giovedì 25 giugno 2009

Giornata tragica sul lavoro: morti e feriti, soprattutto immigrati

TORINO - E' la mattina di ieri. Sull'autostrada Torino-Aosta, all'altezza di Arnad, Ahmed Nassroune, 57 anni, nato in Marocco ma residente a Crescentino (Vercelli), è al lavoro insieme a un gruppo di compagni. Tagliano l'erba sul ciglio della carreggiata. A un centinaio di chilometri più a sud, a Spinetta Marengo (Alessandria), anche Idrissi Atouf Marouw, 33 anni, marocchino pure lui, è al lavoro, al reparto stampa e laccatura della Comital, azienda del gruppo Management&Capitali che trasforma alluminio per imballaggi (marchi Cuki e Domopak). Due vite diverse, accomunate da una giornata tragica. Un'ora sola li divide. Ahmed è morto investito da un tir impazzito alle 9,15. Idrissi lotta tra la vita e la morte al Cto di Torino con il 90% del corpo coperto da ustioni di terzo grado. Erano da poco passate le dieci quando un incendio, causato dall'esplosione di un serbatoio, lo ha travolto, insieme ad altri tre operai. Non è il primo incidente nella ditta, piccoli incendi si erano già verificati. Ahmed e Idrissi sono il volto triste del rapporto Inail, in cui emerge che gli immigrati continuano a presentare un'incidenza infortunistica più elevata: 44 casi denunciati ogni mille occupati contro i 39 degli italiani. Ieri in serata, poi, un altro operaio è morto folgorato in un cantiere di La Spezia: aveva 34 anni.

«Ho visto Idrissi scappare completamente avvolto dalle fiamme - ha raccontato Enrico, un collega - E' uscito dalla fabbrica solo con dei brandelli di vestito appiccicati addosso». Secondo la dinamica ricostruita dai vigili del fuoco, i quattro operai stavano sollevando un serbatoio di vernice con un carrello quando si è rotto un rubinetto da cui è fuoriuscito del vapore e subito dopo una scintilla ha fatto divampare l'incendio. Gli altri tre ustionati, uno è marocchino, sono ricoverati all'ospedale di Alessandria, nessuno in gravi condizioni. Sul posto è giunto il procuratore Michele Di Lecce che ha disposto il sequestro dell'area. Oggi, Fiom-Fim-Uilm hanno indetto un'ora di sciopero in provincia. «Se dovessero emergere responsabilità dell'azienda ci costituiremo parte civile», ha detto Fausto Dacio (Fiom). «La Comital è un'azienda - osserva la Fiom - che è passata per diverse proprietà, l'ultima delle quali è costituita da un fondo di investimenti del gruppo M&C di De Benedetti, che hanno via via ridotto il numero di lavoratori e disinvestito nella sicurezza». Al tavolo con il prefetto, tra azienda e parti sociali, oggi la Fiom chiederà a Comital che investa e riparta, salvaguardando la sicurezza degli operai.

Sull'autostrada, in Valle d'Aosta, Nassroune è rimasto schiacciato sotto la cabina del tir che l'ha investito. A guidarlo un autista greco, diretto a Prato con un carico di carne suina. All'origine dell'incidente forse un colpo di sonno. Il camion ha sbandato in un rettilineo e ha travolto il furgone Ford con sopra un operaio fermo nella corsia d'emergenza, finendo poi nella scarpata dove Ahmed, sposato con due figli, e altri due operai lavoravano. Un loro compagno era poco più indietro. Sono tutti residenti nel vercellese e dipendenti della Ecogest di Ravenna. I feriti, due più gravemente, sono stati soccorsi e portati all'ospedale di Aosta, anche l'autista. Il bollettino di giornata è finito con due operai rumeni infortunati nel modenese. Impegnati nell'installazione di protezioni alla copertura di un ex zuccherificio, sono stati trascinati violentemente a terra dal ribaltamento della gru.

Da il manifesto del 25 giugno

lunedì 22 giugno 2009

La città operaia laboratorio dell'intesa Pd-Udc

TORINO – Sotto la Mole, nonostante la previsione di un’astensione crescente, c’è chi è intenzionato a giocare una partita nazionale. Il Pdl vorrebbe espugnare la provincia di Torino, uno degli ultimi baluardi del centrosinistra. Il Pd e l’Udc intendono, invece, misurare il peso della loro nuova alleanza. Un accordo che, a sinistra, ha suscitato molti mal di pancia: alla fine, si divideranno tra quelli che al seggio ci andranno per disciplina o per placare l’avanzata delle destre e quelli che se ne staranno a casa, per protesta. A confrontarsi al ballottaggio, il presidente uscente Antonio Saitta (44,3%) del Pd e Claudia Porchietto (41,5%) per il Pdl, ex presidente dell’Api. Il primo è in vantaggio di 32 mila voti, pochi rispetto agli auspici della vigilia, quando si sperava ancora al «miracolo» del passaggio al primo turno. La campagna elettorale più che su temi concreti si è risolta negli ultimi giorni in accuse reciproche e colpi bassi. «Non ha il senso delle istituzioni» ha detto Saitta dopo che l’avversaria si era presentata, a sorpresa, nella sede della Provincia di corso Inghilterra per distribuire volantini. «Solo attacchi personali di uno che ha lasciato 400 milioni di debiti» ha replicato Porchietto. Dibattito elettorale, certo, non elettrizzante.

