunnel di base); il resto lo pagherebbe lo Stato italiano. I soldi europei se il cantiere non partisse entro giovedì salterebbero. Proprio quello che i No Tav vogliono.

Ieri, la Commissione europea ha confermato di aver inviato una lettera ai ministri dei Trasporti italiano e francese, ricordando l’impegno se non si vuole perdere una «parte sostanziale dei finanziamenti (672 milioni, ndr)». «Entro il 30 giugno il cantiere sarà aperto perché altrimenti sarebbe un delitto per le giovani generazioni» ha detto il ministro dell’Interno Roberto Maroni. Ha invece raggiunto le 900 adesioni l’appello contro le forzature Pro Tav (no a soluzioni militari e di forza), promosso, tra gli altri, da Luciano Gallino, Giorgio Airaudo, Livio Pepino e Gianni Vattimo.

Da il manifesto del 25 maggio

mercoledì 8 giugno 2011

Calcioscommesse, Guariniello: “Il calcio aspetti la giustizia”

Intervista al pm di Torino: “Da irresponsabili chiedere di accelleare le indagini”

«La giustizia ordinaria ha i suoi tempi d'indagine, guai a forzarli. Anzi, si devono tutelare col pieno riserbo. E meno male che esiste la giustizia penale. Se no, senza un'inchiesta di questo tipo, nel calcio non si sarebbero mai scoperti questi episodi». Raffaele Guariniello, procuratore aggiunto di Torino - protagonista di processi storici come quelli contro i vertici ThyssenKrupp ed Eternit, ma anche quello sul caso doping che vedeva imputata la società sportiva Juventus – non vuole entrare nel merito della vicenda Calcioscommesse («Non esprimo giudizi senza le carte. È una brutta e diffusa abitudine farlo»), dà un parere tecnico, che però pesa come un macigno. Il tono delle sue parole è come al solito sobrio ma contemporaneamente pungente. E segna un altolà a chi vuole a tutti costi accelerare i tempi.

Dottor Guariniello, se la giustizia sportiva deve attendere il lavoro di quella ordinaria si rischia di sospendere i campionati e così compromettere anche il mercato estivo?
«
Questo non posso saperlo. E se capiterà non sarà colpa dell'autorità giudiziaria, che non ha titolo per decidere. Sarà quella sportiva a definirlo. Non si deve assolutamente chiedere di forzare una prassi di indagine scrupolosa e indispensabile. Basta pressioni ai magistrati, che fanno di tutto per velocizzare i tempi. Ci sono, però, esigenze probatorie da garantire e tutelare».

Le squadre di calcio temono la scure della “responsabilità oggettiva” prevista dal codice di giustizia sportiva e corrono ai ripari annunciando di costituirsi parte civile nei processi penali, in quanto direttamente danneggiate. Vi sono contraddizioni?
«
Fortunatamente la responsabilità oggettiva non ha cittadinanza nella giustizia ordinaria, dove ha diritto di costituirsi chi si sente danneggiato. E in questo caso si deve valutare se un ente ha subito o meno un danno per il reato commesso da un dipendente o un danno di immagine. Ma, vorrei ricordare, che il processo penale non ha come scopo principale il risarcimento dei danni, ma l'accertamento della responsabilità penale».

E se spuntasse un legame, una connivenza, tra dirigenti sportivi, calciatori e giro di scommesse?
«
In quel caso se venisse riconosciuto un concorso di reato (per esempio, frode sportiva) i dirigenti potrebbero diventare imputati in un processo penale. Ma ancora una volta, la responsabilità oggettiva non ha rilievo».

La giustizia sportiva è in grado di autogestirsi?
«
Non ha i mezzi investigativi per farlo. Se non ci fosse stata un'indagine penale con i suoi metodi (intercettazioni e, se servono, perquisizioni...) il Calcioscommesse non sarebbe emerso. Certo, la giustizia sportiva ha tempi diversi, più celeri, di quella penale. Però, per fare un esempio, alla giustizia ordinaria non basterebbe sapere che un atleta sia positivo a un test antidoping per poterlo sanzionare. È tutta un'altra faccenda. Gli appelli a fare in fretta sono irresponsabili. Lasciamo la giusta serenità ai magistrati, poi anche la giustizia sportiva farà il suo dovere».

Da Il Secolo XIX dell'8 giugno