giovedì 24 dicembre 2009

La ruspa di sinistra

Rischio cemento sotto la Mole. Si chiama Bor.Set.to dal nome dei comuni coinvolti: Borgaro, Settimo e Torino. E' un'area verde grande come Central Park su cui da anni puntano gli speculatori - dal Vaticano a Sindona a Ligresti - che riescono a imporre alla politica (di centrosinistra) «utili» modifiche

TORINO - Fortuna che c'è la crisi a placare un po' il pressing delle ruspe. Se no, non si fermerebbero mai. Già che di suolo se ne mangiano, in Italia, quasi 250 mila ettari l'anno. E in 16 hanno costruito un'altra Torino ai margini della città, con un aumento di superficie edificata in provincia di 7.500 ettari. Dati che raccontano di un progressivo prevalere della grande e media proprietà immobiliare sui poteri di controllo degli enti locali. Di una politica non più attenta alle esigenze della collettività. Niente di nuovo, è una spirale che affonda le radici negli anni Ottanta e ha contaminato anche la sinistra. Ma ciò che emerge nell'ultimo periodo è la capacità dei privati di imporre alle assemblee elettive la propria visione urbana (il proprio tornaconto). Mega progetti di cittadelle sportive, parchi divertimenti, villaggi residenziali in stile berlusconiano, che fanno leva sul simbolico, ma non rispondono mai a una reale domanda. Sintomo di una «bolla culturale» da cui non riusciamo a scuoterci. E, a tutto questo, si aggiungono gli strumenti di programmazione territoriale che si sostituiscono alla pianificazione urbanistica e ai vincoli che impone.

Ai tempi della giunta Novelli
«I progetti dei grandi potentati sono presentati come occasione irripetibile per assicurare un vantaggio alla collettività in termini di sviluppo economico e sociale». Lo spiega Raffaele Radicioni, uno che di urbanistica se ne intende: è stato assessore delle giunte Novelli dal 1975 al 1985. Quando si pensava a una Torino dalla struttura «a griglia» invece che radiocentrica, a rompere i confini tra centro e periferia, a trasformazioni urbane svincolate dalla rendita fondiaria, ad aprire a tutti l'elitaria collina e a ridurre il costo della casa. Allo stato delle cose, ha perso, ma alle sue idee ci tiene. E negli ultimi anni, oltre a essere l'autore del libro Torino invisibile, è stato protagonista di una lotta contro un progetto che racchiude lo scarto culturale di un'epoca. E anche le contraddizioni: «Un baratto tra pubblico e privato per costruire dove non si poteva». È il caso Bor.Set.to, acronimo che prende il nome dai comuni che in quest'area, nella zona nord di Torino vicino alla tange nziale, si incontrano: Borgaro, Settimo e Torino. Un territorio conteso da 40 anni, che ciclicamente torna a far parlare di sé. Un polmone verde grande quanto Central Park, tre milioni e 200 mila metri quadri; l'unico spazio agricolo ai confini della metropoli. Nel passato ha fatto gola a Sogene, l'immobiliare prima del Vaticano poi di Michele Sindona, che sul terreno voleva dar luce a una «Città Satellite» da 60 mila abitanti e, negli ultimi anni, alletta Salvatore Ligresti. Il re del mattone, nonché della finanza, che - gettati alle spalle i guai giudiziari di Tangentopoli (condanna a 2 anni e 4 mesi per lo scandalo Eni Sai) - ha allungato le mani, o meglio il cemento, su Torino. Nel 2007 fu accolto con fasti dal sindaco Sergio Chiamparino. Arrivò in elicottero per la conferenza del MiTo, la manifestazione musicale tra Milano e Torino, e si incontrò in gran segreto con le istituzioni sabaude. Se ne fece un gran parlare. Sembrava che Totò avesse le mani sulla città: un grattacielo vicino a Porta Susa (accanto alla contestata Torre Intesa-Sanpaolo di Piano), dove insediare il quartiere generale di Sai Fondiaria di cui è presidente onorario, un altro lungo la Spina, la realizzazione della Biblioteca civica e il «gran baratto» del Bor.Set.to.

L'Expo di Milano sposta gli interessi
Ligresti, in quest'area, vorrebbe costruire una Falchera 2 (una delle ipotesi era di 1500 alloggi al posto del futuro parco dei laghetti). Diciamo un'edizione più à la page dell'attuale quartiere popolare, o forse per ironia della sorte una Milano 4, per la vicinanza con la futura stazione dell'Alta velocità, Torino Stura, che la renderebbe più appetibile ai palati meneghini. Adesso è tutto fermo: non è più il 2007, c'è la crisi e c'è anche l'Expo di Milano, dove si stanno concentrando le mire del patron di Sai. Il progetto rimane congelato ma non si sa fino a quando: «Probabilmente aspettano, con la fine del passante ferroviario nel 2012, le migliori opportunità immobiliari - pungola Emilio Soave, Pro Natura - perché, come ama ripetere l'assessore all'urbanistica del comune di Torino, Mario Viano, al privato si devono sempre fornire le più agevoli condizioni per investire». Ma anche nella tregua, meglio tenere le attenne ritte: «Un leitmotiv entra nel subconscio della gente come un mantra. Dicono, tanto non lo faranno mai, poi, appena l'attenzione scema, ecco le ruspe» sbotta Lucia Saglia, consigliere comunale Prc di Borgaro e animatrice del Coordinamento per la difesa delle aree Bor.Set.To.

All'inizio fu il Vaticano
Meglio raccontarla dall'inizio questa storia. «È uno dei più significativi casi di subalternità degli interessi pubblici rispetto a quelli privati», spiega Radicioni, storico membro del Collettivo d'architettura (Coar). Correva l'anno 1962 quando nacque la Urbanistica sociale torinese controllata al 71% dalla Sogene, l'immobiliare del Vaticano che nel 1963 acquistò i terreni al confine tra i 3 comuni, oltre 320 ettari, con l'intenzione - lo dimostrano gli atti d'acquisto - di costruirci la «città satellite». In aree di prima fascia agricola. Il progetto fu contrastato per 15 anni dal Pci e dalla sinistra Dc, fino a far saltare la testa del sindaco comunista Edoardo Defassi, invece favorevole. «Erano altri tempi» dice Radicioni, senza nostalgia né la celebrazione di un passato d'illusioni. Ma spiega: «Nei Settanta c'era un conflitto tra il privato, da una parte, e la cultura più qualificata e le amministrazioni di sinistra, dall'altra, che tentavano una politica di controllo e gestione del territorio». Il cambio è nei primi Ottanta: «Maturò al termine del governo di unità nazionale e, in concomitanza, ci fu la sentenza del 1980 della Corte costituzionale: un colpo al governo delle città. Fu, infatti, rigettata la legge del 1977 sull'edificabilità dei suoli, sancendo l'illegittimità della separazione fra proprietà dei suoli e diritto di edificare». Erano anni rampanti.