L’apparentamento con l’Udc è la vera novità politica, anche se ha scatenato un vero e proprio putiferio tra le diverse anime della sinistra che, oggi e domani, saranno schierate in modi diversi: Sinistra e libertà (alle provinciali si chiama Sinistra per la provincia), pur considerando l’accordo con l’Udc inutile e confuso, invita a votare Saitta; il Pdci fa campagna per l’astensione e il Prc «da sabato scorso ha sospeso la campagna elettorale e la possibilità di sottoscrivere un appello pro Saitta», ha spiegato il segretario Renato Patrito. Ci sono, poi, 50 personalità (tra cui Giovanni De Luna, Giorgio Airaudo, Luigi Bonanate) che si sono espresse per il candidato uscente. In casa Pd, alle aperture di «lunga alleanza» con l’Udc fatte dal segretario regionale Gianfranco Morgando si sono aggiunte le dichiarazioni del parlamentare Giorgio Merlo: «In Piemonte sta nascendo un laboratorio politico nazionale che dovrà continuare fino alle prossime elezioni politiche». Qualcuno, però, nel partito frena un po’.

Intanto, a sinistra, si è scatenato un acceso dibattito sul web (sballottaggio.blogspot.com). «Lavoreremo per evitare che si affermi uno schema di rottura a sinistra e di scivolamento verso il centro - spiega Paolo Hutter -. Pensiamo poi che la presenza di Antonio Ferrentino (Sl) come consigliere possa rivelarsi un collegamento con gli esclusi». Su internet si va dal commento di Franco: «Tra votare Saitta per “più sicurezza ai cittadini" e la Porchietto per "cittadini più sicuri" non c'è differenza» a quello di Valentino: «Si voti Saitta e subito dopo si ricostruisca un solo partito di sinistra capace di raccogliere il 10%».

Antonio Ferrentino, uno dei leader No-Tav, è stato al primo turno capolista della lista di Sinistra per la provincia di Torino: «La garanzia resta il programma. A me interessa quando Saitta dice che bisogna limitare il consumo di suolo e quando anche sulle grandi opere come la Tav, nonostante le differenti posizioni, si parta dalle criticità evidenziate dall’Osservatorio e dal no al tunnel di base». Ciro Argentino è stato invece candidato a presidente per il Pdci: «E’ finita la politica del meno peggio – dice -, noi ci asteniamo».

Da il manifesto del 21 giugno

sabato 20 giugno 2009

L'unità di Sinistra

A Biella e Vercelli dove Sl e Prc stanno insieme. Niente «fratelli coltelli» ma alleati contro il Pd, nella capitale del riso e nella ex Manchester d'Italia, regno del tessile. Dove è nato un originale laboratorio politico partito dalle battaglie contro l'inceneritore

BIELLA - In quaranta chilometri si passa dalla piana del riso alle montagne. E così, il giallo delle spighe si trasforma nel verde dei pini. Un tempo il confine provinciale tra Vercelli e Biella non c'era, stavano assieme e la prima faceva da capoluogo. L'altra era il centro del ricco distretto del tessile. Questo, il passato. Ora, cinquantamila abitanti a testa, sono due realtà in crisi. Vercelli lo è da un pezzo - le industrie sono sparite e le mostre Guggenheim, sbandierate con clamore dall'amministrazione di centrodestra, non sono la panacea dei mali - la seconda le crisi le vive ad ondate, spesso più acute, sul finire degli anni Novanta come in questi giorni. E se nella città del riso, negli anni Settanta roccaforte rossa, il monocolore berlusconiano è cosa ormai assodata (è il feudo di Roberto Rosso), a Biella il ribaltone è successo solo lunedì, senza ricorrere al ballottaggio. Spodestato il Pd, il comune va a Dino Gentile, primo sindaco di centrodestra, e la provincia al leghista Roberto Simonetti. Ma proprio qui, su questa fragile traiettoria dove Berlusconi continua a mieter successi, si è verificata un'anomalia nell'ultima corsa elettorale. La sinistra è rimasta unita, o meglio alleata: Sinistra e libertà (a Biella, per la precisione, Sinistra per) con Rifondazione e il Pdci, sostenendo propri candidati. Nessun exploit, ma tre consiglieri - uno per competizione - eletti. E nell'ultima tornata è già buona cosa, soprattutto considerando il crollo di consensi nel nord-ovest e la penuria di amministratori locali confermati. I risultati ottenuti - tra il il 3,2% e il 4,9% - significano certo non un'avanzata ma una complessiva tenuta. Adesso, visto il clima da «fratelli coltelli» rispuntato sul fronte nazionale, Roberto Pietrobon, 31 anni, candidato a sindaco per la sinistra a Biella, che nel suo slogan elettorale scriveva «Amo sogno e non ho paura», non ha timore a dire: «Guardate cosa si riesce a fare quando si antepone al personale il politico e il bene comune». Potrà, allora, ripartire dal Piemonte un cantiere della sinistra? Loro qualche idea ce l'hanno. Prima, però, riscopriamo come sono nate entrambe le esperienze.

