domenica 21 dicembre 2008

Fleet Foxes, s/t e Dodos, Visiter (2008)

Vent’anni dopo si ritorna a Seattle. Stessa etichetta: la rediviva Sub Pop. Ma non più sporchi e cattivi come nell’era grunge. Nella città del Nord soffia ora un vento barocco, mai tronfio e pieno di creatività. Sono i Fleet Foxes, giovane quintetto barbuto che con l’omonimo esordio sforna uno degli album dell’anno. Proprio a indicare che nella rilettura e nella contaminazione del folk si svela il miglior indie rock dell’ultima generazione. Basta andare qualche centinaia di chilometri a Sud, a San Francisco, per incontrare un’altra rivelazione: Dodos, più essenziali e ritmati.

Iniziamo dai primi. Cori e suoni caldi ci catapultano presto in una dimensione orchestrale, che talvolta si regge solo sulla voce come nel crescendo di White Winter Hymnal. E poi, i passaggi onirici, dalla malinconica Tiger Mountain Peasant Song alla ballata He Doesn't Know Why. Per finire in punta di chitarra con Oliver James. Tra le note, incontriamo i contemporanei Akron Family, ma soprattutto le radici del passato dai Beach Boys a Crosby Stills Nash And Young.

Il duo californiano, in Visiter, si diverte a nascondere la complessità delle composizioni in una formula semplice di voci, chitarra e percussioni, in bilico tra folk, psichedelia e divagazioni afro. Un disco senza pause, che ti cattura nelle mille sfumature: Beirut, Vampire Weekend ma anche David Byrne, per citare le influenze. Ecco il microcosmo Dodos, dalla trascinante solarità di Fools alla più rude e bluesy Paint the rust.

fleet foxes: sito e myspace
dodos: sito e myspace

sabato 13 dicembre 2008

Tanti cassintegrati, ma non rassegnati

TORINO - Davanti, trovi i volti della fatica. Pochi sorrisi: rabbia, non rassegnazione. Dietro, il rumore, anche gioioso, degli studenti, a fianco degli operai. In questa lotta che riguarda tutti. Cinquantamila al corteo della Cgil, per chiedere più sostegno al reddito, all'occupazione, meno tasse e più salari. Tre palle di neve (di un metro di diametro) simboleggiavano proprio la «valanga» di questa crisi. Di cui Torino, ex capitale dell'auto, è l'epicentro. Dopo Motorola, Fiat, Dayco, Michelin, Bertone, Pirelli e Pininfarina, anche le aziende che fino a metà 2008 sembravano immuni dai guai annunciano 11 settimane di ulteriore cassa integrazione. E' il caso della Cnh di San Mauro, che produce macchine movimento terra e ha 700 dipendenti. «A settembre - racconta Giovanni Demurtas, rsu Fiom - siamo passati dagli straordinari alla cassa: 14 settimane. E ora la nuova doccia fredda, che toccherà 667 dipendenti da metà gennaio».

A Torino la cassa integrazione riguarda 554 aziende e coinvolge più di 35 mila lavoratori, mentre sono 5 mila i precari che hanno perso il posto di lavoro. Ci sono poi ditte che utilizzano le ferie collettive per far fronte alle fermate programmate, come la Comau. E i numeri continuano a salire. In Piemonte gli ultimi dati Inps sulle ore di cassa integrazione ordinaria autorizzate a novembre registrano un +103% rispetto allo stesso mese del 2007. Si parla di 45 mila persone coinvolte in tutta la regione. «Nonostante i sacrifici a cui sono costretti i lavoratori, le assemblee nelle aziende metalmeccaniche sono state molto partecipate» precisa Giorgio Airaudo, segretario Fiom Torino. Come a Mirafiori, dove ieri si lavorava (50% l'adesione allo sciopero). Sergio Forelli è operaio alle Carrozzerie (da dove esce la Mito). «Siamo costretti a due settimane al mese di cassa e la situazione è tesa. Nel 2002, con gran parlare delle istituzioni, si era detto che sarebbe arrivata una quota della produzione della Grande Punto. Nessuno l'ha vista. E ora, oltre alla crisi dobbiamo fronteggiare un assalto da parte di Confindustria e governo agli assetti contrattuali, con il benestare di Cisl e Uil».

Uno degli spezzoni più numerosi è quello della Funzione pubblica, seguito dai pensionati. Quelli che faticano ad arrivare a fine mese. «Ho tre figli precari, che non riescono a staccarsi da casa, e una pensione da 1200 euro, dopo 39 anni in fabbrica» spiega Michele Di Benedetto che tiene una bandiera con il volto del Che: «il rivoluzionario che ci servirebbe». Alla Streglio, azienda di cioccolato, i 60 dipendenti sono in cassa da 10 settimane a rotazione. La banca di riferimento avrebbe bloccato gli stipendi di novembre in pagamento dal 7 dicembre. «Tra di noi - dicono i delegati - molti sono a monoreddito».

Alte le adesioni allo sciopero, soprattutto nel settore industriale, intorno all'80%. Airaudo commenta: «C'è una forte rappresentanza del mondo del pubblico impiego e dei lavoratori metalmeccanici, ovvero del lavoro dipendente, sceso in piazza contro la crisi e contro Confindustria, che vorrebbe cancellare la rappresentanza sindacale dai luoghi di lavoro». Enrico Panini, segretario nazionale Cgil, dal palco di piazza Castello, parla, invece, della Fiat: «Le dichiarazioni di Marchionne su una possibile vendita sono molto preoccupanti. Tutto questo non può essere sottovalutato e il governo se ne deve occupare».

Gli studenti dell'assemblea No Gelmini hanno «sanzionato» una banca in via Po, bloccandone l'ingresso. E si sono diretti con i Cobas all'Unione industriale. Incendiati anche alcuni pneumatici: «La puzza della crisi». Protesta, infine, contro il consolato greco per i fatti di Atene.

Da il manifesto del 13 dicembre

giovedì 11 dicembre 2008

Ecco il nuovo direttore: «Voglio un festival non isterico»

TORINO - Vuole vivere a Torino, fare un film e un festival non isterico. Il lascito di Moretti sarà anche un fardello pesante, ma Gianni Amelio non nasconde la sua personalità. Lo fa in modo diverso rispetto al regista del Caimano. Più sobrio e autoironico. Il suo nome è stato l’unico che il Museo del cinema ha cercato, ha precisato Barbera alla presentazione, smentendo le illazioni dei giorni precedenti. E proprio perché l’accordo è serio, Amelio ha già siglato un contratto di 2 anni, e pensa già al raddoppio. Felice della nuova sfida, racconta le ragioni di una scelta e il suo rapporto con la città, stretto ai tempi di Così ridevano.

A chi gli chiede da dove lavorerà, risponde: «Mi piacerebbe vivere qui. Per me sarebbe frustrante lavorare da Roma». Il direttore lo vuole fare davvero, anche se sta per girare un film (il Primo Uomo, tratta dall'omonimo libro di Albert Camus). Ma ha calcolato i tempi per essere libero per il Tff. Non parla del programma. Però una cosa la dice: «Negli ultimi anni le rassegne sono diventate troppo invasive, vorrei un festival "normale", non isterico, in cui regni il cinema»

mercoledì 10 dicembre 2008

Addio Nanni. Amelio alla guida del Tff

TORINO - Aveva lasciato un pezzo della sua storia cinematografica proprio a Torino, con Così ridevano. E ora ritorna a completare quel tassello, non più dietro la macchina da presa ma da direttore. Gianni Amelio guiderà il prossimo Torino film festival. Oggi, alle 14, al Circolo dei lettori il suo incarico verrà ufficializzato. Ci sarà anche lui, seppur ieri fosse ancora in Tunisia. Al Museo del cinema le bocche sono rimaste cucite, ma le indiscrezioni giravano da giorni. Si è parlato pure di Benigni (fantascienza), di Tullio Giordana, Calopresti o Ferrario (realismo) e di Bertolucci (speranza). E si pensava che la telenovela sarebbe durata ancora per un po’. Invece, tempi più rapidi del previsto. La diplomazia sabauda, che aveva portato Moretti alla guida del Tff (non senza biblici tira e molla), ha stretto la cerchia dei candidati e il numero delle telefonate. Il direttore del Museo Alberto Barbera, che alcuni indicano come l’artefice dell’investitura, e il presidente Sandro Casazza, in sintonia con gli assessori alla cultura Fiorenzo Alfieri (Comune) e Gianni Oliva (Regione), hanno di nuovo puntato su un nome di grande fama. Classe 1945, origini calabresi, Amelio è uno degli autori più importanti del nostro cinema. Leone d’oro nel 1998, è stato candidato quattro volte all’Oscar: Le chiavi di casa, Porte aperte, Il ladro di bambini e Lamerica.

Adesso tocca a lui raccogliere il testimone da Nanni Moretti, del quale non ha certo il carisma mediatico. Molto vicino ed apprezzato da Emanuela Martini, la coordinatrice del festival, Amelio dovrà confermare il successo delle ultime edizioni, innovando ma allo stesso conservando quello spirito di ricerca che contrassegna la manifestazione da 26 anni. Ad inizio anni ’80 fu Fiorenzo Alfieri, al tempo assessore alla Gioventù, a suggerire l’idea di un festival del cinema giovane a Gianni Rondolino e Ansano Giannarelli. Alfieri ha vissuto tutti i cambiamenti della rassegna e commenta a caldo: «E’ l’uomo giusto, perché è un appassionato di cinema. Il nostro Tff non sarà mai una passerella e la qualità paga. Anche le edizioni di Moretti sono state vincenti per il lavoro che lui ha svolto, non per il personaggio che rappresenta». Non nasconde poi un po’ di orgoglio campanilistico: «Come diceva Moretti, siamo meglio di Venezia. E anche se qualcuno ogni tanto ci accusa di farlo, non cercheremo mai il glamour». In Sala Rossa non sono però tutti contenti. «E’ un regista senza statuine – ha dichiarato Antonino Ghiglia (An-Pdl) -, poco conosciuto ed autore di film elitari. Se con Moretti il Tff razzolava male con Amelio andrà malissimo».

domenica 7 dicembre 2008

Thyssen, un anno dopo, in corteo

TORINO - Un anno fa i sette, uccisi nel rogo. Poi Molfetta, Mineo e una scia che non si è fermata. «Basta morti, basta padroni assassini». Questo l’urlo che si sente quando il corteo arriva al Palagiustizia. Poi, un minuto di silenzio per le vittime della Thyssen e per tutti i morti sul lavoro. In cinquemila hanno partecipato alla manifestazione, partita dai cancelli dell’acciaieria, in ricordo della strage in cui morirono sette operai tra i 26 e i 52 anni. Si aspettavano più persone, anche per la storia di Torino, ma visto che è nata dal basso, attraverso l’autoconvocazione, non si può dire non sia riuscita: «Siamo soddisfatti - ha commentato al termine Ciro Argentino dell'associazione Legami d'acciaio - ed è un’iniziativa che cercheremo di ripetere ogni anno, rendendola magari itinerante per raggiungere, per esempio, i luoghi più esposti come Taranto».