Lo sbarco di Ligresti
Nel 1991 fallisce Sogene, i liquidatori vendono i terreni alla neocostituita Bor.Set.To. Azionisti sono le acciaierie Ferrero, la Coop Antonelliana (poi uscita di scena) e Valorizzazioni edili moderne, ovvero Salvatore Ligresti, che ne tirerà le fila. Prendono contatto con le amministrazioni e sondano le possibilità edificatorie. Nel 1996, le istituzioni coordinate dall'assessore provinciale Luigi Rivalta provano ad acquisire l'area per 30 miliardi. Tentativo fallito. Nel 1999, la Provincia stabilisce che, nel Piano territoriale di coordinamento, quel lembo di area metropolitana sia preservato allo sviluppo edilizio, rimanendo agricolo. Il Piano deve però essere approvato dalla Regione. E prima di essere votato passano quattro anni in cui capita un po' di tutto. Nell'«attesa» entrano in vigore due nuovi strumenti di programmazione che permettono di aggirare la pianificazione. Il primo è Urban (finanziato dal Fondo europeo) per lo sviluppo sostenibile di quartieri in crisi con l'insediamento di infrastrutture e attività produttive. Il secondo è Pruust, ideato dal ministero delle Infrastrutture, per la costruzione di una «Tangenziale verde», più o meno un parco. «Sono il bastone e la carota ed è qui che prende piedi il do ut des. Con il protocollo d'intesa del 2004 tra Comuni, Provincia e Regione - racconta Radicioni - si concede la possibilità di edificare sul 12% (271 mila metri quadrati) dei terreni, attività produttive, servizi, case, in cambio della cessione gratuita della restante proprietà (2 milioni e 7 mila metri quadri) destinata alla Tangenziale Verde». Intanto, nel 2003 il comune di Borgaro approva una variante al Prg che trasforma parte delle zone Bor.Set.To da agricole a servizi per parchi urbani e territoriali. Negli stessi anni, nasce il Coordinamento per la difesa delle aree, formato da cittadini e associazioni ambientaliste, con l'appoggio di Prc, Pdci e Verdi. «Incominciammo a elaborare un libro bianco - spiega Lucia Saglia - e a preparare un ricorso al Tar (tuttora in sospeso), perché la variante era palesemente in contrasto con il Piano provinciale».

La protesta degli abitanti
È il 2007 quando Ligresti alza il tiro: vuole quadruplicare l'area residenziale della parte torinese, spostandola da Borgaro e collocandola vicino alla Falchera: più allettante farlo qui, il villaggio, a due passi ci sarà la stazione dell'Alta velocità. C'è chi calcolò una plusvalenza di 100 milioni di euro. Ma gli abitanti scendono sul piede di guerra, da vent'anni attendono che i due laghetti del quartiere vengano recuperati in una zona da destinare a parco, così dice il protocollo. L'amministrazione Chiamparino sposa invece la linea Ligresti: i palazzi saranno costruiti a semicerchio attorno ai laghi. E il parco? Nel maggio del 2008 il costruttore siciliano fa retromarcia. Non richiede più la revisione del protocollo. Ma rimane tutto in ballo. «Le amministrazioni gli hanno fornito lo scivolo» commenta Soave. «Senza nessuna pianificazione, senza valutare se c'è bisogno di nuovi palazzi, visto che in città gli alloggi sfitti sono 30 mila».

La Variante 200
Ma così vanno le cose. Ad Albiano d'Ivrea da 10 anni parlano di Mediapolis, il parco divertimenti con tre centri commerciali davanti al castello di Masino. La società, promotrice del progetto (con sede in Lussemburgo), ha i permessi per iniziare: le istituzioni hanno pure stanziato i fondi, mancano quelli privati. A Torino, la novità è la variante 200, che oltre a contemplare l'utile linea metropolitana, prevede triplicati i diritti edificatori. E le abitazioni del nuovo boulevard della Spina 3 non sono un bel segnale. Certo, non è prerogativa torinese: in Parlamento, la proposta di legge Lupi sulla gestione del territorio introdurrebbe i privati nell'attività di scelta urbana. Per le grandi città forse è un'utopia la crescita zero, ma una pianificazione diversa è la sola strada percorribile.

Da il manifesto del 24 dicembre

venerdì 11 dicembre 2009

«Le vittime Eternit chiedono giustizia»

Parenti da tutta Europa all'apertura del processo a Torino. Morti e malati a causa dell'amianto
TORINO - Sono venuti in tanti. Da ogni angolo d'Europa dove l'amianto ha sparso morte. Sono venuti con la foto dei cari, con ansia di giustizia. Per dire che «ogni essere umano ha più valore di tutto l'amianto e il profitto al mondo» come recita lo striscione dell'Andeva, l'associazione francese delle vittime. Peppino Meloni ha 74 anni, un sorriso timido e le mani forti, arriva da Paray Le Monial, un comune della Borgogna vicino a Lione, meta di pellegrinaggi religiosi ma anche sede di uno stabilimento Eternit. Lui, in quel paese, è giunto negli anni Cinquanta, dalla Sardegna, e lì ha lavorato per trent'anni: «A respirare il veleno». Tra i suoi colleghi, gli amici, oltre cento morti. La fabbrica però non ha chiuso, è ancora attiva (come altre 4 in Francia): certo, non utilizza più l'amianto, ma fa sempre capo al gruppo belga Etex, diretto ora dal figlio del barone Louis de Cartier de Marchienne, imputato al processo contro i vertici Eternit, che ieri - dopo 8 anni di indagini e 200 mila pagine di documenti - si è finalmente aperto a Torino, tra una marea di parti civili, associazioni delle vittime, amministratori locali, giornalisti e avvocati. Basti pensare che a difendere l'altro imputato, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, c'è una squadra di 26 legali.

Vittime da tutta Europa
Fuori dal tribunale un meltin'pot di lingue, già di primo mattino. Dal Belgio, dalla Svizzera, dalla Francia, dalla Germania, da Napoli e da Rubiera, da Cavagnolo e da Casale Monferrato. Dieci sono i pullman dalla città simbolo della strage, con i suoi oltre 1500 morti e i 50 casi di mesotelioma diagnosticati all'anno, una cifra che non smette di salire. L'Eternit non ha ammazzato solo gli operai e le mogli che ne lavavano le tute, continua a uccidere e lo fa senza distinzioni: «Le nuove vittime - spiega Nicola Pondrano, ex operaio Eternit e storico leader della lunga lotta - sono cittadini comuni, sono soprattutto i bambini degli anni '60, quelli che giocavano nei cortili invasi dal polverino che l'azienda regalava». Ieri a Casale, in contemporanea alla prima udienza, un altro funerale, il quarto in pochi giorni. È morta una donna di 50 anni impiegata alle poste. «Siamo qui per i nostri cari - dice una signora che ha perso 5 anni fa il marito - e torneremo ogni volta, lo dobbiamo ai nostri morti. Non vogliamo i soldi di Schmidheiny (ha proposto una transizione a patto che le vittime evitassero la costituzione di parte civile, ndr)».
L'avvio del dibattimento per la gente di Casale è una prima vittoria, non un punto di arrivo: «E' un cammino verso la verità», dice Bruno Pesce, coordinatore della vertenza amianto. Il processo di Torino è diventato un esempio. La sua dimensione è ormai europea, «multinazionale» dovremmo dire, tanto quanto era l'Eternit. Riassumendo: il pool del pm Raffaele Guariniello è riuscito a portare alla sbarra la testa di un sistema internazionale, responsabile di un disastro ambientale permanente (oltre 2100 morti e un territorio avvelenato); le associazioni delle vittime lavorano in rete e hanno formato una specie di multinazionale; così, anche il collegio europeo di avvocati che difende molte parti civili (8 i legali stranieri, belgi, francesi, svizzeri, tedeschi e, forse, in futuro spagnoli e brasiliani). E sulla dimensione globale insiste Guariniello: «Serve una giustizia europea sulla salute e la sicurezza». In sintonia, con Francois Iselin Gueydan dell'associazione delle vittime svizzere Caeva che auspica «l'istituzione di un tribunale penale internazionale del lavoro». Dunque, un evento europeo, se non mondiale, anche per la pressione che potrebbe esercitare sui paesi, dal Canada alla Cina fino all'India, dove l'amianto non è ancora vietato.