Giorgio Comella ha quella barba bianca che significa saggezza e tante stagioni alle spalle: 28 anni di sindacato e 15 da segretario della camera del lavoro di Vercelli. Anche se lui, a dirla tutta, arriva da Biella. Ma la gavetta se l'è fatta in pianura. Sul suo nome da candidare a sindaco si sono trovate d'accordo Sl e la lista comunista. Nulla nasce per caso: «Parte da un lavoro pregresso, dal laboratorio della sinistra, un'associazione con cui abbiamo condiviso diverse battaglie, come quella per chiedere la chiusura dell'attuale inceneritore, vecchio e inquinante. Si mangia 75 mila tonnellate di rifiuti all'anno e inibisce l'avvio di una raccolta differenziata, che a Vercelli, fanalino di coda del Piemonte, si fa solo per il 25%». E, ora, il rischio è che ne arrivi un altro di inceneritore, o termovalorizzatore che dir si voglia, prima previsto a Biella e poi dirottato verso Vercelli: comunque, sempre sulla nostra fragile traiettoria dove ancora la destra vince ma la sinistra si rialza. Il successo e la riconferma di Andrea Corsaro (Pdl) erano previsti, pure così larghi, 60%. «Noi con il nostro 4,1 di consensi non possiamo stappare lo champagne, perché la sinistra, nata per rappresentare le masse, può brindare solo con risultati a due cifre, ma questa è la base da cui ripartire» sottolinea Comella, che all'incarico da consigliere regionale per Sinistra democratica alternerà quello di consigliere comunale a Vercelli, per la sinistra tutta. Il Pd qui come a Biella ha praticato l'autosufficienza veltroniana. Ma la separazione è stata concorde, nessuno strazio e nemmeno screzio. «Così abbiamo unito la nostra sinistra e scritto 33 pagine di programma, perché i problemi a Vercelli sono gravi e la giunta Corsaro è stata impercettibile. Non bastano le mostre Guggenheim, più comunicazione che cultura, a risolverli». Dell'ambiente, ricordando inoltre che a due passi ci sono i depositi nucleari di Trino e Saluggia, abbiamo già detto. Poi, il lavoro: «C'era un'industria tessile e chimica forte. Attorno alla Montedison, chiusa a fine anni Ottanta, ruotavano 7 mila persone. Non è rimasto niente, solo il pendolarismo». Sono 15 mila i vercellesi che ogni mattina si alzano e lasciano la città di Silvio Piola e del Sant'Andrea. Ci ritornano alla sera, per dormirci. «Durante la campagna elettorale abbiamo puntato sulla multiculturalità, gli immigrati sono stati confinati in un quartiere già disagiato, Isola. Noi non vogliamo che diventi un ghetto, solo pratiche inclusive possono salvarci. Ecco perché abbiamo chiamato a suonare la Banda di piazza Caricamento di Genova, simbolo di integrazione non solo artistica».

Da Vercelli a Biella la musica non cambia. La chiamavano la Manchester d'Italia per quel distretto industriale del tessile che era un fiore all'occhiello. «Quell'appellativo è solo un ricordo, non ha più senso» dice Silvio Belletti, candidato alla provincia: «Se nel 1995, anno di fondazione della provincia, il tasso di disoccupazione era del 2,5% ora supera il 9% e continua a crescere. La monocultura tessile non occupa più del 20% dei lavoratori biellesi e solo per produzioni d'alta qualità. La Zegna Baruffa di Valle Mosso, azienda simbolo, ha gli operai in cassa integrazione. E come loro, lo sono in tutta la provincia 2700 persone». A un centrosinistra che non è riuscito a dare risposte concrete alla crisi, ha risposto un centrodestra che ha detto tutto e il contrario di tutto. Secondo l'attuale presidente Simonetti i problemi si combattono solo guardando oltre Ticino, a Milano, non tanto a Torino. Soluzioni: una bella autostrada che ci porti in fretta in Lombardia e una ferrovia efficiente verso la «Madunina». Per Roberto Pietrobon, che ha corso per la poltrona da sindaco ed è stato eletto consigliere (3,2%), «zero risposte alla crisi». La sinistra proponeva un pacchetto a costo zero: «Un protocollo d'intesa tra parti sociali, ente locale e istituti previdenziali per l'anticipo nei primi mesi della cassa straordinaria, un paniere calmierato, un accordo tra il Comune e gli istituti di credito per la sospensione delle rate sui mutui sulla casa a tutti quei lavoratori in cassa o espulsi dal ciclo produttivo». In provincia, la coalizione formata da Rifondazione e Sinistra per (non proprio Sinistra e libertà, mancavano i socialisti) ha ottenuto il 4,9%, terza lista dopo Pdl - Lega (alleati a Destra e Fiamma) e Wilmer Ronzani del Pd e di poco sopra all'Italia dei valori (4,7%). Risultato che, se paragonato al precedente del 2004 (8,6 complessivo) non sembra soddisfacente, ma se lo si contestualizza rispetto al crollo alle politiche del 2006 della Sinistra arcobaleno (2,6%) può essere letto con auspici positivi: «Il dissenso non è morto». Durante la campagna elettorale sono venuti Ferrero, Vendola, Migliore, Agnoletto. Diliberto, invece, no: «Forse un'alleanza così larga non gli piace» risponde con una stoccata Belletti, ancora iscritto al Pdci. O forse perché qui al congresso ha vinto la minoranza interna, quella di Unire la sinistra di Katia Belillo.