In testa, la Rete nazionale per la sicurezza sui posti di lavoro, poi i famigliari delle vittime («In un anno non è cambiato nulla» dice Nino Santino, papà di Bruno), molti sindacati di base, gli studenti dell’Assemblea No Gelmini, i ragazzi dei centri sociali, il comitato contro l’Eternit di Casale Monferrato e, in fondo, le bandiere sparse di Prc, Pdci, Sinistra critica, Plc e qualcuna della Fiom e dei No Tav. Non solo torinesi, c’è gente da tutta Italia e dalle varie realtà in lotta: da Ravenna a Napoli, da Taranto a Bergamo. E anche da Palermo, come Salvatore Palumbo, licenziato dalla Fincantieri perché scomodo: «Il 30 agosto del 2007 ho denunciato le insopportabili condizioni di insicurezza in cui eravamo costretti a lavorare, il giorno dopo mi hanno mandato a casa». Ora, senza stipendio e con una moglie e tre figli a carico, non si dà per vinto e si batte per il reintegro. Come Dante De Angelis, licenziato dalle Ferrovie dello Stato per aver esercitato il suo ruolo scrupoloso di Rls: «Non sono un eroe – afferma – ho fatto solo il mio dovere». C’è poi chi alla Thyssen ci lavorava: «Ma non ci sono più entrato e adesso sono in cassa integrazione», spiega Luigi Gerardi. Lungo il corteo si incontrano le varie testimonianze del lavoro a rischio: dalla Dalmine all’Ilva (43 morti in 15 anni). Francesca Caliolo, venerdì il suo intervento all’assemblea Fiom è stato il più applaudito, si augura «un Guariniello per proteggere tutti i lavoratori d'Italia». Lei, però, aspetta ancora l’inizio del processo per la morte di suo marito, due anni e mezzo fa a Taranto. A Torino, l’indagine è stata, invece, chiusa in breve tempo. E ora c'è attesa per il processo in Corte d’assise con inizio il 15 gennaio. L'amministratore delegato Harald Espenhanh dovrà rispondere dell’accusa di omicidio volontario.

Nel serpentone, davanti si sceglie musica leggera: Negramaro e Pausini. Era quella che piaceva a Rosario Rodinò, 26 anni, una delle vittime Thyssen. A metà, puntano sul classico: Modena city Ramblers. Ecco, infatti, il furgone degli universitari. «Abbiamo portato – racconta Gianluca dell’Askatasuna - un manifesto con la foto di Vito Scafidi (lo studente morto nel crollo del liceo Rivoli), perché non si deve perdere la vita né a scuola né al lavoro». I politici in corteo sono pochi: Marco Ferrando, Marco Rizzo e Vittorio Agnoletto. Proprio quest’ultimo, europarlamentare Prc, ha fatto per 18 anni il medico del lavoro: «So bene che la prima cosa che viene tagliata quando c’è crisi è la sicurezza. E i lavoratori degli appalti sono quelli che rischiano di più. Ecco perché dobbiamo difendere a tutti i costi il Testo unico». Stesso pensiero di Giorgio Cremaschi, qui non come segretario Fiom ma a titolo personale: «Il meccanismo infernale che ha portato alla Thyssen è ancora in piedi e rischia di aggravarsi. Il Testo sulla sicurezza è il lascito di quella strage, modificarlo, come vuole Confindustria, sarebbe un’offesa inaccettabile».

La giornata di commemorazione era iniziata in prima mattinata con la messa al cimitero monumentale, dove è stata scoperta una lapide in memoria dei sette. Presenti il sindaco Chiamparino ed esponenti del Pd (Fassino e Damiano), ma nessun membro del governo né delle associazioni industriali. Dopo mostre e dibattiti, l’ultimo appuntamento del ricordo è il concerto di domani al Regio.

sabato 6 dicembre 2008

«Mai più morti». Parlano i delegati alla sicurezza

TORINO - Francesca Caliolo sale sul palco a metà dell’assemblea in via Pedrotti. Non è una sindacalista, ma la moglie di Antonio Mingolla, morto all’Ilva di Taranto il 18 aprile del 2006. La sua voce si spezza per l’emozione. Racconta la tragedia e il calvario che ha passato un anno e mezzo prima della strage della Thyssen. La platea dei delegati Fiom ascolta. Antonio non era un dipendente dello stabilimento, ma vicecapocantiere di una società di manutenzione. Quel giorno lavorava su una conduttura sospesa del gas. Ecco, il veleno. «Perse i sensi e quando due compagni salirono per soccorrerlo svennero anche loro». Sono passati due anni e mezzo e Francesca spiega: «Ho fatto la spola da casa a Palazzo di giustizia, l'inchiesta si è conclusa con il rinvio a giudizio per omicidio colposo di sette tra dirigenti e responsabili dell'area, ma il processo è ben lontano dall'essere celebrato e i reati sono coperti dall'indulto». Aggiunge poi una verità scomoda. «Mio marito non si sentiva tutelato. Nemmeno dal sindacato. Era iscritto alla Fiom ma voleva strappare la tessera». E conclude: «Sono qui per dare la speranza ai miei figli che c’è ancora una giustizia». L’applauso è il più lungo e commosso della giornata.

Maurizio Marcelli, che modera gli interventi, raccoglie il monito: «Interpreta la volontà della Fiom e quella dell’incontro». Il sindacato metalmeccanici ha, infatti, deciso di costituirsi parte civile nel processo sulla morte di Mingolla e ovunque vi siano stati morti sul lavoro. Lo ha annunciato Giorgio Cremaschi, segretario nazionale, che ha aperto ieri a Torino, a un anno dal rogo della Thyssen, l'assemblea straordinaria degli Rls: «Abbiamo deciso di coordinare in tutto il territorio nazionale la costituzione di parte civile in tutti i procedimenti penali, sia in quelli aperti, sia in quelli che devono essere ancora avviati».
Dopo la Thyssen, altri lavoratori sono morti, tanti, troppi: 969 dall’inizio dell’anno. «Ci sono pratiche aziendali gravi – ha affermato Cremaschi – che mettono la vita dei lavoratori in costante pericolo. E queste, se provate, vanno punite come reati gravissimi. L’impunità diffusa è un modo per incentivare il non rispetto delle norme. Per questo condanniamo la pressione di Confindustria nei confronti di un governo compiacente per rimettere in discussione il Testo unico».

Hanno poi preso la parola avvocati e diversi Rls, provenienti da importanti realtà industriali, come la Fincantieri di Monfalcone e la Severstal di Piombino o dai piccoli cantieri della Sirti. Tutti hanno portato la loro testimonianza, raccontando le difficoltà nello svolgere l’attività sindacale e i contrasti sia con la dirigenza sia con i colleghi. Ci sono poi anche realtà che con la lotta hanno ottenuto di lavorare in un posto sicuro come spiega Mauro Merli, Rls Lamborghini.

A tirar le conclusioni è Gianni Rinaldini, segretario nazionale. «Esiste un documento inviato all’attuale governo di centrodestra da tutte le associazioni patronali in cui vengono proposte modifiche al Testo unico. Modifiche che se attuate porterebbero a un totale stravolgimento dello stesso. La nostra lotta invece continua e sosteniamo la proposta di Guariniello, di creare una Procura nazionale dedicata agli infortuni sul lavoro, ideata sul modello dell’Antimafia». Non sfugge poi a Rinaldini che «l’accordo separato sul sistema contrattuale, siglato la scorsa notte da Cisl e Uil con Confapi, mostra fino a dove sia giunta l’azione, in corso su vari piani, che punta a ridurre lo spazio dell’attività di contrattazione e, quindi, a diminuire il potere contrattuale dei sindacati. Potere che rimane lo strumento fondamentale per la difesa della salute e della vita dei lavoratori».

In questi giorni diverse iniziative ricordano a Torino la strage di un anno fa. Dibattiti e concerti come quello straordinario al Regio, lunedì. E una manifestazione, questa mattina, alle 10, che partirà dai cancelli della fabbrica (corso Regina Margherita 400) per concludersi davanti al Palagiustizia. Ad organizzarla la Rete nazionale per la sicurezza e l’associazione Legami d’acciaio, formata dagli ex operai Thyssen, tra cui Ciro Argentino, ieri presente in assemblea.

domenica 30 novembre 2008

Richey Edwards (1967 - ?) che un giorno scappò via


Dopo quasi 14 anni dalla sua scomparsa, una sentenza ha dichiarato morto Richey Edwards, chitarrista dei Manic Street Preachers. Gallese, genio tormentato. Ma troppo sensibile. Si ammalò di quel disagio che talvolta stritola gli artisti. Il primo febbraio del ‘95 decise di far perdere le sue tracce. Inizia qui il suo mistero.

Tirò fuori dalla tasca un coltello e si incise l’avambraccio sinistro. Scrisse “4 real”: davvero. Rivolgendosi a Steve Lamacq, giornalista del New Musical Express, che aveva davanti, e a tutti quelli che non volevano credere alla sincerità della sua arte. Era il 15 maggio del 1991 e la sua band, i Manic Street Preachers, stava per diventare importante. Quello sguardo, lucido ma inquieto, ritratto in uno scatto, è entrato nelle pagine della storia del rock. Richey Edwards, famiglia proletaria e laurea in storia politica, fu portato in ospedale e gli furono cuciti 17 punti. Ma a lui non importava: era riuscito a dimostrare l’autenticità della sua musica. L’aveva fatto sulla sua pelle. Fin da bambino – svelerà più avanti - provava un disagio: non riusciva a esprimere quello che sentiva. Come quando le cose si schiacciano fino a nascondersi dentro di te. Ogni tanto escono e possono diventare poesia. Così nelle sue canzoni, oltre alla cultura punk, si scorgeva Camus e Mishima. Uniti a forti dosi di marxismo. Senza nessun retaggio borghese, perché i Manic arrivano dal Galles delle miniere.
Richey era entrato nella band nel 1989, tre anni dopo gli altri (Nicky, James e Sean). Prima guidava solo il furgone. Poi imbracciò la chitarra (quella ritmica), con scarsa tecnica, ma diventando presto la coscienza del gruppo. Con la sua aria diafana, spaventata, è stato il volto più rock, nell’accezione fragile di questo termine, del quartetto. Ma come Cobain patisce il successo. E inizia un tunnel: depressione, alcool, droga e anoressia. Un malessere che confluisce nel capolavoro dell’agosto 1994 The Holy Bible. Qualche mese dopo sembra superare gli incubi e suona con i compagni a Londra. Il suo ultimo concerto. Perché il primo febbraio del 1995, all’età di 27 anni, a pochi giorni dal tour negli States, Richey fa perdere le tracce. Esce alle 7 del mattino dall'Hotel Embassy, a Bayswater Road. E scompare. La sua auto viene ritrovata qualche giorno dopo vicino a una stazione di servizio nei pressi del fiume Severn. Accanto a un ponte, facendo pensare a un suicidio. Lui che aveva detto – magari nascondendo la sua paura più forte – che quella parola che inizia per S non gli era mai balenata in testa. Da quel momento iniziano gli avvistamenti in giro per il globo: qualcuno dice di averlo incontrato addirittura in India. Sono passati quasi quattordici anni, il suo corpo non è stato mai trovato. Ora dopo una lunga sentenza, durata 7 anni (il minimo perché una persona scomparsa possa essere considerata deceduta) la famiglia ha ottenuto la dichiarazione ufficiale dell'avvenuta morte. Giuridicamente Richey non c’è più. Ma c’è chi ancora pensa sia solo scappato dai suoi fantasmi.