Fino a 3000 parti civili
Le code di persone in fila, in attesa davanti alle maxi aule, sono il simbolo di una giornata storica. Il presidente della Corte Giuseppe Casalbore - nel 1984 fu uno dei pretori che oscurarono i ripetitori Fininvest - ha aperto la prima udienza con piglio severo. Dopo 180 secondi dall'inizio ha minacciato di «mandare via» due persone che stavano conversando in fondo all'aula e ha rimproverato ripetutamente gli avvocati che non indossavano la toga. Il suo, insieme a quello dei giudici a latere Fabrizia Pironti e Alessandro Santangelo, sarà un compito arduo: gestire un processo delicato e di vaste dimensioni. Prima, ha affrontato le questioni legate ai responsabili civili, come quella della Presidenza del consiglio, nella figura pro tempore di Silvio Berlusconi, i cui avvocati hanno chiesto l'esclusione dal processo. Poi, la costituzione delle parti civili. Un lungo elenco, la spoon river dell'amianto, letto nell'aula magna dove si trovavano i familiari e i parenti delle vittime. In totale le parti civili sono 2200, ma potrebbero arrivare a 3000, più vari enti locali, l'Inps, l'Inail, la Cgil, Medicina democratica, Wwf, Legambiente. Come da previsioni sui banchi non si sono visti gli imputati. «È un'assenza che mi fa rabbia, non ho rancore ma li voglio vedere in faccia, perché oltre ad aver causato le morti ci hanno lasciato un territorio inquinato, infischiandosi della bonifica», racconta Romana Blasotti Pavesi, presidente dell'associazione delle vittime di Casale. È una piccola donna che non ha mai smesso di lottare, ha perso il marito, la sorella, il nipote, la cugina e la figlia. Dalla difesa di Schmidheiny, l'avvocato Astolfo Di Amato ribadisce che l'amianto fa parte della storia sociale e industriale e la responsabilità non può essere individuale. La prossima udienza sarà il 25 gennaio e da quel giorno il processo verrà aggiornato ogni lunedì. Si pensa durerà due anni.
Sono tante le storie che si incontrano tra i corridoi del tribunale. Alessandro Bonamilo soffre di asbestosi (non riconosciuta) per aver lavorato 4 anni a Niederurnen in Svizzera. È stato uno di quei 1879 emigrati italiani che hanno faticato nella fabbrica degli Schmidheiny. Anche Francois Dosso partì giovanissimo verso la Francia, minatore a Merlebach, nella Lorena ai confini con la Germania: centomila malati di silicosi. Storie che reclamano dignità.

Mauro Ravarino
da il manifesto dell'11 dicembre

Maxi numeri in aula, duemila morti e decine di legali

Dopo Bophal, quello della Eternit è il più grande processo per disastro ambientale mai realizzato. I numeri sono maxi: 2889 le parti offese, di cui 2056 morti e 833 malati, tra lavoratori e cittadini. Ieri, all'avvio del processo nella città di Torino, si sono costituite 2200 parti civili che potrebbero salire a 3000. Cinquanta gli enti e le associazioni, tra cui tre Regioni (Piemonte, Emilia-Romagna e Campania) e la Cgil, che rappresenta 1660 parti. Le vittime saranno difese da un collegio internazionale di avvocati, guidati dall'italiano Sergio Bonetto. La lunga inchiesta di Raffaele Guariniello si è incentrata sui quattro stabilimenti Eternit in Italia: Casale Monferrato, Bagnoli, Cavagnolo e Rubiera. Gli imputati, accusati di disastro ambientale doloso (fino a 12 anni di reclusione), sono la «cupola» internazionale della multinazionale dell'amianto: Stephan Schmidheiny, 62 anni, e Louis De Cartier, 88 anni. Le stime dei risarcimenti richiesti dalle vittime e dagli enti si aggira tra i 4 e 5 miliardi di euro.

giovedì 10 dicembre 2009

Al via il processo Eternit: oltre 2 mila vittime dell'amianto

Un pool di avvocati da diversi Paesi per difendere i lavoratori. A giudizio i vertici della multinazionale

TORINO - Per la prima volta a Casale Monferrato si superano i 50 casi di mesotelioma in un anno. Non era mai successo. I dati sono ufficiosi, stime dell'Asl locale. «È sconfortante, ma speriamo sia il picco», commenta Bruno Pesce, coordinatore dell'associazione vittime dell'amianto, esorcizzando la paura che il peggio (previsto per il 2020) debba ancora venire. Lui è un uomo mite, ma deciso. In questi 30 anni di lotta non si è mai scoraggiato. Oggi, con l'inizio a Torino del processo contro i vertici Eternit, è il giorno che ha atteso da decenni: «È l'occasione per la verità».

Sul banco degli imputati, per disastro doloso ambientale permanente e per inosservanza volontaria delle norme sulla sicurezza, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis De Cartier de Marchienne: la «cupola» dell'Eternit. Quella che secondo l'accusa decideva le politiche della salute negli stabilimenti. Quella che, seppur negli anni '60 conoscesse la nocività dell'amianto, non introdusse misure antinfortunistiche. La stessa che regalava ai lavoratori il polverino, o meglio gli scarti della produzione, e lo cedeva a cifre simboliche agli enti pubblici. I morti conteggiati nell'indagine del pm Raffaele Guariniello sono 2056, 853 i malati accertati. Cifre aggiornate al febbraio 2008: la strage continua e colpisce cittadini mai stati nelle fabbriche d'amianto. Sulle nuove vittime è in corso un'inchiesta «Eternit bis», già 100 decessi accertati tra Casale e Cavagnolo (Torino).

Il processo è il più grande al mondo dopo quello di Bophal. Lo è per dimensioni (3-4 mila parti civili e un risarcimento pari a 5 miliardi di euro) e per importanza (sotto accusa la testa di una multinazionale). Attese oggi 2 mila persone. Arriveranno dalle 4 città dove l'Eternit aveva sede. Dieci pullman da Casale, uno da Rubiera (Reggio Emilia), un altro da Cavagnolo, 25 lavoratori in volo da Bagnoli. In 200, poi, dalla Francia con l'associazione Andeva. Il dibattimento inizierà alle 9, davanti alla prima sezione del tribunale presieduta da Giuseppe Casalbore, che ha citato in giudizio lo Stato italiano, come responsabile civile, per non aver svolto i dovuti controlli né la bonifica. Fuori dal Palagiustizia, la manifestazione della Rete per la sicurezza sui posti di lavoro.

Infine, un'altra novità. Le parti civili saranno difese da un collegio legale internazionale, la prima volta in Europa in una causa simile. Accanto a Sergio Bonetto e Laura D'Amico, ci saranno legali da Francia, Belgio, Svizzera e Germania. «Alla multinazionale dell'amianto contrapponiamo quelle delle vittime», ha spiegato la Cgil, che nel processo rappresenta 1660 persone. «Grazie allo scambio di informazioni - dicono gli avvocati Paul Teissoniere e Jan Fermon - abbiamo scoperto che ovunque si lavorava allo stesso modo. Non erano comportamenti decisi da dirigenti locali, ma una politica dei vertici».

