venerdì 28 novembre 2008

Realt Time di Randall Cole (2008)

Un giovane gambler (giocatore d’azzardo) e un sicario di mezza età, incaricato di ucciderlo. Il loro viaggio in auto, verso il destino.

Ontologia del reale, tout court. I settantasette minuti della diegesi coincidono con la durata del film. Ed è il tempo che separa il giovane Andy dalla sua esecuzione. Ha un debito incolmabile: 68 mila dollari a un tipo della mala locale. Reuben, un killer, ha il compito di eliminarlo. Gli concede però un’ora per riflettere sulla sua vita. Per redimersi un po’, prima dell’aldilà. Un boia particolare, quasi una guida spirituale. Il film, che si snoda come un road-movie, si basa proprio su questo duetto attoriale esilarante: da una parte Jay Baruchel (già in Million Dollar Baby) e dall’altra Randy Quaid. Un equilibrio all’apparenza esile e un rischio - la verbosità della sceneggiatura – in agguato. Tutto neutralizzato. La carta vincente è l’alchimia tra i due protagonisti. Reale e finzionale. Gestita con maestria da Randall Cole (al secondo lungometraggio), che sceglie l’automobile come luogo topico e intimo di questa commedia nera. Su una Lincoln berlina nasce, infatti, una complicità all’inizio cinica ma poi sodale, tra la simpatia da schiaffi di Andy e la serafica saggezza di Reuben. Cole si ispira a Mikey and Nicky (1976) con John Cassavetes e Peter Falk. E a L’ultima corvè (1973), dove la parte del ragazzo toccava a Quaid. Come riferimento d’immaginario, filtrato però da una debita distanza canadese, c’è Scorsese, per i dialoghi serrati (e divertenti) e per un particolare uso – strutturale – della musica. Trentamila dollari, su un milione di basso budget, spesi solo per Without You di Harry Nilsson. Anche la svolta morale del finale, con effetto suspence, non stona nell’insieme, perché funzionale alla logica del rapporto tra i due. Due grandi attori.

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