sabato 29 novembre 2008

Tff 5: La febbre di sabato è stasera

TORINO - C'è chi si è preso una settimana di ferie, chi è venuto nel fine settimana o chi ancora l'ha guardato con diffidenza. Ma le code e soprattutto i numeri parlano chiaro, il festival è stato un successo: 44% in più di presenze nel week-end e un po' di fisiologico calo nella settimana. Non tutto a ciel sereno però. Le polemiche, talvolta anche sterili, ci sono state, in particolare dopo l'inaugurazione al Regio con W. di Oliver Stone: troppo di sinistra per alcuni, troppo poco politico per altri. Ora, che manca solo la chiusura con The Edge of Love e la premiazione dei concorsi, l'interesse è già proiettato al dopo. Moretti continuerà a guidare il Tff? Nello staff le bocche sono cucite. O almeno sembra che la verità la conosca solo lui. Emanuela Martini, coordinatrice del festival e stretta collaboratrice del direttore, glissa: "Non sappiamo nulla, spetta a Nanni la decisione. Per ora festeggiamo gli ottimi risultati del festival. Il concorso è piaciuto molto per la sua qualità e la retrospettiva su Melville è stata come quella su Cassavetes lo scorso anno: i giovani non lo conoscevano, ma l'hanno scoperto e apprezzato. Grande interesse, inoltre, per i documentari". Non nasconde poi che – dopo due anni alla conduzione della rassegna – non gli è passata la voglia, anzi: "Sarebbe un peccato – spiega Martini - andasse perduto un patrimonio, perché si è formata una buona squadra di selezionatori". Moretti, intanto, alimenta la suspense. I meglio informati dicono che alla fine ci riproverà.

Questa sera gran finale e vedremo se si sbottonerà. Per i premi la giuria si sta riunendo: si parla di un testa a testa tra Tony Manero del cileno Pablo Larrain e Die Welle (L'Onda) del tedesco Dennis Gansel. Mancano poche ore al gala. Ed è già tempo di bilanci. La Martini, critica cinematografica di lungo corso (ha diretto Film Tv) e che del festival è stata una delle menti, è soddisfatta. Difende anche la scelta di W.: "E' un buon film, meno retorico rispetto ai suoi ultimi deludenti lavori. Appena l'ho visto ho detto: Stone è ritornato al passato e anche con un po' di humour . E' un'opera che testimonia come in America gli anticorpi liberal sono sempre vivi". Non parla – essendo ancora gara aperta - del concorso lungometraggi di cui è stata responsabile, ma si esprime sui film che ha preferito, fuori competizione: "Sicuramente United Red Army di Koji Wakamatsu e Of Time and the City di Terence Davies". Nega qualsiasi competizione con il festival di Roma, anche se Torino alla capitale aveva proprio soffiato la pellicola di Stone: "Non c'è concorrenza perché le due rassegne sono così diverse". Sotto la Mole si punta sul binomio qualità e popolarità. E l'idea di Moretti, confessata alla stampa estera, di portare il Tff in giro per altre città le piace pure. Giù il sipario, allora, con l'anteprima al Massimo del film di John Maybury, storia d'amore ispirata alla vita di Dylan Thomas, con Kiera Knightley e Sienna Miller. E poi vedremo se verranno sciolti i dubbi sul futuro. Sulle spine anche i lavoratori del festival.

venerdì 28 novembre 2008

Realt Time di Randall Cole (2008)

Un giovane gambler (giocatore d’azzardo) e un sicario di mezza età, incaricato di ucciderlo. Il loro viaggio in auto, verso il destino.

Ontologia del reale, tout court. I settantasette minuti della diegesi coincidono con la durata del film. Ed è il tempo che separa il giovane Andy dalla sua esecuzione. Ha un debito incolmabile: 68 mila dollari a un tipo della mala locale. Reuben, un killer, ha il compito di eliminarlo. Gli concede però un’ora per riflettere sulla sua vita. Per redimersi un po’, prima dell’aldilà. Un boia particolare, quasi una guida spirituale. Il film, che si snoda come un road-movie, si basa proprio su questo duetto attoriale esilarante: da una parte Jay Baruchel (già in Million Dollar Baby) e dall’altra Randy Quaid. Un equilibrio all’apparenza esile e un rischio - la verbosità della sceneggiatura – in agguato. Tutto neutralizzato. La carta vincente è l’alchimia tra i due protagonisti. Reale e finzionale. Gestita con maestria da Randall Cole (al secondo lungometraggio), che sceglie l’automobile come luogo topico e intimo di questa commedia nera. Su una Lincoln berlina nasce, infatti, una complicità all’inizio cinica ma poi sodale, tra la simpatia da schiaffi di Andy e la serafica saggezza di Reuben. Cole si ispira a Mikey and Nicky (1976) con John Cassavetes e Peter Falk. E a L’ultima corvè (1973), dove la parte del ragazzo toccava a Quaid. Come riferimento d’immaginario, filtrato però da una debita distanza canadese, c’è Scorsese, per i dialoghi serrati (e divertenti) e per un particolare uso – strutturale – della musica. Trentamila dollari, su un milione di basso budget, spesi solo per Without You di Harry Nilsson. Anche la svolta morale del finale, con effetto suspence, non stona nell’insieme, perché funzionale alla logica del rapporto tra i due. Due grandi attori.

giovedì 27 novembre 2008

Tff 4: Tra passato e futuro

TORINO - Un cinema che guarda al futuro, senza dimenticare il passato. Che sperimenta e scopre nuovi talenti e, allo stesso tempo, recupera i classici e i lavori perduti. L'anima bifronte del Torino film festival macina film su film e ormai - superata la boa di metà settimana – si avvia alla chiusura. Ancora tre giorni. Finora il pubblico ha risposto più che bene: le code non sono cessate nemmeno in settimana. E ora sembrano anche sfumare le polemiche politiche che hanno scandito i giorni della rassegna. Ecco l'ultimo outing: l'ex governatore Enzo Ghigo (Pdl) vorrebbe Moretti direttore anche nel caso in cui il centrodestra vincesse la Regione. Per Nanni, l'ultimo giorno non sarà uno qualsiasi: scadrà il suo mandato e, probabilmente, svelerà se sarà ancora alla guida del Tff.

Tornando al programma, questa sera evento speciale al cinema Massimo (ore 20): sarà presentato Diario di un Maestro (1973), la versione restaurata dell'opera di Vittorio De Seta, il maestro del documentario italiano. Ma il film in questione è uno sceneggiato, nasce infatti come produzione per la Rai e racconta la storia di un giovane insegnante napoletano che, fresco di nomina, assume l'incarico in una scuola romana. La classe più scomoda e difficile sarà affidata a lui. Che fare? Proporre un nuovo metodo basato sul dialogo, ma che alle alte sfere non piacerà. La proiezione sarà anticipata da un incontro tra il regista (siciliano, classe 1923) e Moretti. Uno dei tanti duetti del festival. Come nell'Amore degli inizi, dove il direttore conversa con sei registi italiani alla fine della proiezione del loro film d'esordio. Oggi, sarà la volta di Salvatore Piscicelli, domani di Marco Tullio Giordana e sabato di Paolo Virzì. Sempre a proposito dell'occhio verso il passato, venerdì sarà anche il giorno de La classe operaia va in paradiso, restaurata dal Museo del cinema.

Per quanto riguarda invece lo sguardo rivolto al futuro, oltre al concorso principale (ieri ancora tutto esaurito per il tedesco L'Onda), alle 16,30 al Massimo 3 sarà la volta di Hunger: l'esordio al cinema del videoartista inglese Steve McQueen. Film di denuncia sulle torture subite dai prigionieri dell'Ira. Rimanendo sempre nel Regno Unito, una delle sezioni che ha riscontrato il maggior successo è British Renaissance, quasi 40 opere girate tra gli anni Settanta e
Ottanta accomunate da un fervido anti-tacherismo. Applausi, e anche risate, in sala per Michael Palin, attore dei Monty Python.

martedì 25 novembre 2008

Tff 3: Record d'incassi e Gaglianone tra i doc

TORINO - Nel giorno in cui Oliver Stone trova un distributore italiano per il suo W., la Dall’Angelo Pitctures, il Tff festeggia il parziale record d’incassi. Nei primi tre giorni è cresciuta del 44% la vendita di biglietti rispetto alla scorsa edizione. Intanto, smaltite (ma non troppo) le code del Week-end, continua il concorso lungometraggi. Oggi in programma Die Welle (un insegnante alle prese con il totalitarismo), Demain (dramma familiare) e Momma’s man (un padre con la sindrome di Peter Pan). E poi le altre sezioni. Una su tutte Italiana.doc sulle nuove forme del documentario. La più vivace tra quelle «nazionali». Ecco come il festival replica alle accuse, un po’ strumentali, di esterofilia mosse prima dell’inaugurazione. Daniele Gaglianone, regista torinese (già a Cannes), ha inaugurato sabato, davanti a un cinema Greenwich gremito, il concorso con il suo ultimo lavoro - molto applaudito - Rate Nece Biti (non ci sarà la guerra): dieci ritratti dalla Bosnia, da Sarajevo a Srebrenica. Un viaggio alla ricerca di incontri e di volti, in bilico tra la capitale dal passato cosmopolita e la campagna dove le ferite del conflitto non sono ancora sanate. «Era un’idea - ha spiegato l’autore - che avevo in mente da dieci anni, ma solo grazie alla proposta della Babydoc Film, arrivata in un momento complicato della mia carriera, sono riuscito a realizzare».

sabato 22 novembre 2008

Tff 2: Una pietra sopra Bush

TORINO - Stone arriva elegante con un cravattino celeste nella passerella più glamour che il Torino film festival abbia mai visto. Certo, a qualsiasi aficionados di Cannes o Venezia sarà apparsa fin troppo sobria. Ma per l'austera Torino e per il suo festival, un tempo di nicchia, è già tanto. Ci sono le auto blu, qualche pelliccia sparsa, tanti fotografi e pochi studenti che volantinano. Niente tappeto rosso però. Di rosso c'è già il Regio, il teatro più importante della città, che quest'anno ospita l'inaugurazione della rassegna. In sala, insieme al direttore Nanni Moretti, i due premi Oscar: Roman Polanski e Oliver Stone. E così anche le note di colore spariscono, spodestate dall'impegno, dalla politica. Perché il film che apre la ventiseiesima edizione è un'opera forte: W., l'ultimo lavoro di Stone, che racconta la parabola di George W. Bush. La pellicola rischia però di non trovare un distributore in Italia: "Sarebbe assurdo – ha detto Moretti - se da noi non uscisse". L'autore di Platoon rifiuta l'etichetta di regista controverso: "Sono solo un uomo che cerca di raccontare la realtà col cinema". E prima che in sala le luci si spengano e appena dopo la standing ovation a Polanski, Stone si rivolge al pubblico: "La storia del film è stata a lungo nascosta ed è uscita grazie ai giornalisti. Bush è diventato quello che è, perché sottovalutato e questo è stato un grave errore". Parte così il Tff, in bilico tra popolarità e qualità. Una sfida difficile, ma che si può vincere. La prima volta a Nanni era riuscita, non resta che bissare e magari migliorare il successo dello scorso anno.