Da il manifesto del 10 dicembre

lunedì 7 dicembre 2009

Alla Mahle la solidarietà torna internazionale, con Fiom e Ig Metall

Nuovo viaggio degli operai in Germania, mentre continua il presidio dello stabilimento

TORINO - Domani andranno di nuovo a Stoccarda. Una settimana dopo quell'incontro «della speranza» che si è invece rivelato una delusione, con il loro piano di salvataggio bocciato e pochi margini di trattativa. Gli operai della Mahle Valvole di Volvera non si sono però rassegnati. La multinazionale tedesca, 40mila dipendenti nel mondo, ha deciso di chiudere la loro fabbrica, quasi 100 occupati. Lo ha fatto senza troppe spiegazioni, sebbene il lavoro non manchi e la sede sia considerata efficiente: l'unica nel gruppo in grado di produrre 3.000 tipologie diverse di valvole per motori Mercedes, Iveco e Daimler.

Da oltre 70 giorni «i 94 leoni», come li chiama il delegato Fiom Gaetano Perez, tengono in piedi un presidio fuori dai cancelli, notte e giorno. Continuano a lavorare, ma bloccando il passaggio delle merci. Domani una delegazione sarà in Germania sotto la casa madre. E non sarà sola, insieme ci saranno i sindacalisti tedeschi della Ig Metal. «È un fatto storico», esclama Giorgio Airaudo, segretario provinciale Fiom. «La lotta e la trattativa vanno avanti di pari passo in Italia e in Germania. Si è creata una rete di solidarietà europea tra due culture sindacali diverse che si battono, al di fuori del protezionismo nazionale, per difendere i posti di lavoro». L'alleanza è nata proprio tra gli stampaggi di Volvera, grazie a Caterina, un'operaia che parla il tedesco e ha fatto da interprete.

Le multinazionali fanno spesso così. Dopo aver fatto shopping nelle aziende dell'indotto torinese, con il pretesto della crisi sono fuggite. Vedi Cabind o Sandvik. Hanno deciso altrove e lasciato come messaggeri i dirigenti italiani. Alla Mahle provano a tener duro. Se non salvano il sito, vogliono almeno obbligare i tedeschi a trattare. Nella sala assemblee arrivano Perez e Lino La Mendola (Fiom); di ritorno dal tavolo welfare in Regione, annunciano che l'azienda è disponibile a ricollocare solo 50 persone. Troppo poco e lo si capisce dai brusii dei lavoratori. «Noi - dicono i sindacalisti - non abbandoniamo ancora l'idea di salvare la produzione, magari spostandola a La Loggia (Torino, dove ha sede uno stabilimento Mahle). Ma se non sarà possibile, il piano sociale proposto così com'è è inaccettabile. Anche con i 15 prepensionamenti, rimangono quasi 30 persone a spasso». L'obiettivo minimo è ricollocare i lavoratori negli stabilimenti di La Loggia (350 dipendenti) e Saluzzo (250). Ma saranno gli operai a votare sul «che fare».

Intanto, il presidio non smobilita. Fuori dalla sala, Cristian, 32 anni, racconta che la notizia della chiusura è stata una batosta inaspettata: «Certo, qualche anno fa avevano trasferito alcune commesse in Polonia, ma la fabbrica andava bene. Ci tagliano solo perché costiamo di più». L'intenzione della Mahle è quella di dismettere gli stabilimenti più piccoli e saturare i più grossi. «Un controsenso, siamo sempre stati un'eccellenza», dice Gerardo. Mario ha 43 anni e lavora lì da 15 anni: «La lotta più importante è sui posti». Il gazebo non si smonta e il fantoccio dell'operaio licenziato resta appeso ai cancelli.

Da il manifesto del 7 dicembre

domenica 15 novembre 2009

Detenuto si impicca, ma è giallo a Vercelli

Si chiamava Massimo Gallo ed era in carcere per tentato furto. E' stato ritrovato in un sottoscala. Ristretti Orizzonti denuncia: "E se fosse un omicidio mascherato da suicidio?"

VERCELLI - Un altro morto in carcere, un altro tossicodipendente, con problemi di disagio psichico. Uno che lì non ci doveva stare. Massimo Gallo, origine calabrese, aveva 46 anni ed era detenuto nella Casa circondariale di Vercelli, dove scontava una condanna per tentato furto, un reato da niente. Sarebbe uscito dal carcere nel 2011. E' stato trovato impiccato giovedì pomeriggio in un sottoscala: aveva un lenzuolo al collo annodato all'inferriata di un cancello inutilizzato. Suicidio, così è stato classificato. «Un po' troppo frettolosamente», sostiene Ristretti Orizzonti, la testata sul mondo carcerario. «Per quanto ci risulta sarebbe la prima volta che un detenuto si suicida fuori dalla cella». Quando si decide di farla finita in carcere, in genere, ci si impicca alle sbarre o si va in bagno, preferibilmente nelle ore notturne. Gallo è morto alle 15.

«Come ha fatto a uscire di cella con un lenzuolo? Non è prevista la perquisizione, prima dell'accesso al cortile dei "passeggi"?». Questi i primi interrogativi. Il direttore del carcere di Vercelli Antonino Raineri, da noi interpellato, risponde: «A causa del sovraffollamento le perquisizioni vengono fatte a campione». Un po' rischioso, forse. «Temo - aggiunge - si sia nascosto il lenzuolo sotto il giubbotto e gli agenti non l'abbiano visto». Sono 386 i detenuti nel carcere di Vercelli, seppure i posti siano 301. E di conseguenza sono meno gli agenti. Il direttore dice che però, sovraffollamento a parte («la vera piaga»), la situazione è sotto controllo. Non sono dello stesso parere i sindacati di polizia penitenziaria che la considerano «esplosiva». È notizia di pochi giorni fa che Raineri è indagato, insieme ad altri, per i reati di truffa e abuso d'ufficio in concorso. Motivo: un sopralluogo dei Nas ha evidenziato gravi carenze alla mensa (struttura fatiscente e pasti avariati), chiedendone la chiusura.

Quella di Massimo Gallo è una storia di sofferenza. Di una persona fragile, che in carcere non ci doveva stare. Come quella di tanti tossicodipendenti a cui vengono riservate pene enormi in proporzione a reati minimi: «E' frutto della legge ex Cirielli, che non permette attenuanti ai recidivi. Sono, invece, persone incompatibili con la vita in carcere» accusa Ornella Favero, direttrice del bimestrale Ristretti Orizzonti. Quando hanno avvertito la famiglia di Gallo, la sorella e il fratello nemmeno sapevano fosse in galera. Un'ora prima a Massimo avevano comunicato il trasferimento al carcere di Torino. «Chissà cosa avrà fatto scatenare nella sua mente» commenta Raineri. «Non è una grande motivazione - ribatte Favero - in verità il carcere di Torino fornisce una buona assistenza psichiatrica, quindi non sarebbe stata una soluzione peggiorativa». Ristretti Orizzonti solleva ulteriori dubbi: «Le auto-impiccagioni che si realizzano in carcere non causano una morte istantanea. Chi si impicca con i mezzi e le modalità possibili in carcere muore piuttosto per soffocamento, l'agonia può durare anche 10 minuti: come mai nessuno si è accorto di ciò che stava avvenendo? E se fosse un omicidio mascherato da suicidio?». Ipotesi che il direttore Raineri non prende nemmeno in considerazione: «Era nascosto, per quello non l'hanno potuto vedere. Ci potranno essere violenze in carcere, ma non sono la norma. E poi, sulla sicurezza dei miei detenuti non transigo, cerco sempre di metterne due per cella perché non stiano soli».