Adesso viene il bello: come far fruttare quest'unità, una delle poche sopravvissute in Italia. Biella e Vercelli si trovano quasi inconsapevolmente ad essere un possibile laboratorio della nuova sinistra. «Sarebbe interessante se la nostra esperienza fosse esportata» dice Pietrobon, che sta pensando a un seminario a luglio dove raccontarla e progettare il futuro. Tutti e tre - Comella, Pietrobon e Belletti - arrivano da esperienze diverse, da tre anime dell'ormai piccola e frammentata sinistra, ma hanno voluto stare insieme. Il primo è di Sd, il secondo è un vendoliano rimasto nel Prc e Belletti ha appoggiato la Bellillo ma senza abbandonare la casa madre. «Sono finite le elezioni, fermiamoci, riprendiamo il dialogo e i fili del discorso, perché la costruzione di un nuovo soggetto non può più essere rinviata» spiega Comella, che sottolinea che dall'esperienza di Sinistra e libertà «non si può prescindere, da qui bisogna ripartire con l'obiettivo però di unire tutta la sinistra». La sua idea, e non ha remore a dirlo, è quella di un partito unico, ridiscutendone magari anche la forma, ma «basta cartelli elettorali». Secondo Pietrobon «chi ha sbagliato salti un giro». E si riferisce a tutti i gruppi dirigenti sia della lista comunista sia di Sl. «Non si può fare una scissione a pochi mesi da una scadenza elettorale con l'ostacolo quorum e non si può fare una lista identitaria. Valorizziamo, invece, le differenze dentro a una tensione unitaria». Come? «Ripartendo dal territorio, senza arenarci nei futili discorsi sulle forme organizzative». Belletti spinge più che per un partito per un percorso unitario in cui convergere: «L'unità dei comunisti è un punto di partenza non di arrivo». Ognuno ha il suo punto di vista, ma a tutti viene il mal di pancia a sentire gli echi delle nuove polemiche a sinistra. Concordano che un cantiere, largo e plurale, debba partire al più presto, senza che Vendola o Ferrero se ne prendano la paternità. E le alleanze col Pd? «Prima ricostruiamo la sinistra, poi ne parliamo».

Dal manifesto del 19 giugno

domenica 14 giugno 2009

Denis, che lotta per una scuola decolonizzata in Benin

Incastonato tra Togo e Nigeria, il Benin è una lunga striscia di terra, grande quanto un terzo dell’Italia, che si affaccia nel Golfo di Guinea, Oceano Atlantico, Africa occidentale. E’ un paese di 7 milioni di abitanti, prettamente agricolo e dall’economia fortemente arretrata. La sua storia politica è turbolenta e negli ultimi quarant’anni ruota attorno alla figura discussa di Mathieu Kérékou, presidente del Benin dal 1972 al 1991, con un regime marxista solo nel nome, e ancora dal 1996 al 2006, questa volta in veste «democratica».
Il Benin sconta tutti i problemi strutturali dell’Africa e del suo mancato sviluppo: il peso mai tramontato del colonialismo, la corruzione al potere e l’analfabetismo. Quest’ultima è la vera piaga: riguarda l’80% della popolazione. Soprattutto nelle zone rurali, dove le famiglie più povere vendono i figli più piccoli ai trafficanti di «vidomegons», dal nome dell’antica tradizione locale per cui nelle campagna si mandavano i figli a studiare in città dai parenti ricchi. Ma adesso dai parenti, per lo più, non ci vanno e comunque mai a studiare. L’Unicef stima che nel 2007 sono stati quasi 140 mila i bambini beninesi sottratti alle proprie famiglie per essere portati a lavorare nei mercati o nelle case della capitale Porto Novo o in quelle del centro economico Cotonou oppure nelle piantagioni di Nigeria Togo e Costa d’Avorio. Una vera e propria tratta di esseri umani.
Se c’è un luogo da dove dovrebbe ripartire la lotta contro l’analfabetismo e contro la tratta questo è la scuola. Le classi sono affollate e l’abbandono è frequente (anche a causa dell’ostacolo della lingua, il francese, che a casa i piccoli delle campagne non parlano). In Benin, c’è chi si batte per una formazione diversa, uno di questi è Denis Yao Sindété, avvocato, politico, insegnante, ex prigioniero del regime Kérékou. L’ho incontrato a Novara lo scorso autunno. Questa la sua storia.