Oggi programma fitto fin dal mattino nelle 11 sale del festival. La scelta è varia e orientarsi non così semplice. La retrospettiva British Renaissance inizia subito a pieno ritmo, attraverso lo sguardo dei talenti d'Oltremanica che più di vent'anni fa hanno rappresentato sullo schermo la Gran Bretagna dell'era Thatcher. Per farsi un'idea si può optare tra Jubilee di Derek Jarman, i lavori per la tv di Ken Loach, Angel di Neil Jordan, My beautiful laundrette di Stephen Frears, The great rock'n' roll swindle di Julien Temple o Drowing by Numbers di Peter Greenaway. Chi ieri si è perso W. può vederlo alle 14,30 all'Ambrosio 1, seguito dall'irlandese Helen di Joe Lawlor e Christine Mollowy (17,30), primo film del concorso lungometraggi. Stessa sala per l'altra opera in gara, il belga Non-Dit di Fien Troch, (20,15). Nella sezione Fuori concorso spiccano Filth and Wisdom, l'esordio dietro la macchina da presa di Madonna (Massimo 1, ore 20), Katyn, l'ultimo lavoro del grande regista polacco Andrzej Wajda (Ambrosio 2, 20), e Dream di Kim Ki-duk (Nazionale 1, 22.15). Per italiana.doc in concorso c'è Rata Nece Biti (Non ci sarà la guerra) del torinese Daniele Gaglianone e per la più politica delle sezioni Made in America di Stacy Peralta. Infine, il grande maestro Roman Polanski incontrerà il pubblico alle 15 al Massimo 1. La sua retrospettiva oggi presenta Repulsion (Ambrosio 3, 10), Chinatown (Massimo 1, 17,30) e What? (Ambrosio 3, 21,30).

venerdì 21 novembre 2008

Perché tu pensi che essere poveri sia figo

A un certo punto le cose si fermano. Si fermano perché tu non sai più qual è la realtà. Si fermano perché non è possibile che tu non abbia nulla da tutto quel – anche poco - che fai. Idolatrare mai. Questo lo sapevo. Ma basta. Quel che stato è stato. Diffida di quelli che ti dicono “I want to live like common people”, come diceva Jarvis Cocker dei Pulp. Eh sì, ora cito le canzoni come un adolescente, ma che altro sono? “I said pretend you've got no money”. Ma non ci sarai ancora riuscita. Perché quando guarderai gli scarafaggi che si arrampicano sul muro, papà potrà risolvere tutto. Comunque, a me, continua a piacermi la versione in cui William Shatner, sì proprio il capitano Kirk di Star Trek, la canta, al Tonight Show with Jay Leno, con Joe Jackson e Ben Folds alla tastiera. Sparita da Youtube, l’ho ritrovata un po’ lo-fi.

Tff 1: Ciak con Stone e Polanski

TORINO - Di tempo ne è passato da quando si chiamava Cinema giovani ed era irriverente e di nicchia. Ora che di anni ne ha ventisei e grande lo è da un pezzo, apre - questa sera - la sua nuova edizione con due premi Oscar: Polanski e Stone. E lo fa addirittura al Teatro Regio. Quasi come una delle più tradizionali rassegne europee. Ma niente paura. Di lui, il Torino film festival, se ne parla sempre di più, ma la sua anima l’ha conservata: curiosa e inquieta. E continua a dar fastidio. Vedi le polemiche degli ultimi giorni, che hanno portato il direttore Nanni Moretti al tavolo di un’audizione in Comune. L’accusa del consigliere Ravello di An: «nessun italiano nel concorso principale». Basterebbe ricordare, per sgonfiare la polemica, che nemmeno lo scorso anno c’erano. Nanni difende il suo festival e ribadisce che l’unica discriminante è la qualità.

Tutto pronto allora per partire: 230 film per undici sale divise tra Massimo, Greenwich, Ambrosio e Nazionale. A cui si aggiunge il Regio per l’inaugurazione. L’appuntamento è quindi alle 20 con l’attesa anteprima di W., biopic sull’ultimo presidente degli Stati Uniti, George Bush, interpretato da Josh Brolin. In sala, insieme al regista Oliver Stone, anche Roman Polanski, a cui il festival dedica una retrospettiva completa da Rosemary’s baby a Il pianista. La coppia da Oscar sarà poi in esclusiva televisiva a Che tempo che fa su Raitre, sabato e domenica. Tra le quattro sezioni competitive la più importante è certo Torino 26, il concorso internazionale di lungometraggi. Quindici opere da tutto il mondo, che però possono essere raccolte in una tendenza comune: la famiglia in un momento di profonda crisi. Sono storie di amori e divorzi, di incontri e lutti. «Abbiamo scelto - dice Moretti - film che raccontassero qualcosa di nuovo». Con uno sguardo innovativo: dal cileno Tony Manero all’irlandese Helen.

Poi, da non dimenticare Internazionale.doc e Italiana.doc, i concorsi dedicati alle forme del documentario. Tredici cortometraggi saranno, invece, in gara per Italiana.corti. Fuori dalla corsa ai premi Lo stato delle cose, sezione dedicata alla politica, e L’amore degli inizi con gli esordi al cinema di Marco Tullio Giordana e Giuseppe Bertolucci. In programma, fino al 29 novembre, anche un po’ di anteprime: The Edge of Love con Kiera Knightley e Sienna Miller e Dream di Kim Ki-Duk, a capitanare il plotone degli orientali. E due retrospettive: Jean-Pierre Melville, il più americano dei registi francesi, e British Renaissance, 40 titoli tra fine anni '70 e fine anni '80, che raccontano una Gran Bretagna arrabbiata. La novità di quest’anno è, infine, il Torino Film Lab, primo laboratorio internazionale per le opere prime e seconde. Si occuperà sia di training sia di development, ovvero di progetti ancora alla fase di trattamento e di altri alla ricerca di produttori per essere realizzati. A partecipare ventitré giovani di talento che si contenderanno
premi di produzione tra 50 e 200 mila euro.

sabato 15 novembre 2008

Adam Green, il furbacchione di talento

TORINO - E’ un furbacchione di talento. Di grande talento, altrimenti non staremmo qui a parlarne. Adam Green, origini newyorkesi, è nel mondo della musica da quando aveva quattordici anni (metà anni Novanta), prima con il progetto Moldy Peaches e poi dal 2002 da solista. Furbacchione perché riesce a saccheggiar musica dai grandi classici (da Scott Walker a Jim Morrison fino a Leonard Cohen) e a farla sua. Nessun plagio, ma grande capacità di contaminare e rinnovare. Con quell’irriverenza che gli è propria fin dagli esordi e che l’ha fatto eleggere a capostipite della nuova generazione anti-folk americana: musica folk, senza purismi, ed etica punk. Questa sera allo Spazio 211 (ore 22) Green presenterà il suo quinto album Sixes & Sevens, uscito per la storica etichetta inglese Rough Trade. A ventisette anni, si ritrova in una dimensione più soul e orchestrale (ascoltate, per esempio, Morning after midnight).

Il disco è stato registrato a New York in tante location diverse: il suo appartamento, il suo studio di Brooklyn, e una scuola per bambini autistici a Jersey, gestita dalla moglie del suo storico produttore Dan Myers. E poi, non passa certo inosservata la partecipazione di David Campbell, che ha lavorato con Michael Jackson, Elton John e Beck, in veste di arrangiatore. L’ironia maliziosa rimane quella di sempre e pure il metodo di composizione: Adam frulla tutto ciò che lo ispira. Ma adesso scopre nuovi lidi, il gospel. Ecco spiegata l’incursione di un coro gospel di Brooklyn nelle tracce dell’album. Gioca poi con la storia dei cantautori americani, anche con doti da intrattenitore e una faccia un po’ da schiaffi. Basti pensare che uno dei paralleli più ricorrenti è quello con Jack Black, l’attore di School Of Rock, che è tra l’altro è un suo fan. L’appuntamento per ascoltarlo è quindi in via Cigna 211 (biglietto a 12 euro). Per sentire così una delle più interessanti voci dell’indie rock: profonda, a volte sporca, e con un’aria scanzonata e dispettosa.

Ad aprire il suo concerto toccherà a El Cijo, gruppo di Ancona, prima band della nuova etichetta emiliana Still Fizzy Records, che presenta il proprio debutto, Bonjour My Love: folk, jazz e country in chiave contemporanea. Un suono malinconico e ipnotico dalle chiare radici americane e dal’interpretazione tutta europea. Segue Taboo, l’ormai tradizionale nottata danzate dello Spazio 211.

martedì 28 ottobre 2008

Bonnie 'Prince' Billy - Lie Down in the Light (2008)

Quattro volti di giovani spuntano dall'acqua. Siamo a Lousville, 1991. Dietro alla macchina fotografica Will Oldham, una passione per le arti visive. Davanti gli Slint. Lo scatto è per la copertina di Spiderland, disco tanto importante quanto misconosciuto all'epoca. Fu proprio 17 anni fa, il primo contatto del futuro principe Billy con il mondo della musica. Nemmeno lui si sarebbe immaginato che sarebbe diventato il songwriter più significativo della sua generazione.

Dal '92 in poi ha sfornato 16 album uno dietro l'altro, sotto vari nomi da Palace Brothers all'ultima variazione, Bonnie Prince Billy. Nell’ultimo lavoro Oldham, che con I see a darkness (1999) si era creato la fama di poeta delle tenebre, sembra quasi aver trovato la luce. Dalla prima nota si è infatti colpiti da una solarità atipica, certo a tratti malinconica, che – sempre sostenuta da una scrittura scheletrica – contamina anche le ballate più scure, come quando in You Remind Me of Something canta “I like the places where the night does not mean an end”.