Da il manifesto del 14 novembre

venerdì 6 novembre 2009

Per la prima volta in aula Espenhahn, il capo tedesco

Al processo Thyssen l'imputato principale ammette di aver dirottato i fondi per la sicurezza della linea 5 da Torino a Terni

TORINO - Le mani incrociate sulle ginocchia, la schiena dritta, lo sguardo sicuro. Harald Espenhahn, l'amministratore delegato della Thyssenkrupp imputato di omicidio volontario, si è sottoposto alle domande di pm e avvocati di parte civile. Assistito, come aveva richiesto la difesa, da un'interprete, che spesso si è trovata in difficoltà nella traduzione dal tedesco all'italiano. Espenhahn, da 7 anni in Italia, non ci ha pensato due volte prima di venirle in «soccorso» correggendola. Come quando dopo un errore su una cifra è intervenuto sottovoce in italiano. «Gli è scappata», penseranno i maligni.

Espenhahn non si è scomposto. Nemmeno ad ammettere che dall'inizio del 2007 non fossero più stati fatti investimenti nello stabilimento di corso Regina Margherita. Anche quelli già previsti. Dopo l'incendio nella fabbrica di Krefeld in Germania (giugno 2006), l'azienda pensò, infatti, di stanziare per Torino un milione e 500 mila euro di interventi infrastrutturali. «Bisognava ottenere il certificato di prevenzione incendi - ha spiegato Espenhahn - ed erano necessari interventi alle gallerie e alle porte tagliafuoco. Ma quando ho deciso di chiudere la sede (marzo 2007, ndr) quei fondi sono stati dirottati sul finanziamento di un secondo progetto, di due milioni e 300 mila euro, che riguardava anche l'impianto che sarebbe stato trasferito da Torino a Terni». Il riferimento è alla tristemente famosa linea 5, quella del rogo del 6 dicembre.

La domanda è: se si fosse investito sulla sicurezza si poteva impedire la strage? Secondo la pubblica accusa l'ad sarebbe stato al corrente dei problemi sulla linea 5 ma avrebbe deciso di posticipare i lavori di adeguamento dopo il trasferimento dell'impianto in Umbria. Espenhahn ha precisato: «Nulla fu posticipato». Secondo il suo legale Ezio Audisio, «gli interventi previsti con il milione e mezzo erano solo quelli sulle infrastrutture». Tradotto: non fu posticipato, bensì non fu mai fatto.

L'audizione è durata tre ore. Solo in un momento l'imputato è sembrato scomporsi. Più nella postura che nella dialettica. Agitato, invece, il collegio di difesa. È stato quando il pm Raffaele Guariniello ha mostrato il documento ritrovato nella borsa del dirigente tedesco un mese dopo la strage. Una sorta di «memorandum» in cui si scaricava la responsabilità sugli operai distratti, si descriveva Torino come culla delle Brigate rosse e si parlava di Guariniello come di un magistrato rognoso. «Lo ricevetti la mattina in cui mi fu sequestrato» ha detto l'ad. «Mi dissero che si trattava di un documento redatto dai dipendenti del reparto legale tedesco». Guariniello ha ribattuto: «Com'è possibile che sia stato scritto da dipendenti tedeschi quando contiene notizie precise sulla dinamica e le cause dell'incendio di Torino?». Risposta: «Le voleva la casa madre e le avevano raccolte». L'ultima domanda è di Guariniello: «Gli operai deceduti hanno fatto tutto quello che dovevano fare?». Espenhahn è cauto: «E' difficile dare una risposta». Nella mattinata è stato ascoltato anche Gerald Priegnitz, l'altro imputato tedesco, più vago: «Conoscevo il budget per l'antincendio ma non il suo uso e la sua destinazione».

Intanto, fuori dal Tribunale l'azienda si trova alle prese con la crisi economica. Il 16 ottobre ha inviato a 45 dipendenti della Rothe Erde di Visano (Brescia) le lettere di licenziamento con effetto immediato. «Uno strappo senza precedenti» lo considera il neonato coordinamento Fiom di Thyssen, che invita i lavoratori delle varie sedi del gruppo a convocare assemblee.

Da il manifesto del 5 novembre

domenica 1 novembre 2009

Phonemedia, 6500 dipendenti senza stipendio

Rivivono la stessa sorte dei lavoratori di Agile-Eutelia. Identico è il proprietario, la società fantasma Omega

BIELLA - È il trentaquattresimo giorno di sciopero. Lo precisa Davide col megafono, da fine settembre in presidio con gli altri compagni fuori dal Palazzo di Vetro, a Gaglianico, dove ha sede il call center di Phonemedia, un colosso in Italia. Da qualche mese il gruppo, 6500 dipendenti, è passato nelle mani di Omega, una sorta di società fantasma la cui struttura a scatole cinesi è difficile da ricostruire e i cui dirigenti sfoggiano nei rispettivi curriculum fallimenti e bancarotte. I fratelli Sebastiano e Antonangelo Liori e Claudio Marcello Massa, per citarne alcuni, tutti coinvolti nel crac della cartiera Arbatax 2000. Insomma, quello di Omega è un nome che solo a sentirlo spaventa.

Il gioco è sempre lo stesso: acquistare aziende in crisi e liquidarle. I lavoratori di Agile-Eutelia ne sanno qualcosa, 1200 licenziati su un totale di 2000. Quelli di Phonemedia sono senza stipendio da due mesi e con un futuro più che incerto. L'azienda si sottrae al confronto. Non si presenta nemmeno all'incontro al ministero dello Sviluppo economico. Né comunica con i sindacati. Anche a provare a chiamarla si finisce in un labirinto di risposte imbarazzate e segretarie che ti girano ad altri numeri. «Almeno, prima il padrone si faceva vedere» dice, al presidio biellese, Calogero Spoto (Slc Cgil). Si riferisce al geometra Fabrizio Cazzago da Barengo, il fondatore di Phonemedia, ma anche colui che, dopo aver fatto incetta di fondi pubblici (11 milioni dalla Regione Calabria), quest'estate ha ceduto la sua creatura a Omega.

Un affare pessimo per i lavoratori. «È una società latitante» sbotta Federico, uno dei 150 del call center di Gaglianico, i primi a protestare. Ma non gli unici, scioperi a scacchiera stanno iniziando da Nord a Sud. La situazione sta diventando esplosiva. A Novara, è stata allestita una tenda permanente davanti alla Prefettura.

Si avvicina Miranda, ha in mano un dossier, lo hanno scritto i lavoratori di Phonemedia: la genesi del gruppo, fino all'acquisto di Omega, fondata dall'imprenditore toscano Pio Piccini, titolare anche di Matrix srl, di cui una parte del capitale sociale sarebbe stato detenuto da un certo Daniele D'Apote, arrestato lo scorso aprile per ricettazione di denaro e affiliazione con la 'ndrangheta. Sono storie di finanza spregiudicata. Omega è controllata dalla neonata Libeccio, controllata a sua volta da due fondi mobiliari inglesi: Anglo corporate Management e Restform Limited. «Ce l'hanno spacciata come una multinazionale - raccontano i lavoratori - ma a cercare informazioni su internet non si trova nulla». Dallo scorso dicembre - spiega Miranda - i lavoratori hanno capito che le cose volgevano al peggio: «Gli stipendi ci sono stati pagati in due tranche separate, e di lì in poi le scadenze non sono state più rispettate». «Dalla metà di agosto, nessuno stipendio saldato» precisa Fabrizio.