Denis nasce nel 1958 in un villaggio sulla costa atlantica, non distante dal Togo. Già da piccolo era un bambino con le sue idee: «A 5 o 6 anni – racconta - per poter andare a scuola bisognava dimostrare di sapersi toccare le orecchie con la mano opposta. Non ce la facevo ancora, ma la voglia di iniziare, di fare quello che facevano i bambini più grandi, era tanta. E, allora, mi misi a protestare. Alla fine cedettero e mia zia, che abitava in una cittadina a 20 chilometri di distanza, mi prese in carico». Cominciano le scuole elementari. Denis gioca, si applicava nei compiti e dà una mano nei lavori domestici.

Gli anni corrono, il ragazzo diventa grande. Alle superiori conosce la politica e prende parte ad un’associazione studentesca. «La libertà di associazione era proibita, erano permesse solo le organizzazioni formalizzate e riconosciute dal regime». Nel 1978 Denis si trasferisce a Cotonou per frequentare l’università e si iscrive alla facoltà di diritto. Gli anni sono caldi, sono diversi i tentativi di colpo di stato e, soprattutto, «cresce il malcontento popolare nei confronti del regime marxista di Kérékou e del suo partito Partito popolare rivoluzionario del Benin (l’unico riconosciuto), al pari della povertà e della corruzione al potere». Gli studenti reclamano migliori condizioni di vita e di studio. «Le facoltà erano poche, come i laboratori e le biblioteche. Un’offerta scarsa rispetto ai diecimila studenti di Cotonou». Denis prende parte alle mobilitazioni e si avvicina al clandestino partito comunista del Dahomey (antico nome del Benin): «Nulla a che fare con Kérékou, per lui il comunismo era solo una copertura, infatti, nel 1989 per costruirsi una facciata democratica disse che del marxismo non aveva capito nulla». La contestazione sale: «C’erano già state proteste tra gli studenti e diversi arrestati. Nel 1979 i movimenti erano al loro picco di partecipazione. Chiedevano a gran voce che i dirigenti della cooperativa universitaria (unica associazione studentesca ammessa) venissero eletti e non stabiliti a priori dall’esecutivo di Kérékou». Il governo usa la mano pesante. Durante una manifestazione pacifica ci sono arresti di massa di professori e studenti. Uno di questi è Denis. «Dissero che nella cooperativa era pieno di spie e la colpa di tutto era del Partito comunista». Alcuni dei manifestanti erano iscritti al Pcd, ma la maggior parte non aveva nulla a che fare. Così, Denis finisce in carcere, accusato di attentato alla sicurezza dello Stato. Prima a Cotonou, poi viene trasferito a Porto Novo.

Sono gli anni più duri. «Le condizioni erano terribili, vivevamo tutti ammassati. Quindici persone in celle di 9 metri quadrati, dormendo su stuoie incastrati piedi contro teste. L’igiene era inesistente e il rischio di malattie infettive altissimo. Ci torturavano. C’era chi impazziva, non ce la faceva, non resisteva. Un mio compagno morì per le percosse. Io mi ammalai, ma lo scoprii solo anni dopo: era tubercolosi». Nonostante le difficoltà, il gruppo di studenti e professori non si dà per vinto e inizia una battaglia interna, sensibilizzando i detenuti comuni. Le proteste e la denuncia sulle condizioni in cui sono costretti a vivere superano le mura della prigione e arrivano fino in Francia, ad Amnesty International, che adotterà, tra gli altri, il caso di Denis, considerato «prigioniero di coscienza». Passano quattro anni. «Nel marzo del 1983, io e altri nove riuscimmo ad evadere ed eludere la sorveglianza. Fuggimmo in campagna, in clandestinità. Fino all’agosto 1984, fu un periodo di forte repressione ma anche di proteste nella società che indussero il governo a concedere l’amnistia per i detenuti politici». Finalmente liberi. «Tornai all’università e ci ritrovammo noi sopravvissuti al carcere. Nel dolore e nella difficoltà eravamo ancora più uniti e consapevoli che la lotta per una società giusta e libera dovesse continuare». Un anno dopo scoppiano molti scioperi e rischia di nuovo l'arresto. Il governo gioca la carta della repressione e a Denis tocca nascondersi. «Ero ricercato vivo o morto – spiega – dal 1985 al 1989 rimasi in clandestinità, passando di casa in casa». Ma il mondo sta cambiando e anche il Benin se ne accorge. La morsa del governo - forse per questo e per gli equilibri che ne conseguiranno - si allenta. Il primo agosto del 1989, mancavano tre mesi al crollo del muro di Berlino, viene concessa un’amnistia generale per persone e organizzazioni. Intanto Kérékou si prepara a travestirsi da «democratico». Nel 1991 ci sono le elezioni, ma viene sconfitto; ritornerà in sella cinque anni dopo.