A ogni nuovo disco, Will corregge il tiro del suo folk che diventa jazzato in For Every Field There’s a Mole, si fa sixties negli splendidi duetti con Ashley Webber (So Everyone e You Want That Picture) o country in Where’s the puzzle. Ma poi si raccoglie nella scarna e intimista What’s Missing is. E’ sempre lui, il principe della semplice complessità.

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domenica 28 settembre 2008

Ventimila in corteo: «La crisi non è vicina, la stiamo già vivendo»

TORINO - In testa c'è quel drago che ha divorato in meno di un anno 362 euro a ogni lavoratore. Si apre così a Torino il corteo della Cgil, con una dedica beffarda al fiscal drag che, seppure il potere d'acquisto di salari e pensioni si riduca, «il governo - spiega il sindacato - non vuole restituirci». Via Po, che collega piazza Vittorio (la partenza) a piazza Castello (l'arrivo), è gremita: ci sono tutte le categorie. Ci sono gli insegnanti, i metalmeccanici, i pensionati e gli studenti. Dicono basta al governo dei tagli e vogliono una svolta, perché la crisi non è vicina, «la crisi la stiamo vivendo».

La risposta è stata buona, ventimila persone secondo gli organizzatori. Davanti, i cartelli con i prezzi raddoppiati dal 2001 a oggi (un chilo di pane +50,8%, il gasolio +65,8%). Un'immagine simbolo la trovi, invece, nel secondo spezzone: Angelo, rsu alla Key Plastics di Beinasco, ha per mano la sua bambina che fa le elementari, entrambi portano un cartello. «Siamo tutti coinvolti - spiega - io perché il sindacato difenda il suo ruolo, mia figlia perché è importante una scuola di qualità, che sia pubblica». Antonio, pensionato, guarda ai figli che pagano mutui che non possono permettersi e sbotta: «La tanto agognata proprietà della casa è il male, se vedi la crisi americana non puoi non pensarlo». Vicino a lui, Giorgio, ancora qualche anno prima della pensione e una casa in affitto: «Con uno stipendio di 1100 euro, una moglie a carico e una figlia che fa le superiori, mi spiegate come si fa ad arrivare a fine mese?».

Uno degli spezzoni più corposi è quello della Flc. Maestre con grembiule e fischietto, scandiscono slogan: «Gelmini non ci fai paura, Moratti ci ha insegnato a far la faccia dura». Dietro lo striscione, anche il segretario provinciale Igor Piotto: «I tagli alla scuola destrutturano tutto il sistema scolastico, abbassandone la qualità. E poi c'è il disegno Aprea che vorrebbe espropriare il sindacato del suo potere contrattuale. Sabato manifesteremo a Torino». A poche decine di metri, ci sono gli studenti. Arrabbiati anche loro. Roberta, 19 anni rete Reds, ex Albe Steiner (istituto professionale per grafici) e neo iscritta a Scienze Politiche: «Con i tagli - racconta - sono state ridotte le ore di carattere tecnico-professionale, che in una scuola come la mia sono fondamentali, così il diploma perde valore».

Più indietro ci sono gli operai della Bertone, da mesi sulle prime pagine dei giornali locali: «Dopo l'Alitalia - dice Giacomo Zulianello, rsu Fiom - siamo noi i prossimi, a dicembre rischiamo il fallimento». Uno dei motivi del tracollo - spiegano - è che Lilli Bertone, la proprietaria, non vuole cedere a nuovi acquirenti (Lotus tra gli altri), ma per farci cosa? «Motori ad aria compressa e auto in proprio. Qualcosa di assolutamente anacronistico».

E poi, ecco quelli che Brunetta chiama «fannulloni», i lavoratori della funzione pubblica: «Il ministro non è che un esempio comune di questo governo, creano un clima di emergenza senza risolvere nulla». Qualcuno parla della giornata di oggi come della prima per una nuova opposizione: «Visto che i partiti della sinistra non ci pensano, lo facciamo noi. E ci auguriamo, anzi ci impegneremo per farlo, che il manifesto resista» sottolinea Diego. Si arriva tutti in piazza, parla Donata Canta, segretario della Camera del lavoro. La battaglia per i diritti continua.

sabato 27 settembre 2008

Pandora, il nuovo format dal basso


È proprio la curiosità, anche imprudente, di Pandora, che manca al giornalismo di oggi. La volontà di scovare e testimoniare quello che gli altri non vogliono o magari non possono dire. Non c'è allora nome più adatto per un nuovo progetto televisivo, appunto Pandora: idea lanciata alcuni mesi fa da Giulietto Chiesa e che ora - con redazioni e comitati sorti un po' in tutta Italia - prende forma. Si tratta di uno spazio di informazione indipendente che andrà in onda su satellite (Sky 924), reti regionali e web. Un programma di approfondimento giornalistico finanziato dai cittadini. Dal vaso della mitologia questa volta, però, non «verranno liberati» i mali del mondo, ma le verità che nessuno vuole più raccontare.

E un progetto che nasce dal basso, presentato ufficialmente a Roma qualche giorno fa, non può non mettere le radici là dove è stato sperimentato un modello di partecipazione. Così Pandora, ha fatto ieri la sua prima vera uscita pubblica proprio in Val Susa. Dopo essere stata a Torino (alle 18), è sbarcata in valle a Bussoleno, alle 21.15, per la presentazione del progetto con Chiesa e Udo Gumpel, corrispondente in Italia della tedesca Ntv, che sarà il direttore della testata.

La sottoscrizione è stata lanciata da tempo e, ad oggi, più di 3.500 cittadini si sono dichiarati disposti a versare la quota (da 100 a 250 euro) per dar vita a Pandora, dimostrando un'esigenza, non demandabile, di pluralismo e libertà di informazione. Anche i lavori per il format sono iniziati, se tutto andrà come dovrebbe, partirà a dicembre. A Torino si è formata una piccola redazione, dove già si parla di come impostare i servizi, che taglio dare (inchiesta o cronaca), ma anche di come recuperare le telecamere.

Pandora nasce puntando sulla qualità - sia di contenuti sia di forma - con professionisti della comunicazione, ma è aperta alla collaborazione di chi abbia qualcosa da raccontare. E soprattutto, dicono gli organizzatori: «Pandora non è il megafono di qualcuno o per qualcuno, vuole dare voce a chi non ce l'ha». Si propone come esempio autentico di servizio pubblico, una televisione che risponde a un unico editore: i suoi telespettatori. Si partirà allora con un programma settimanale di 90 minuti e un notiziario quotidiano sul web e sul satellite, realizzati negli studi di Europa 7 di Di Stefano. E se si scorre la lista dei primi firmatari, le prospettive non possono che essere buone: da Alex Zanottelli a Sabina Guzzanti, da Luciano Gallino a Felice Casson, da Franco Cardini a Moni Ovadia, da Valentino Parlato a Serge Latouche, da Gianni Minà a Ennio Remondino. Per il resto, si può andare sul sito, www.pandoratv.it.

venerdì 5 settembre 2008

«La fine del fordismo? Venite in fabbrica a vedere»

TORINO - Sembra che ci sia un mondo che dimentichi sistematicamente il lavoro, ma i lavoratori quel mondo non lo dimenticano. C'è il vissuto e la rabbia in chi parla, ma c'è anche uno sguardo che va oltre: alle condizioni dei propri simili in ogni parte del globo. E' questo lo spirito del forum di Sbilanciamoci, apertosi ieri; è questo lo scopo del nuovo sindacato come dice Giorgio Airaudo della Fiom: «Difendere i salari ed esportare i diritti, battersi per l'ambiente e contro la precarietà». E c'è chi addirittura parla di sogni di «un mondo più giusto» come Nina Leone, rsu alla carrozzeria di Mirafiori. Ma poi c'è il dramma della realtà: «E' il peso del precariato che ti porta a sbagliare» sbotta Giovanni Pignalosa, rsu Thyssenkrupp, che a 38 anni, in quella terribile notte di dicembre, era il secondo più anziano dopo Rocco Marzo, la quinta vittima della strage. Questo, per dire quanti giovani c'erano in quella fabbrica, con contratti temporanei e poca formazione.

Sono voci raccolte in assemblea a Torino, nella sede della quinta lega Fiom: un incontro, introdotto da Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci, con gli operai di Fiat e Thyssen. Finalmente, si parla di lavoro: «E' stato eliminato dall'agenda pubblica, sembra che il conflitto sociale non esista più, invece riguarda milioni di persone» sottolinea Lucio Zola di Lunaria, una delle associazioni che organizza la contro-Cernobbio torinese. «Dicono che il modello taylorista-fordista è stato superato. Vengano in fabbrica, il lavoro alla catena di montaggio non è tanto diverso da quello di Chaplin in Tempi Moderni» spiega Ugo Bolognesi, Fiom Mirafiori, che aggiunge: «Non ci sono più stati morti nello stabilimento, ma aumentano le malattie da sforzo ripetuto». «E così a 50 anni non vedi l'ora di andare in pensione o magari sperare in una mobilità» dice Nina Leone.

A Torino sono 75 mila le persone impiegate nell'industria dell'autoveicolo. Solo poco tempo fa sembrava non esistessero. Il sindaco Chiamparino parlava di rilancio olimpico, di turismo, in un'ottica di dopo Fiat. Poi c'è stata la tragedia Thyssen, e si sono riaccorti delle tute blu. «E quello non era il posto con le peggiori condizioni lavorative - commenta Fabio Carletti, Fiom - c'era, a differenza di altre realtà, ancora una rappresentanza sindacale». Era un'azienda però che faceva «dumping sociale», aggiunge Airaudo: «Ci sono benefit per i capi del personale che risparmiano a scapito della sicurezza». La Thyssen ha ispirato La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti, che a Venezia si è sperticato in elogi a Renata Polverini, segretaria Ugl, un sindacato che nell'azienda torinese non esisteva. Pronta la risposta di Airaudo: «Dispiace che Calopresti non veda anche il sacrificio dei delegati Thyssen. Certo, la Polverini la si può incontrare a Venezia o a Roma e non tra i metalmeccanici torinesi».

mercoledì 3 settembre 2008

Micah P. Hinson - And the Red Empire Orchestra (2008)

Starà anche sulle spalle dei giganti. Su quelle di Cash, Dylan e Waits, ma il piccolo Micah – 27 anni, nato lo stesso giorno in cui Ronald Reagan venne colpito in un attentato (30 marzo 1981) - può già guardare in alto. Nonostante i dolori alla schiena, i tormenti dell’animo e quelli della vita. Ora al terzo disco con la Red Empire Orchestra affina il suo talento, meno rude rispetto all’esordio e più elegante. Ma che non fosse un semplice nano - come tutti noi - lo si capiva dal primo album, per quella voce calda e maledetta, che lo fa sembrare, nel suo corpo gracile e imberbe, molto più vecchio di quello che è.