A Gaglianico i computer sono quasi tutti spenti. Vicino ad un ufficio è appeso l'organigramma societario. Un responsabile apre la porta, sembra preoccupato, racconta che ogni giorno parla con il suo superiore ma non sa chi parli con lui. Società fantasma, appunto. Il presidente dovrebbe essere Claudio Giannettoni, ma non si sa nemmeno se ha accettato l'incarico. D'altronde, per Phonemedia, le commesse sono state sempre importanti. A Biella, Telecom, mica briciole. E in tutta Italia: Enel, Vodafone, Wind, Tim, H3G, anche alcune Asl.

Il 20 ottobre pochi giorni prima dell'incontro del 26 al ministero dello Sviluppo Economico, finito in un nulla di fatto, ai lavoratori di Phonemedia giunge una lettera. A scriverla è l'onorevole Roberto Rosso, deputato del Pdl. Uno che un tempo in Forza Italia fu politico di primissimo piano, avrebbe voluto fare il ministro, ma nel 2001, candidato a sindaco di Torino, fu sconfitto sonoramente da Chiamparino. Gli è rimasto il suo collegio, dove fa il brutto e il cattivo tempo. A Trino Vercellese, sua città natale, ha sede, infatti, un call center di Phonemedia. Scrive nella lettera di essere in contatto con la proprietà e che «entro questa settimana sarà completato il pagamento di agosto e venerdì sarà avviato il pagamento della prima tranche di settembre». Che il conto non sia stato saldato non dipenderà certo da Rosso, ma che affermi di essere in rapporto con la proprietà è un punto fondamentale, visto che nessuno finora è riuscito a contattarla: «Rosso esca allo scoperto» dice Spoto, che come sindacato raccoglierà presto le adesioni per fare ingiunzioni di pagamento.

A Roma, si ritenta lunedì. Al Ministero ci sarà un incontro tra le parti. Si spera finalmente nella presenza di Omega, che fa sapere «di voler mantenere la continuità aziendale e affrontare il nodo dell'assenteismo strutturale che sta pesando sui rapporti con la clientela». In altre parole, gli scioperi.

Da il manifesto del 31 ottobre

mercoledì 28 ottobre 2009

Il padrone? Fa finta di non capire

Processo Thyssen, l'amministratore invoca «problemi di traduzione»

TORINO - Un giorno atteso, in Corte d'Assise, finito in un nulla di fatto. Se ne riparlerà il 4 novembre. Ieri, per la prima volta, è comparso in aula l'amministratore delegato della ThyssenKrupp, Harald Espenhahn, imputato di omicidio volontario. Avrebbe dovuto rispondere alle domande del Pubblico ministero. Così non è stato: insieme al consigliere delegato Gerald Priegnitz, l'altro dirigente tedesco imputato, si è avvalso della facoltà di non rispondere. «Non conosco adeguatamente l'italiano - ha detto Espenhahn - i giudici non mi hanno concesso il ricorso a un interprete e quindi non sono in grado di affrontare un interrogatorio che si preannuncia lungo, articolato e complesso». Era stato così nell'udienza preliminare e nelle prima parte del dibattimento, quando la difesa sollevò eccezioni per la mancata traduzione di parte degli atti in tedesco. Un'intervista al Tg1 dimostrò che l'a. d. era perfettamente in grado di esprimersi in italiano. Anche per questo, la Corte aveva negato il ricorso all'interprete. Ora la strategia della difesa torna a battere sulla vecchia questione. Irritati i parenti delle vittime, poco stupiti gli avvocati di parte civile e i pm. La procura se l'aspettava, perché se gli imputati avessero parlato fluentemente in italiano avrebbero sconfessato i loro stessi legali. La corte ha disposto che i due tedeschi vengano ascoltati con un interprete il 4 novembre, «per agevolarli e tutelare il diritto alla difesa». Se si presenteranno. I giudici hanno comunque confermato la loro decisione sulle richieste di nullità della difesa legate alla traduzione degli atti. I due alti dirigenti sono gli ultimi imputati in esame. Finora, la difesa ha cercato di attenuare le responsabilità dell'a.d. e negare l'omessa considerazione del rischio, su cui si base l'impianto dei pm. Insomma: andava tutto bene.

Da il manifesto del 28 ottobre

lunedì 19 ottobre 2009

Là dove c'era l'Olivetti


In mezzo alla campagna del canavese sta per nascere un enorme parco divertimenti con giostre acquatiche e supermercati. Se ne parla da undici anni, i finanziatori sono ancora misteriosi, ma «a dicembre arriveranno le ruspe»

Con i numeri, a Ivrea, ci sapevano fare. D’altronde era la patria dei calcolatori e il primo personal computer, l’Olivetti P101, è nato proprio qui, in uno dei laboratori di via Jervis. Nel 1965, quando venne presentato alla fiera di New York, nessuno poteva immaginare la fine che avrebbe fatto, trent’anni dopo, la fabbrica di Adriano Olivetti. Risucchiata dalla bolla finanziaria e culturale in cui le certezze matematiche – i numeri, appunto – non contavano più nulla, sulle sue ceneri nacque Mediapolis: l’idea di un grande parco divertimenti ad Albiano, ai piedi della Serra d’Ivrea e del Castello di Masino (bene del Fai, il Fondo per l’ambiente italiano).
Fosse un calcolatore, Mediapolis non sarebbe proprio rigoroso. Una volta si è detto che il progetto avrebbe creato 148 occupati, quella dopo 1.200. Che avrebbe registrato un milione di visitatori all’anno, anzi no, dieci. Per non parlare dei soldi per realizzarlo: c’erano o mancavano, a seconda delle discussioni. Tanto, si sa, i numeri sono optional. E la libertà del racconto di politici e di imprenditori ha preso il posto della realtà delle virgole e dei logaritmi. Ai giorni nostri, il P101 sarebbe impazzito.
Nevio, Bruno e Agostino lavoravano tutti all’Olivetti. Ruoli diversi ma stessa casa madre, stesso tessuto sociale di relazioni create dalla fabbrica. Adesso li puoi incontrare, non tanto distante dalle officine di via Jervis, a casa di Mariangiola Carnevale, capo delegazione del Fai locale. Insieme fanno il punto, a undici anni di distanza, sulla lotta contro Mediapolis, una specie di Gardaland piemontese, dedicata alla comunicazione, con montagne russe e una pagoda cinese alta 40 metri. Nel 1998 qualcuno pensò che il lutto dell’Olivetti potesse essere elaborato abbinando divertimento e business. Bastava trovare 600mila metri quadrati, magari ai bordi della collina morenica più lunga d’Europa, 25 chilometri che abbandonano le Alpi e attraversano castelli, borghi, specchi d’acqua, boschi d’ontani e di querce. Un paesaggio ancora intatto. L’evasione dalla realtà, allora, sembrava la soluzione. Al contrario di Adriano Olivetti che cercava sempre il reale, anche nell’architettura: «Una fabbrica – racconta Nevio Verna di Legambiente – che per un gioco di specchi si guardava reciprocamente con la città». Undici anni fa non era più tempo di sofismi: i lavoratori dovevano essere liberati da questa prigione. I canavesani, o meglio gli eporediesi (gli abitanti di Ivrea) dovevano essere liberi di divertirsi. E cosa c’era di meglio di un lago artificiale piuttosto di quello vero di Viverone, lì vicino?
A casa di Mariangiola non è la solita riunione. Non è come ogni fine d’anno quando la società Mediapolis – la prima volta fu nel 2002 – annunciava l’apertura di un cantiere. Qualcosa formalmente è cambiato. Adesso c’è un accordo di programma tra privati e istituzioni: la Regione Piemonte, la Provincia di Torino, i Comuni di Albiano, Caravino, Ivrea e Vestigné. Tutto dovrebbe partire, latitano solo le banche. Ma la società, per bocca dell’amministratore delegato Sergio Porcellini, nega problemi di cassa: «A novembre vi diremo tutto. Comunque, i 150 milioni di euro per il primo lotto, quello per il parco outdoor, li abbiamo trovati». L’operazione è di 450 milioni, dei quali 395 per le opere private (6 milioni dal Patto Territoriale del Canavese); 5,5 milioni da soggetti pubblici (per lo più Regione) per l’urbanizzazione e le infrastrutture. Finora, però, lo scarso capitale impiegato appartiene a una società lussemburghese, i cui soci sono coperti da rigoroso anonimato. Allertati, gli ambientalisti – che sostengono la libertà di conoscere e di decidere – hanno criticato la «singolare disattenzione» delle amministrazioni pubbliche che hanno impegnato denaro a favore del progetto senza «aver chiarito la provenienza del capitale privato». Socialista, eporediese, tra i maggiori sostenitori di Mediapolis, l’assessore regionale al Commercio Luigi Ricca ribatte al telefono: «Noi abbiamo fatto tutto quello che dovevamo, abbiamo analizzato criticamente l’iniziativa, cercando di ridurne l’impatto. La ricerca dei capitali privati non è compito nostro».