«E’ vero - commenta - le elezioni nel mio paese ci sono, ma non sono democratiche perché l’analfabetismo è la più grande piaga, riguarda oltre l’80 della popolazione. La corruzione dilaga ed è capitato spesso che votassero pure i morti. E poi, il clientelismo: i voti vengono comprati fuori dal seggio in cambio di un po’ di sale». Denis lo racconta con voce pacata ma ferma. E’ venuto a Novara per curare i postumi della tubercolosi contratta vent’anni fa in carcere e, inoltre, perché è in contatto da tempo con la sezione locale di Amnesty, con cui mantiene un rapporto epistolare dagli anni della prigionia.

Dopo il carcere e la clandestinità, Denis è riuscito a completare gli studi, si è laureato in scienze politiche e relazioni internazionali. Ha insegnato diritto nelle scuole superiori, dove un professore di ruolo prende 150 euro e un precario ne guadagna 100. Ora, lavora all’Iniref, un’ong che si occupa di ricerca e formazione. Nel frattempo, si è sposato con Philomene, che fa la maestra e insegna alle elementari davanti a classi sovraffollate: «L’ultima è di 116 bambini», racconta non senza stupore. Ma a scuola gli alunni ci vanno poco, in Benin la dispersione scolastica è enorme. Uno dei motivi dell’abbandono è la lingua francese, un ostacolo per molti. «La si insegna fin dal primo anno. Un vero trauma, perché i piccoli a casa non la parlano e sui banchi si trovano di fronte a tante difficoltà. E a un certo punto mollano la scuola e vanno a lavorare». Il francese è la lingua ufficiale del Benin, più che altro un retaggio coloniale: diffusa solo nei centri urbani, lo è per nulla nelle campagne. Le lingue indigene più utilizzate sono, invece, il fon e lo yoruba. «Ci battiamo – spiega Denis che in Benin è molto attivo nel sociale – per una proposta di legge che preveda la prima alfabetizzazione (almeno tre anni) nelle lingue nazionali e dal quarto anno si parta col francese». Solo dalla scuola possono nascere cittadini consci dei propri diritti. Solo combattendo l’analfabetismo si possono affrontare i problemi dell’Africa. «La mobilitazione è ampia e ha coinvolto anche i genitori. Il governo sembra intenzionato ad accettare un progetto di riforma, ma è un’attenzione solo formale. Per adesso, non ha fatto nulla. La verità è che la Francia non vuole. Fino a quando non ci emanciperemo dal colonialismo non cambierà nulla. E’ uno dei problemi fondamentali che affligge l’Africa, insieme all’analfabetismo e alla corruzione al potere». E, intanto, la crisi continua.

giovedì 11 giugno 2009

L'arivàro non fa lo pietro*

Le rughe di Benigno sono il calco della sua vita. A Vico Pancellorum lo conoscono tutti come il Moro. Di anni ne ha 83 e come suo fratello Silvio, detto Scintilla, ha sempre fatto lo stagnino, o magnano, o calderaio. Chiamatelo come volete: questo lavoro è stato un’arte, non solo di ferro e fuoco ma anche nel parlare. Per via di quel gergo che non ti faceva capire dagli altri, ma che ti rendeva ancora più amico al tuo compagno. Benigno era un bambino e con il ventilatore a tracolla (il mantice) scalava il Balzo Nero, il monte che guarda dall’alto la Media Valle del Serchio, appennino lucchese. Andava col padre al di là del versante, in direzione valli parmensi. A rifare le pentole di rame, tecnicamente la stagnatura. Si passava dai pastori negli alpeggi e poi giù in basso verso gli alberghi o gli ospedali. Si dormiva nei fienili dei contadini (i bori) e talvolta pure all’aria aperta, in pineta. Da casa si stava fuori un mese o più. «L’incupo affinava scalio», racconta in una lingua che se non avessi vicino Claudio, presidente del locale circolo Il Risveglio, non capirei. Tradotto: era un lavoro faticoso. Benigno parla l’arivarésco, il gergo dei calderai ambulanti, gli arivàri appunto, di Vico Pancellorum.