E non è solo un fatto di corde vocali: in lui cova tutto il germe di una tradizione americana “sad and beautiful”, triste e splendida. Il suo recente passato parla di dark lady che ti strappano il cuore, di notti in cella, di psicofarmaci e di un padre integralista cristiano che non ti vuole più vedere. Di contorno c’è la provincia americana, il Texas e la noia: quei sapori western che emergono nel brano di apertura Come home quickly darlin’, in una bassa fedeltà che pian piano si fa più ariosa, rivelando il registro orchestrale di buona parte dell’album. I colori sono sempre accesi, i sentimenti forti, ma i tratti rimangono sobri ed essenziali. When we embraced, banjo e voce, è la perfezione della semplicità, ma è in I Keep Havin’ These Dreams, con il suo tappeto d’archi, che si rivela il nuovo Micah. Non si dimena più come una volta, ma certo non si risparmia con la voce: come quando questa si spezza, si accende o si fa drammatica in The Fire Came Up To My Knees. Va poi a scoprire i giganti del passato: in We Won’t Have to be Lonesine c’è Dylan, in Throw The Stone ma ancor più nella splendida e finale Dyin’ Alone c’è Cash.

Un po’ di serenità l’ha raggiunta - ad un concerto a Londra ha chiesto la mano alla fidanzata Ashley - ma ancora una volta I’album è nato dal tormento. Dopo l’ultimo tour si trovò a casa con la schiena che scricchiolava e mille incertezze sul futuro. Così la musica si è fatta catarsi, ma senza nulla di paradisiaco: “I’m not afraid of suffering or pain, I’m afraid to die alone” sono le parole finali del ragazzo del Texas, sempre più intenso.

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martedì 29 luglio 2008

Pitchfork, l'indie-tivì


Dimenticate Youtube ma dimenticate anche Mtv. A Chicago è nato qualcosa di diverso. La webtv di Pitchfork punta ad un’alta definizione video e a scoprire il sommerso, non a sponsorizzare il mainstream. Il parallelo più consono è quello con John Peel e le sue sessions alla Bbc. Certo l’epoca è diversa, qui siamo immersi nel digitale. Ma gli intenti di ricerca sono gli stessi.

Costola della rivista Pitchforkmedia, che da piccola fanzine di provincia è diventata il principale punto di riferimento per la musica indipendente, la tv è stata inaugurata da un live dei Radiohead con Thom Yorke alla batteria. La logica è quella del flusso televisivo, attorno al quale si organizza un’offerta ampia. Basta un clic e ci si imbatte in un’esibizione dei Liars o in un film sui Pixies o su John Cage, passando per un live alla Columbia University dei Vampire Weekend. Ovviamente, un’intera sezione è dedicata ai video dei gruppi indie che non troverebbero spazio nelle tv ufficiali. Documentari, reportage, interviste, programmi monografici e poi ci sono i live dalla terrazza di Pitchfork: qui il riferimento con le Peel Sessions è immediato.

Perché tanta libertà di sperimentazione? Pitchfork è un progetto indipendente, senza condizionamenti né finanziamenti esterni. Così è nato il magazine e così si è conservato fino all’arrivo della tv: un canale on demand, che si può vedere tranquillamente a tutto schermo. Era ora, anche il pianeta “indie” adesso ha la sua tv.

venerdì 11 luglio 2008

Vijay, lasciato morire dal padrone perché clandestino

VIADANA - Morire sotto il sole cocente, morire senza che nessuno ti soccorra, morire come un impiccio per il capo che non vuol far sapere che tu per lui lavori in nero. Così Vijay Kumar, indiano di 44 anni, se n'è andato il 27 giugno scorso, ucciso dalla fatica dei campi, dal caldo e dall'indifferenza. È successo nelle campagne di Viadana, cittadina ricca della pianura mantovana, a due passi dal Po. Solo ieri mattina sembrava una morte - tragica - ma senza troppi misteri, fino a quando non è venuta alla luce una brutta e inquietante storia di sfruttamento e caporalato. Ed è scattata una denuncia per omicidio colposo nei confronti del produttore ortofrutticolo Mario Costa.

Vijay era in Italia da sette o otto mesi, clandestino anche per gli effetti distorti della Bossi-Fini. Due settimane fa, venerdì, mentre lavorava nella frazione Salina in un campo di meloni - che insieme alle angurie sono il frutto più tipico di questa redditizia campagna padana -, è stato colto da malore. In mezzo a un appezzamento di terreno, sotto un sole che brucia e con la fatica che ti toglie il fiato. A un certo punto, dall'alto, scatta un ordine, rivolto ai colleghi, braccianti come lui: spostate Vijay, portatelo in un altro luogo, insomma toglietelo di mezzo. Il comando arriva dal padrone dell'azienda. Tra i lavoratori si scatena il panico. La strada è lontana, dove portarlo? Servirebbe un'auto, chiamano con i telefonini, ma il tempo passa e Vijay sta sempre peggio. Rintracciano un connazionale a Suzzara, che dista almeno una ventina di chilometri da Viadana. Quando la macchina arriva in via Bordenotte, vicino al campo, sono ormai passate due ore: un'agonia terribile per il cuore di Vijay, che non ce la fa più a reggere. Lo portano in una zona alberata - il lavoro sporco è finito - e lì lo lasciano. Qui, vicino a un fosso, è stato ritrovato, senza speranze e ormai morto.

Questa storia è venuta alla luce solo ieri, per dieci giorni si è raccontato che Vijay fosse morto per il caldo, mentre si aggirava solitario in campagna. Intanto, gli inquirenti svolgevano i primi accertamenti. Gli sviluppi sono stati clamorosi. Mercoledì è scattato il blitz di carabinieri nell'azienda di Mario Costa. Il proprietario è stato denunciato per omicidio colposo, ma nei guai è finito anche il presidente della cooperativa Facchini Vitelliani di Viadana per aver fornito all'azienda manodopera in modo irregolare. Nell'operazione sono stati identificati quattro lavoratori extracomunitari occupati in nero, tre dei quali senza permesso di soggiorno. Ma il documento è stato richiesto d'ufficio per motivi di protezione sociale; sono ritenuti, infatti, testimoni della morte di Kumar. Oltre che di omicidio colposo, Costa dovrà rispondere di impiego di manodopera clandestina e dovrà pagare una multa di 90 mila euro per utilizzo di lavoratori in nero. E la procura di Mantova potrebbe contestargli anche l'omissione di soccorso.

A Viadana la tragedia di Vijay Kumar è stata molto sentita. Ventimila anime, delle quali oltre due mila stranieri. Un polo chimico avanzato, un'industria agricola moderna e un tessuto imprenditoriale vivace (1300 aziende). Vanta poi il tasso più basso di disoccupazione di tutta la Lombardia, l'1,6%. «Un'isola felice - la descrive il sindaco Giovanni Pavesi (Pd) - anche per l'integrazione, i matrimoni misti sono all'ordine del giorno e tra poco verrà istituita la Consulta per migranti». Le storie di marginalità e sfruttamento parevano lontante: uno dei sentimenti più ricorrenti è, infatti, lo stupore. Il lavoro nero sembrava un fenomeno più che marginale, «al massimo stagionale», d'estate nei campi di meloni. «In un contesto di piena occupazione - sottolinea Pavesi - c'è bisogno di manodopera e si fatica a recuperarla. E poi ci sono i problemi burocratici, ci vuole troppo tempo per avere un permesso di soggiorno, ma sul rispetto della legalità da parte delle aziende non si possono fare sconti». A dirla tutta, la cooperativa coinvolta non aveva una grande reputazione: «Aveva già ricevuto delle multe - spiega Cristiano Ferrarese, segretario della locale Camera del lavoro - ma poi non se n'era fatto niente. Ora, come sindacati lanceremo delle iniziative, che vadano oltre la solita commozione e cerchino di fare qualcosa di concreto».

lunedì 30 giugno 2008

Adem - Takes (2008)

Una volta c’erano le cassette, magari detestate per la bassa fedeltà ma in grado di raccontare un mondo. Più che duplicare, facevano biografia. Ora, in epoca digitale ormai inoltrata, al suo terzo album, Adem Ilhan sembra volerne raccogliere l’eredità. In Takes, il talentuoso cantautore inglese d’origine turca (già membro dei Fridge), taglia, cuce e personalizza le sue canzoni preferite, rileggendo dieci anni di indie-rock, dal 1991 al 2001. Smussa gli angoli degli originali e ne coglie l’essenza. Bastano voce, chitarra, piano, violino e inserti elettronici per un disco di cover eterogeneo e sorprendente.

Si va da Bedside Table Chef che fa proprio lo stile lisergico dei Bedhead, ma in una veste ancor più crepuscolare, a Oh my lover di Pj Harvey, per arrivare all’intima Slide di Lisa Germano. Dalla quarta all’ottava traccia Adem non sbaglia un colpo: la soffice melodia ritmata di Loro dei Pinback di cui conserva i cori, la splendida Hotellounge dei dEUS, l’eterea To Cure A Weakling + Boy/Girl song liberamente ispirata ad Aphex Twin e i crescendo di Starla degli Smashing Pumpkins. L’ipotetico lato B del mix tape si chiude con l’elaborata Gamera dei Tortoise, Unravel di Bjork (senza troppe smancerie), la disinvolta Invisible Man dei Breeders e la raccolta Laser Beam dei Low. Da autore a interprete, Adem non perde un centimetro della sua stoffa.

sabato 3 maggio 2008

Il puzzle multietnico

TORINO - Se vai a San Salvario una delle cose che ti sorprende sono i citofoni. Accanto ai portoni, le pulsantiere sono un melting pot di cognomi piemontesi, africani, filippini e meridionali. A Porta Palazzo invece è tutto più omogeneo: stranieri e italiani rimangono separati.
Questi sono i due grandi quartieri d’ingresso di Torino, ma tutta la città viene pian piano coinvolta dai fenomeni migratori.

l’esperto
«Lo spazio pubblico è sempre in trasformazione, indipendentemente dalla presenza straniera, che è comunque uno dei fattori della sua evoluzione», spiega Alfredo Mela, docente di Sociologia urbana al Politecnico di Torino, che si occupa di spazi della multiculturalità. L’immigrazione attuale sta ripercorrendo le tappe di quella meridionale negli anni ’60. «Quando gli stranieri arrivano – continua -, occupano gli spazi più permeabili e raggiungibili, le zone centrali della città, vicine alla ferrovia o ai grandi mercati». Dopo una prima localizzazione, una volta ricomposto il nucleo familiare, gli stranieri si spostano dove i costi sono più contenuti ma le condizioni migliori, come in periferia, e iniziano ad appropriarsi degli spazi pubblici della città, gli stessi utilizzati dagli italiani. La domenica il Valentino è sempre più frequentato da famiglie di immigrati.
Ci sono etnie più visibili, per esempio quella maghrebina, e altre con socialità interna come quella cinese. Un’ulteriore distinzione è anagrafica. “Tra i ragazzi immigrati – sottolinea Mela - emerge l’importanza della scuola come spazio pubblico aggregativo, con attività sportive e teatrali, e degli oratori che in molti casi si trasformano da luoghi connotati in senso religioso a spazi sociali interculturali”.