Per comprendere questa storia bisogna tornare indietro, ai tempi della lira. Anni di iter burocratici, accordi politici, ricorsi bocciati, altri ancora in ballo, valutazioni di impatto ambientale e scarso coinvolgimento della popolazione. Il progetto viene inserito nei Patti territoriali nel 1999, come rilancio del territorio. I Ds al governo di Ivrea sono da subito tra gli sponsor, accanto all’amministrazione regionale di centrodestra di Enzo Ghigo. Contrari, invece, Rifondazione, i Verdi e la sinistra Ds. Mediapolis veniva presentata come l’unica salvezza per il territorio, la manna dal cielo. E raccolse quasi un plebiscito tra le amministrazioni locali. «In pratica – taglia corto Bruno Dominjanni del Fai – ti dicevano che si doveva fare, lo vogliate o meno, anche in un’area esondabile, inedificabile o di importanza storico-naturalistica. Il parco a tema da subito è stato il paravento per una grossa speculazione di edilizia commerciale».
Sui giornali locali se ne parlò molto, su quelli nazionali quasi mai. Il movimento noTav era da venire e qui la mobilitazione rimaneva d’élite. Gli anni passano e cambiano i numeri: da un’offerta occupazionale prima contenuta a una esponenziale. Pure i contenuti variavano: tre centri di grande distribuzione e poi sport, scienza, Rockland (una megadiscoteca per 4.500 persone e un museo con le auto di Elvis), i Tivoli Gardens (grazie a una partnership con l’antico parco a tema di Copenaghen, che poi saltò) e, infine, la comunicazione: il mondo dei mass media. “Sarà un set televisivo, dove lo shopping diventerà un’esperienza emotiva e il consumo intrattenimento”, recita la presentazione del progetto. Un mix tra pedagogia, edonismo e libertà di consumare.
Anche il nome cambia: all’inizio era Millennium Canavese, poi si passa a Millennium Park e, qualche anno fa, visto che il millennio era passato da un pezzo, arriva Mediapolis. Il primo luogo scelto fu Pavone Canavese, periferia di Ivrea. «Ma si pensò – precisa Dominijanni – che avrebbe oscurato lo sviluppo commerciale della città». C’era l’area di Scarmagno, dove l’Olivetti aveva avuto sede quasi libera. No, meglio una zona non urbanizzata, agricola, costava meno. Più a sud, ce n’era una di proprietà di Multiservices, società di Pirelli che gestisce il vasto patrimonio immobiliare della ex Olivetti. E se nelle mappe regionali era considerata inedificabile, perché alluvionabile, si sarebbe fatta una variante. Così la Multiservices, in cambio di una partecipazione del 10 per cento al capitale, cedette l’area a Mediapolis che nel 2000 diventò spa, con presidente Gianni Zandano, già a capo dell’Istituto bancario San Paolo di Torino. «Quella di Guadalongo, a sudovest di Albiano, è una zona ricca di biodiversità, la falda acquifera è superficiale, l’assetto idrogeologico è molto delicato e più a valle ci sono i depositi nucleari di Saluggia. Una nuova canalizzazione li metterebbe a rischio». Uno dopo l’altro, sono i punti che elenca Agostino Petruzzelli di Legambiente. Ma dalla politica niente dubbi, si va avanti. Bisogna far posto, in mezzo all’anfiteatro morenico, a una Drop Tower, una torre a caduta libera, una Water Coaster (una giostra con paraboliche e finale in acqua), a dodici spettacoli giornalieri, ma anche a veri e propri studi televisivi, cinema 3d e 4d e a un albergo di 24 metri d’altezza. Nel 2005 gli ambientalisti perdono il ricorso, il Tar del Piemonte lo respinge: “Il parco a tema ha una valenza di utilità pubblica; quindi, come tale può essere edificato anche in aree considerate a rischio e non edificabili”.
L’assessore regionale Ricca però ci tiene a spiegare le sue buone ragioni: «Abbiamo fatto molto per la zona umida di Fontana Rovei e il suo canneto. Lì si voleva costruire il parcheggio, ma li abbiamo salvati. E poi non si può mettere in secondo piano il lato occupazionale». Se mai costruiranno la cittadella di Mediapolis, dal castello di Masino la si potrà vedere proprio davanti alla balconata. «Ma non è un problema di panorama», dice Marco Magnifico, direttore del Fai. «Vogliamo far capire che il parco verrà realizzato a vantaggio di pochi imprenditori, non certo della gente. È un modello vecchio e superato, con un deficit culturale anche rispetto alla Costituzione italiana, che nell’articolo 9 difende il paesaggio. Assurdo. Si crea uno spettacolo artificiale, fuori contesto, una specie di Las Vegas, quando uno spettacolo della natura ci sarebbe già: castagneti centenari, un lago morenico, borghi e castelli e pure il cavolo verza. Mettiamoli in rete, un insieme di biodiversità unico». Magnifico ha una sua idea su chi manovra dietro le quinte: «Poteri forti e invisibili a cui le amministrazioni, di destra o di sinistra, non possono dire di no». E racconta un aneddoto: «Chiedemmo aiuto all’avvocato Agnelli, non un potere debole. Lui andò da Ghigo. Ma il presidente della Regione, rammaricato, rispose picche. Non si poteva bloccare». Ma quali sono questi poteri? «Non mi faccia dire». Magnifico fa una pausa e ripete per due volte la radice del nome del progetto: «Media… Media… Vi dice qualcosa?». L’allusione è chiara, ma finora non è mai stato provato un legame con l’azienda di Silvio Berlusconi.