Per arrivare qui si supera Bagni di Lucca, che fa da comune, e si va oltre Casoli. Da una parte, su un colle, vedi Limano, dall’altra Lucchio. La strada si fa impervia, si passa tra castagni e pochi campi coltivati. Ed ecco spuntare Vico, a 650 metri d’altezza, un piccolo borgo sulle pendici del Balzo Nero. Il nome del paese ha strane origini, probabilmente romane: da panicum o da una contrazione di due parole latine, panis coelorum (pane dei cieli), o forse ancora da Pancelli, una famiglia che qui avrebbe avuto la signoria. Fino agli anni Sessanta era collegato al mondo solo da una mulattiera, la cornice. Un isolamento che ha funzionato da coesione e, allo stesso tempo, da via di fuga. Perché i vichesi sono sempre andati in giro per lavori stagionali, il magnano o il figurinaio (chi produceva statuine di gesso, l’altro mestiere forte della zona). «Qui – precisano – si è vissuto per secoli come seminomadi». Fino a quando la guerra li ha portati via tutti, o buona parte: all’estero. Se prima era un paese di oltre mille abitanti, alcuni dicono mille e seicento, ora ne saranno rimasti cento. Sono andati in Canada, Stati Uniti, Francia, Argentina, Venezuela o Belgio. Qualcuno è tornato. Come Enrico, che si fa chiamare il «sapiente», e dopo trent’anni a Bruxelles a fare il meccanico ha ripercorso le radici fino a casa, dove si è inventato ristoratore e ora gestisce la Buca di Baldabò, l’unica osteria del paese. L’arivarésco che aveva imparato da ragazzo non l’ha dimenticato. Ancora sa usare il gergo di mestiere che capivano solo i vichesi e fuori paese era un enigma.

Ma la segretezza non è la caratteristica principale di un gergo. «Il meccanismo all’origine – spiega Gaetano Berruto, sociolinguista all’Università di Torino – è il simbolo dell’identità di un gruppo, che crea confini netti con il resto della società. L’intento criptolalico, come lo chiamano gli esperti (ovvero: la segretezza) è una conseguenza di questa identità, intesa come differenziazione dagli altri». Il gergo «furbesco» diventa allora un’antilingua, un mezzo di opposizione al sistema culturale dominante (in questo caso l’italiano). Berruto cita lo studioso australiano Michael Halliday: «Riflette una sorta di controcultura, un’antisocietà, una società costruita all’interno di un’altra, ed esprime verbalmente l’opposizione alle norme e ai valori di quella corrente». A Vico era così. E quando si usciva con lo zarrone in spalla (la cassetta dei ferri), lo si parlava come stranieri. Per mettersi d’accordo sul da farsi, capire l’evolversi della situazione, talvolta fare la cresta al prezzo («perché si doveva pur mangiare», dicono non senza pudore), e anche per creare suggestione.

L’arivarésco, la loro «lingua», si imparava dai vecchi. Un lessico quotidiano, familiare. In paese, vi si faceva ricorso più per scherzo, o magari al ballo a palchetto per conquistare le ragazze, le ciautielle: «Così gli altri, i forestieri, non ci capivano», spiegano. Fuori era invece tutta un’altra storia. Si parlava di arcate o ponte, in poche parole di soldi. Dello sceppolo, ovvero del conto. E si provava a rimediare un pasto caldo in casa dai contadini: «Lo sgrano in tore», magari con contosta e triorfa, polenta e carne e un cùccamo di grasìa, un bicchier di vino.

Vita umile ma di passioni, quella del calderaio. Certo, chi faceva l’arivàro non era sempre ben visto. La considerazione sociale dei figurinai era più elevata, mentre gli stagnini erano lo scalino più basso. «Per noi era difficile anche trovare moglie», dice Stefano, gli occhiali grandi e lo sguardo timido. I magnani dovevano imparare ad arrangiarsi. Se parli però di moccosa, la cera della candela, nessuno tra i presenti ammette di averla mai usata. Ci tenevano ai clienti e ci tengono alla reputazione. Ma tutti sanno che qualcuno vi ricorreva: quando si accorgevano che la riparazione era riuscita male e alla prova dell’acqua non avrebbe tenuto, prendevano la moccosa e la strusciavano per chiudere la toppa. Risultato immediato, ma poco duraturo.

Quello di magnano era un lavoro maschile. Le donne la fatica la consumavano nei campi. Argia, che di anni ne ha 98, ne sa qualcosa: «Oltre alla terra, sono pure stata cuoca a Chicago per cinque anni». Ciò che sorprende in un borgo minuscolo come Vico è il fatto che non sia difficile sentir parlare gli anziani in francese, inglese o spagnolo. Nessuno è rimasto qui per tutta la vita. Ma non pensate sia un posto esclusivamente di vecchi. Qualche giovane lo trovi: Luisa è venuta a vivere qui da un pezzo e fa la cameriera all’osteria. E poi arriva qualche turista: norvegesi, in particolare. E Vico ha avuto persino una pagina su un magazine patinato di Oslo.

L’arivarésco, però, ormai lo parla solo chi ha vissuto la stagione dei magnani. Chi ha dai 50 anni su, insomma. Qualche curioso ne chiede al bar. Come di tutte le lingue si imparano per prime le brutte parole (chiarazza è la puttana, chiàino il piscio, canale il sedere; manico e tofèra indicano gli organi genitali dell’uomo e della donna). Poi le differenze sottili ma complicate: per esempio ipse è la gallina ma ipse storna è la cipolla. Infine restano impresse le locuzioni strane: fa’ lo pietro significa stai zitto; storno come lo pe’ de gatto vuol dire bruttissimo.