the gate
Da sempre è il termometro della città, l’anticipatore dei cambiamenti, in quanto luogo d’approdo per tutti i nuovi arrivati. Porta Palazzo è antropologicamente un luogo d’incontro, è il mercato più grande d’Europa. Per Luca Cianfriglia, responsabile del progetto The Gate, è l’internet dei poveri: “Puoi trovare una casa, informazioni, il lavoro o la fidanzata".
Storicamente punto di scambio e d’incontro, a Porta Palazzo non è cambiato niente se non i modi di interagire. Gli spazi pubblici sono luoghi d’aggregazione informali, ogni zona è un punto di riferimento per qualche etnia: in corso Regina vicino al Palafuksas si ritrova l’Africa Nera, in via Cottolengo i maghrebini, al mercato dei contadini i rumeni. Il progetto The Gate lavora su diversi ambiti: culturale, economico, architettonico e sociale. Promuove iniziative d’integrazione, per le quali la grande piazza del mercato e i cortili sono spazi privilegiati.
“Abitare a 360° - racconta Viviana Rubbo -, attraverso incontri e aperitivi, incentiva i vicini di casa a conoscersi meglio nel rispetto dei diritti e dei doveri di condominio". Nel frattempo in piazza della Repubblica proseguono le lezioni domenicali di italiano, cinese, arabo, romeno e portoghese. “Nel complesso – conclude Cianfriglia - a Porta Palazzo è difficile portare avanti politiche di cittadinanza attiva, perché rimane un luogo di passaggio: quando ti metti in regola te ne vai da qui".

la kasbah
In un certo senso sembrano passati gli anni più cupi, quelli delle ronde e dei servizi alla tv, i problemi di sicurezza si fanno ancora sentire, ma da alcuni anni San Salvario è un quartiere quasi alla moda: sempre più professionisti, artisti e studenti vengono ad abitare qui. «È sempre stato un quartiere di immigrazione, ma con un forte senso d’appartenenza - afferma Roberto Arnaudo dell’Agenzia per lo sviluppo locale -, i residenti non se ne sono mai andati». Tra via Ormea e via Saluzzo convive un mix etnico e sociale. La mappa del disagio è circoscritta: “Il tratto più problematico è quello vicino a Porta Nuova; in corso Raffaello è invece concentrato lo spaccio di cocaina. I tassi di delinquenza non sono però più alti rispetto al resto della città” spiega Arnaudo.
Le strade piccole e raccolte da kasbah non sono accoglienti come il cortile del Maglio, ma diventano anch’esse luogo di ritrovo. “E si beve la birra in strada perché nei locali costa troppo”, precisa Arnaudo. Il quartiere vive di multiculturalità e i negozi ne sono un rifl esso: se in via Nizza c’è stata una sostituzione al ribasso, nelle altre zone si stanno diffondendo esercizi di qualità.

con silvia

sabato 29 marzo 2008

Viaggio nel '900 a tempo di jazz


Il jazz può essere lo strumento per analizzare il Novecento? La risposta è affermativa per Franco Bergoglio, autore di Jazz! Appunti e note del secolo breve in uscita per Costa & Nolan.
"Frutto dell’incrocio tra culture diverse – spiega l’autore –, il jazz si è aperto alla contaminazione con altre forme artistiche e ha ispirato, anche in modi insospettabili, le vicende storiche, sociali e culturali".

Trentacinque anni, torinese d’adozione, critico di Jazzitalia e collaboratore di riviste di storia contemporanea (Zapruder e l’Impegno), Bergoglio propone nel suo libro un approccio inedito, almeno qui in Italia, che incrocia discipline diverse, arti e media, mantenendo il jazz come stella polare della ricerca. Proprio quella musica che per convenzione nasce nel 1917 e negli anni Trenta era un po’ come il rock degli anni Sessanta; e, soprattutto, sapeva di rivoluzione.
"Non è mai piaciuto, infatti, alle dittature ma è sempre stato amato dalle controculture. Se nella prima metà del secolo – afferma Bergoglio – in America era un genere più popolare, era la musica degli schiavi, in Europa viveva, invece, una dimensione più elitaria, l’ascoltavano in particolare gli intellettuali". Lo storico Eric Hobsbawm, di cui l’autore fa propria la periodizzazione, sottolinea nel suo Secolo breve come il jazz suscitò nel mondo dell’arte, fi no al secondo conflittomondiale, un consenso quasi universale in quanto anticonformista e simbolo della modernità.

Il libro passa, senza soluzione di continuità, dall’oceano Atlantico, come collante culturale di tre continenti, ai cambiamenti imposti dalla società di massa di cui il jazz è stato un protagonista, dalla censura dei totalitarismi alla partecipazione civile e magari “caciarona” del ‘68. Un grande patchwork del tutto organizzato, che per ogni capitolo adotta un taglio diverso. Perché questa interdisciplinarietà? "Tutto inizia all’Università, mi sono infatti laureato in Scienze politiche, con una tesi su jazz e politica; il mio lavoro non è altro che il risultato di quasi quindici anni di letture e riflessioni". Come, per esempio, quella sui critici e gli storici che hanno applicato conoscenze, e spesso pregiudizi, al jazz.

Ora che tra l’altro tiene un corso di storia del jazz all’Università Popolare di Torino cosa pensa Bergoglio dello stato attuale della musica che pare rivivere un nuovo interesse? "I concerti sono pieni e si vedono molti giovani. A Torino ci sono diverse opportunità, c’è il Jazz Club per i live e il Centro Jazz per imparare. Quello che manca invece è un’effervescenza sociale che investa tutte le arti". A quarant’anni dal ’68 ci aspettiamo un’altra rivoluzione?

Costa & Nolan, 2008

venerdì 22 febbraio 2008

Nascosti nei boschi

foto di Costanza BonoORMEA - E così fuggirono nei boschi. Dalla civiltà, dalla madre, dalle botte del padrone. Erano i primi anni ‘80 quando Renzo Pelazza, all’epoca trent’anni, e il fratello minore Franco, abbandonarono Ormea, un borgo di duemila anime sulle Alpi Liguri (provincia di Cuneo), per rifugiarsi in montagna. Al riparo da quel mondo crudele, che li aveva emarginati. I “fratelli cinghiali”, così chiamati in paese per il loro aspetto “selvatico”, si diedero alla macchia.


Non ne potevano più della gente che li scherniva, della madre che li ignorava e del capo che li picchiava. Uno lavorava nei campi, l’altro in ferrovia, decisero di vendere la cascina e di scomparire. Vivranno come “uomini primitivi” nella boscaglia, tra casolari e grotte, nutrendosi dei frutti della natura, della caccia o grazie a piccoli furti. «Ma danni non ne hanno mai fatti», precisa subito Giorgio Ferraris, per quasi vent’anni sindaco di Ormea e ora consigliere regionale del Pd, che racconta: «Renzo e Franco hanno deciso di vivere senza un domicilio fisso. Muovendosi tra le montagne: d’inverno sul versante ligure e d’estate in Piemonte a più alte quote, dormendo nelle borgate abbandonate».

La loro è una storia quasi dell’800: inesistenti per l’anagrafe ma non per i boschi dove si aggiravano con barbe lunghe e occhio furtivo. E' una vicenda che si presta alla leggenda e, in parte, così è stato. Nel 1993 la mamma Ida che viveva in una casa di riposo a Pieve di Teco in Liguria si ammalò e chiese di rivederli. «Ne parlarono prima i giornali locali ed è proprio da quelle pagine che ne venimmo a conoscenza» spiega Vittoria Polato, giornalista di “Chi l’ha visto”, la trasmissone di Raitre che si è occupata più volte del caso. In tutto il territorio di Ormea furono disseminati volantini con i volti dei “cinghiali”, pure il Comune si impegnò nella ricerca: «Preparammo l’appello: “Renzo, Franco, vostra madre non sta bene, vuole vedervi. Nessuno vi farà del male”» ricorda Ferraris. “Chi l’ha visto” affittò un piccolo aereo con appeso uno striscione. A novembre i fratelli ricomparvero. Ormai sospettosi del genere umano, non si sarebbero fatti più vedere se non fossero entrati in contatto con una persona di fiducia. Arrivarono al ricovero, pian piano come giganti buoni, e incontrarono finalmente la mamma.

Dopo poco tempo, tornarono in montagna, ma questa volta senza perdere di vista né i paesi, né la mamma, che morì nel 2004. Da quel giorno non sono più scomparsi. Anziani (58 e 55 anni) si sono riavvicinati a quella che chiamiamo civiltà e ora vivono in un container abbandonato nel comune di Armo. Lavorano nei campi aiutando i contadini, sono meno diffidenti di una volta ma non del tutto. Sono pur sempre i fratelli cinghiali, i briganti d’Ormea, quelli che hanno vissuto come nomadi, senza un tetto, e che i misteri della natura sicuramente conoscono più di noi.

giovedì 21 febbraio 2008

La parola al muto

TORINO - Al buio, a stretto contatto con i materiali. Altro che cinema in sala, in poltrona. Quando si tratta di restauro cinematografico il rapporto si fa stretto. Ma la mente deve sempre spaziare. E’ una storia di passioni, talvolta infiammabili. Quella per il nitrato innanzitutto, con cui venivano costruite un tempo le pellicole: “C’è il fascino del proibito, è un mito per gli archivisti; essendo un materiale delicato a cui pochi hanno accesso”, racconta Stella Dagna, ricercatrice del Museo Nazionale del cinema di Torino.

Nell’ultimo decennio il Museo, che vanta una cineteca di oltre 16 mila copie, ha rilanciato l’attività di restauro. Ventiquattro opere recuperate, da Cabiria alla serie Maciste, che si inseriscono in un più ampio progetto di valorizzazione del cinema muto, in particolare torinese. E poi la sperimentazione di un nuovo modo di comunicare, attraverso festival, progetti didattici, proiezioni in spazi storici della città e sonorizzazioni dal vivo, anche eterodosse, per esempio con gruppi indie rock. E le sale sembrano riempirsi.

Alla base c’è una nuovo approccio teorico che “propone l’attenzione filologica degli interventi come garanzia e incentivo per una maggiore fruibilità e un piacere della visione” sottolinea Claudia Gianetto responsabile dei progetti di restauro cinematografici. L’ultimo lavoro Jone del 1913 verrà presentato in anteprima il 16 aprile al 64° convegno internazionale della Fiaf (Federazione internazionale degli archivi di film) di Parigi.

In via Sospello, dove ha sede la Cineteca, la pratica del restauro è caratterizzata da un complesso lavoro di ricerca e preparazione svolto prima della stampa della copia. Il fondo del Museo, uno degli archivi cartacei e fotografici più importanti d’Italia, è una fonte preziosissima in questa fase. “Lavoriamo sui materiali extrafilmici – spiega Stella Dagna -, analizzando fonti d’epoca diverse e complementari: dalla sceneggiatura all’indicazione dei colori originari fino ai fogli di montaggio. Ricerchiamo i testi delle didascalie italiane, risaliamo allo stile della cornice e ai caratteri delle lettere, individuiamo lacune ed errori di montaggio”. Ecco alcune delle ‘magie’ rese possibili da una ricerca approfondita sulle fonti. “Il punto di riferimento è ovviamente, quando possibile, la copia del film presentata al pubblico per la prima volta sul mercato nazionale. Questo metodo di lavoro ci ha permesso di costruire una prassi di riferimento che potrà essere d’aiuto in futuro” aggiunge Gianetto. Tutto questo non sarebbe possibile senza una continuativa collaborazione con cineteche italiane e straniere e laboratori come “L’Immagine ritrovata” di Bologna

I primi restauri del Museo si sono concentrati sui titoli dell’Itala, che insieme all’Ambrosio era la casa produzione più importante. Nella scelta dei titoli si è cercato di rappresentare generi diversi: il comico con La paura degli aeromobili nemici (1915) e il film storico con La caduta di Troia (1911). Nel 2006 il Museo ha portato a compimento il suo più grande progetto: Cabiria il kolossal di Giovanni Pastrone, sia nella versione muta del 1915 sia in quella sonora del 1931. Subito dopo è partito un progetto pluriennale per il restauro dei film interpretati dall’attore Bartolomeo Pagano nei panni di Maciste.

Molte opere, per esempio una buona parte dei sedici titoli proposti l’anno scorso, sono state presentate al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, che insieme alle Giornate del cinema muto di Pordenone, rappresenta il massimo evento del settore in Italia. ”Accanto ai progetti sul cinema muto torinese, c’è un interesse per il cinema a tutto tondo, a breve dovrebbero partire anche nuovi progetti per il restauro di film sonori”, sottolinea Claudia Gianetto “con un’attenzione particolare dedicata alle opere realizzate negli anni Settanta da grandi autori del cinema italiano come Francesco Rosi e Marco Ferreri.”

Il buon restauratore deve sapere un po’ di tutto: dalla storia al cinema e alla chimica. “Deve studiare il costume, la politica e la mentalità di un’epoca. E poi deve avere una buona vista, il lavoro è infatti certosino” precisa Dagna.

giovedì 24 gennaio 2008

"Faccio armi e non me ne vanto"

TORINO - La tua fabbrica scoppia di salute, assume e continuerà a farlo. Certo i cicli produttivi hanno un termine e non puoi essere a digiuno di preoccupazioni. Ma finora tutto va a gonfie vele, il lavoro è tecnologico e lo stipendio non è male. C’è un problema però, che riguarda la coscienza: la tua azienda produce cacciabombardieri. Ma a porselo, a quanto pare, sono in pochi. E se sei un delegato sindacale come puoi trovare un equilibrio tra i problemi etici, il tuo mestiere e la tutela dei lavoratori?

L’azienda si chiama Alenia aeronautica, conta 3300 dipendenti e due stabilimenti, a Torino in corso Marche e a Caselle, accanto all’aeroporto, dove si producono una delle due ali e la fusoliera dell’Eurofighter, l’aereo militare sviluppato da Germania, Spagna, Inghilterra e Italia. Negli ultimi tre anni ha assunto oltre 500 persone, tra impiegati e giovani apprendisti e ora si trova a discutere un’importante commessa, quella per l’F35 John Strike.

Dalle voci dei sindacalisti Marco Barbieri, Fim, e Claudio Picca, Uilm, la situazione professionale è più che buona. L’Alenia è d’altronde oggi un fiore all’occhiello dell’industria piemontese. La produzione nei due siti torinesi è quasi esclusivamente militare ad eccezione di un piccolo aereo da trasporto civile, il Falcon 2000. Proprio per questa sua particolare produzione c’è mai stato una dibattito sui temi etici tra i lavoratori e sulle finalità del proprio mestiere? «Non se ne è mai parlato nel sindacato, forse qualcuno dell’estrema sinistra, ma sono parole al bar», afferma Picca. «è un tema delicato – spiega invece Barbieri - di carattere governativo e che quindi riguarda sfere più alte, ma non c’è indifferenza tra i dipendenti».

Sembra difficile trovare componenti critiche in una fabbrica dove i contratti sono migliori che in altre realtà, dove la ricerca è all’avanguardia e c’è un orgoglio aziendale tra gli operai che lavorano a stretto contatto con i piloti. Ma c’è chi ha tentato di suscitare un dibattito, anche scontrandosi con gli stessi compagni di sindacato, per esempio Francesco Ottembrini, rsu Fiom per l’Alenia di Caselle: «Sono riuscito a far inserire nell’accordo di secondo livello del 2006 un impegno da parte dell’azienda: studiare l’ipotesi di differenziare la produzione in campi civili». è un tema che Ottembrini segue da tempo, la sua fabbrica produce aerei da guerra e questo è un problema. Raramente se ne parla ed è sempre una ristretta minoranza a prendere posizione in merito: «Nel 2005 ho partecipato – racconta - insieme ad altri delegati a un convegno organizzato dal Centro studi Sereno Regis, per verificare proposte di riconversione dell’industria bellica, negli ambiti elettromedici e ferroviari, e discutere la bozza di una legge regionale».

Secondo Ottembrini l’azienda va bene, ma il futuro non è così sicuro e per il sindacato la priorità resta la tutela occupazionale. «Se Caselle – spiega il sindacalista – sarà tagliata fuori dalla commessa per l’F35, le prospettive potrebbero essere meno positive rispetto a quel che sembrano, d’altronde la produzione dell’Eurofighter durerà ancora solo dieci anni». Il nuovo F35 si farà ma non si sa ancora dove, se a Caselle o altrove. Si parla di Cameri come possibile alternativa, e proprio in provincia di Novara da mesi i pacifisti protestano: il nuovo caccia non lo vogliono e il 26 gennaio manifesteranno a Torino.

La novità per Alenia a breve è, invece, la dismissione del sito di corso Marche che dovrebbe essere trasferito interamente a Caselle. Al posto del vecchio stabilimento sorgerà una zona residenziale.

lunedì 21 gennaio 2008

Groening: la famiglia questa sovversiva


Un'analisi del fenomeno Simpson in contemporanea all'uscita nelle sale del primo lungometraggio

Dalla tv al cinema il passo non è stato breve. Sono trascorsi vent’anni da quando apparvero in un talk show della Fox, in una versione stringata e ancora informe. E diciotto da quando comparvero come serie televisiva. I Simpson, ormai un culto planetario partorito dal genio di Matt Groening, non hanno perso la freschezza degli esordi e nel giorno dell’uscita nelle sale del film diretto dall’ex Pixar David Silverman è lecito domandarsi se vinceranno anche la sfida con il widescreen e con la lunga durata, così abituati al 4:3 e alla forma breve a episodi.

Per la scrittura del film, Groening & Co. hanno scelto un registro epico creando una storia corale che ruota attorno alla famiglia di Homer, si muove da Springfield all’Alaska e tocca tematiche ambientali. Ma, prima di andare al cinema, scopriamo le radici di un fenomeno che, forte di un’idea originale, di una cura stilistica e contenutistica, ha incarnato negli ultimi decenni la più spietata e acuta satira sociale nel mondo dell’animazione e non solo.

Gialli e con gli occhi grandi, il padre Homer, pigro e teledipendente, la madre Marge, affettuosa ma un po’ pedante, con i tre figli, il discolo Bart, l’intelligente Lisa e la piccola Maggie, sono i protagonisti di un ritratto articolato e corrosivo dell’american way of life, tanto che il critico Bill Zehme li ha definiti gli unici personaggi reali della tv. I Simpson si affermano negli Anni ‘90 quando, grazie anche a loro, si verifica, dopo il dominio dei generi fantastici nipponici e disneyani, un’inversione di tendenza nel disegno animato seriale con un recupero della realtà quotidiana sotto una lente grottesca e iperrealista. Attorno al microcosmo di Springfield si incentrano gli episodi, con livelli di lettura che si stratificano in lungo e in largo. In ogni puntata è possibile seguire oltre alla storia, la dimensione registica, gli elementi di satira, il lato metatelevisivo o scoprire le continue citazioni. La casa dei Simpson, la scuola di Bart e di Lisa, la centrale dove lavora Homer e il bar di Moe sono i luoghi nevralgici di una città disegnata secondo le regole non scritte dell’urbanizzazione americana. Tutto ruota, però, intorno alla famiglia, ecco il tradizionalismo dell’anticonformismo simpsoniano, l’unica realtà in grado di opporsi all’esasperazione del contesto quotidiano.

Matt Groening ha metabolizzato il carattere sovversivo dell’underground americano, contaminandolo con la cultura post-moderna e l’interesse per il pastiche. Ha costruito personaggi dalla psicologia complessa, amandoli ma senza compiacenza. Raramente hanno ruoli archetipici e coniugano per lo più un mix di qualità positive e negative. Lo stesso Homer, tendenzialmente irascibile, non è privo di slanci di umanità. Groening ha poi sviluppato un linguaggio altamente cinematografico, rivoluzionario per i cartoon, facendo ricorso a forme e codici tipici della ripresa filmica.

Nel film, oltre ai camei di Tom Hanks e dei Green Day, compare tra i 94 personaggi Arnold Schwarzenegger nelle vesti di un autoritario presidente Usa (critica non velata all’attuale amministrazione a stelle e strisce), che decide di isolare Springfield mettendola in quarantena. Come nei fumetti, nei Simpson l’età dei protagonisti non cambia, vivono continuamente il tempo presente, intrecciando l’attualità politica e culturale in cui sono realizzati. Proprio da quest’attenzione per la realtà deriva la lucidità della loro critica sociale.

Ormai da anni sono materia di studio nelle università, si sono moltiplicati tesi di laurea e saggi, l’ultimo è il volume curato da Corrado Peperoni (Bulzoni). Ma tranquilli, i Simpson, studiati e riveriti, non hanno perso quel gusto della provocazione che ha fatto scuola nel mondo dell’animazione cosiddetta «adulta», dando vita a Futurama, South Park e Griffin.

Da La Stampa del 14 settembre 2007