«Iecca il pecullo», butta l’asso, dice Claudio giocando a briscola. Il gergo è l’arma in più per i vichesi: a carte sono imbattibili. Ma da un po’ anche loro si accorgono che la «lingua» è a rischio. A custodirne la memoria, oltre agli abitanti, i brevi studi di Carlo Gabrielli Rosi, storico lucchese e partigiano, e poi la tesi di laurea di Renata Franchini. Prima di farsi suora, nel 1979, venne su a Vico e imparò il gergo dei magnani. Gli ambulanti del paiolo, che – muovendosi da una parte all’altra degli Appennini – avevano inventato un lessico pieno di fascino e mistero, con neologismi di fantasia e parole rubate ai dialetti rom o germanici. Lo capivano ad orecchio solo i calderai di Tramonti nel Friuli o quelli di Dipignano in Calabria. Geograficamente lontani ma, anche loro, come i vichesi, «ribelli della montagna».

*Lo stagnino non sta zitto

Da Diario di giugno

venerdì 5 giugno 2009

L'operaio licenziato: «In Belgio il Lingotto colpisce il sindacato»

La Fiat si nega al confronto con le parti sociali. E con il pretesto della ristrutturazione della filiale Iac fa fuori i delegati Mwb

TORINO - Se c'è qualcuno che - quando la Fiat in Belgio decide di licenziare - sta sempre in cima alla lista, questo è Emanuele Agostini. Di mestiere fa l'operaio, lavora nella filiale Iac (Italian Automotive Center) di Bruxelles. I suoi colleghi lo hanno eletto delegato sindacale. Lui milita nella Mwb, l'organizzazione che raduna il maggior numero di metalmeccanici, e, come rappresentante, è molto attivo. Cosa che, a quanto pare, all'azienda non piace. Infatti, è uno dei 24 lavoratori considerati in esubero sul totale di 90 dipendenti. Ebbene sì, la ristrutturazione, qui, la Fiat la fa alla vecchia maniera, colpendo chi disturba il manovratore. Tra i 24 (14 operai e 10 impiegati), non c'è nessun volto anonimo, anzi tutti scomodi: 12 sono militanti sindacali e 6 fra di loro delegati.

La ristrutturazione è stata decisa senza un piano di rilancio, senza parlarne con i sindacati, ma comunicando attraverso uno studio legale. Bella mossa. Gli operai non ci stanno e il 9 aprile occupano gli uffici dell'azienda per chiedere finalmente ai manager una trattativa chiara. I media parlano frettolosamente di «sequestro», cosa che infastidisce il sindacato: «Gli operai cercavano solo un contatto con i vertici, negato da mesi». La Iac si impunta e qualche settimana dopo ne licenzia in tronco cinque. «Chiara rappresaglia», dicono. Tra questi anche Emanuele, presto però reintegrato dal Tribunale. In totale, calcolando le sovrapposizioni tra i 24 e i 5 (alcuni stanno nelle due liste), sale a 26 il numero di lavoratori da lasciare a casa.

La sua storia, Agostini, l'ha raccontata ieri nella sede della Fiom di Torino. Ad accompagnarlo, il presidente del sindacato Manuel Castro, giunto in Italia per chiedere appoggio alla Fiom e lanciare un appello alla multinazionale torinese: «La Fiat non può affidare ad avvocati la trattativa per la riduzione del personale. Chiediamo un tavolo di confronto per discutere sia di rilancio industriale, sia di gestione degli esuberi». E' la quarta volta che la Iac propone una ristrutturazione senza aver prima presentato ai sindacati un piano sul proprio futuro. Ma questa volta, la trattativa l'ha fatta condurre a uno studio legale (Carlier), noto in Belgio per la sua aggressività antisindacale. «Io sono un lavoratore, non mi occupo di faccende giuridiche», sottolinea Agostini. Anche il ministero del Lavoro belga ha sollecitato la Fiat a sedersi a un tavolo. Risultato: nessuna risposta. «Così facendo - aggiunge Castro - la Fiat ha azzerato il proprio ruolo di parte sociale e si è messa nelle mani di un gruppo di avvocati che vogliono farsi pubblicità. E' un errore perché, in questo modo, macchia la sua immagine e non lo fa in qualche landa dimenticata, ma nella capitale dell'Unione europea». Secondo Castro, con le laute prebende agli avvocati si sono spese risorse sicuramente superiori a quelle necessarie per elaborare «un accordo condiviso sulle sorti della Iac».

Presente all'incontro, anche Enzo Masini, coordinatore nazionale auto della Fiom Cgil: «La Fiat non accetta di trattare e vuole procedere con un'imposizione unilaterale della propria volontà. Questo atteggiamento ci preoccupa perché, in primo luogo, arreca in Belgio un danno ingiusto a 26 famiglie di lavoratori. E, in più, allarma il comportamento di un'azienda che si propone come attore internazionale e pensa di affrontare il problema degli esuberi senza ascoltare le istanze del sindacato e senza il rispetto delle relazioni tra parti sociali». Un brutto precedente e un pessimo biglietto da visita davanti a una platea non solo europea. «Ecco perché - conclude Masini - chiediamo alla Fiat di tornare sui suoi passi».

Da il manifesto del 4 giugno