L’amministratore delegato Sergio Porcellini è stufo delle polemiche e prevede di inaugurare Mediapolis alla fine del 2012: «Ho sentito tante balle, ma come diceva Goebbels a dirle cento volte diventano vere. Sull’impatto ambientale esiste una valutazione positiva di tecnici provinciali e regionali ». Ora che gli «ostacoli burocratici» sono superati spera di aprire il cantiere al più presto: «A dicembre entreranno le ruspe». Meno ottimista sui tempi il sindaco (di centrosinistra) di Albiano, Gildo Marcelli, fin dall’inizio un sostenitore del progetto: «Mancano ancora i permessi, ma in primavera si partirà. Così potrò dare risposta alle domande di lavoro che giornalmente arrivano nel mio ufficio». Porcellini smorza le voci sulla mancanza di capitali privati: «Il project financing è ormai chiuso. Cento milioni saranno di capitale a debito, dalle banche, e 50 milioni di capitale a rischio». I nomi dei privati? «A novembre». E la società di anonimi in Lussemburgo? «C’è. Presto diremo la verità». Quando vedrà la prima pietra, l’assessore Ricca tirerà un sospiro di sollievo: «Sarà una spinta al rilancio del territorio e diventerà una vetrina per le nostre eccellenze».
Mariangiola Carnevale è una persona pacata, ma a un certo punto non si trattiene: «Non è possibile che, dopo dieci anni, le istituzioni non valutino se il progetto ha ancora un senso». Ci sarebbero alternative? «Due anni fa – spiega Verna – è spuntato a Borgofranco un piano dell’azienda Silfab, che lavorerebbe il silicio policristallino per il fotovoltaico: 350 posti previsti. L’impatto ambientale non sarebbe trascurabile, ma riguarderebbe un’area già industriale, a differenza di Mediapolis. Tutte le fasi dei permessi sono state superate, ma in questo caso le istituzioni non hanno investito un euro». Sui numeri dell’occupazione si domandano: «In una situazione di crisi, i sacrifici territoriali sono giustificati dal fatto che l’iniziativa creerebbe un migliaio di posti di lavoro al costo, fatti
due calcoli, di 500mila euro l’uno?».
A Ivrea, è facile sentire ancora parlare con fiducia di impresa. D’altronde il secolo olivettiano si poneva il tema di una convivenza equilibrata tra industria, cultura e paesaggio. Marco Revelli, sociologo, a fine anni Novanta si era interessato di Mediapolis: «E già all’epoca, mi sembrava un progetto molto datato. Frutto di un’interpretazione stracciona, all’italiana. Dalla meccanica della macchina per scrivere all’immagine. Nemmeno ai servizi. Il produttore diventa spettatore e non più figura sociale in grado di dare qualità; la negazione delle relazioni, anche umane, che l’Olivetti aveva creato». Secondo il sociologo, è a rischio il tessuto di una ex città operaia dove i sobborghi con i palazzoni non esistono e dove campagna e città sono complementari, non rivali. «Mentre Adriano Olivetti aveva espresso una diversità, adesso ritornadi riflesso un cattivo fordismo. E non se ne calcola l’impatto, nella speranza irrazionale che i flussi turistici siano inesauribili. Anche i 1.200 posti di lavoro, soggetti a flussi stagionali, sono teorici. Alla fine, mi chiedo, il conto economico tra costi e benefici regge?». Per Revelli tutto è riconducibile alla «bolla culturale» in cui si è vissuti nel quindicennio scorso. Dove l’ordine della retorica permette di dire tutto e il contrario di tutto: parlare di sostenibilità economica e progettare un’opera insostenibile. «Liberi di cementificare, liberi di raccontare».

Da Diario di ottobre
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giovedì 15 ottobre 2009

Il borgo che non c'è più

Gli ultimi ad averlo abitato ufficialmente furono degli immigrati albanesi. Ora di Brusaschetto Nuovo, un gruppo di case popolari nell'alessandrino abbuttute pochi mesi fa dalle ruspe, non è rimasto nulla. Ma non è morta la storia di chi vi ha vissuto

Quelli di Brusaschetto non l’hanno mai amato, si sono sempre rifiutati di andarci ad abitare. Un reticolo di strade squadrate, come una prigione a cielo aperto, alloggi da 60 metri quadrati, uno sopra l’altro, costruiti sotto la collina e a due passi dal Po. E dove li mettevano i covoni e gli attrezzi di campagna? In quei minuscoli ripostigli pronti per essere alluvionati?
Così quelle quindici palazzine, con chiesa annessa, nacquero già come corpo estraneo. Accanto alla strada, quasi non fossero di nessuno. Hanno vissuto la loro storia travagliata di emarginazione, sofferenza e anche morte, e ora che le hanno abbattute nessuno le rimpiange. Forse solo i clandestini, i cinghiali o i satanisti che sono stati i loro ultimi abitanti.
Brusaschetto Nuovo fu costruito alla fine degli anni Cinquanta perché il paese di sopra, in cima alla collina, stava franando a causa delle escavazioni intensive nella miniera, o meglio nella cava di marna da cemento, portate avanti da imprenditori come Buzzi e Cementi Victoria. In queste case sarebbero dovuti andare a vivere gli abitanti del vecchio paese, visto che le crepe nelle loro abitazioni si allargavano a vista d’occhio.
Ma così non è mai stato. Ci andò invece gente venuta da fuori per lavorare: gli operai della centrale nucleare di Trino Vercellese, proprio di fronte al di là del Po, e poi, negli anni Novanta, i migranti albanesi. Ma non era proprio l’America.
Quelle terre meritavano una nuova vita. Almeno, questo hanno pensato l’amministrazione di Camino, il comune di cui Brusaschetto è frazione, e il Parco del Po, che qui ne disegna i confini. Il 19 gennaio 2009 è iniziata la demolizione dell’intero borgo, con l’obiettivo di riqualificare l’area e includerla in un progetto di naturalizzazione entro il 2013.

Un paese di minatori
Le colline del Basso Monferrato nascondevano un tesoro. Un materiale povero, che avrebbe rappresentato però l’oro della modernizzazione architettonica del ventesimo secolo: la marna. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nella zona compresa tra Camino e Brusaschetto, un gruppo di lungimiranti imprenditori diede via all’attività estrattiva. E la vita cambiò, nelle forme del paesaggio e nel quotidiano della gente. I contadini divennero minatori, abbandonati campi e risaie si ritrovarono immersi nella rete di gallerie che anno dopo anno sempre di più penetrarono sotto la collina. E presto quasi tutte le famiglie di Brusaschetto si ritrovarono ad avere almeno un componente assunto nelle ditte estrattive, tra i rischi del grisou e un lavoro che logorava il fisico.
Ma non solo le nocche o la schiena, anche il corpo della collina mutava. Le sue sembianze si arricchivano di ponti e rotaie per il trasporto dei materiali, e l’intensità dell’estrazione la rendeva più vuota e più fragile.
Sulle case iniziarono a vedersi le crepe già negli anni Trenta, come rilevano gli studi del Servizio Geologico d’Italia. Talvolta sembrava arrivasse il terremoto, perché la terra vibrava. Invece erano piccole frane. La paura aumentava e il problema giunse fino a Roma, alle aule del Parlamento. Furono i deputati originari della zona a interessarsene, con interpellanze e richiesta al Ministero dei Lavori Pubblici. Prima Walter Audisio, comunista, poi Paolo Angelino, socialista, quindi Giuseppe Brusasca, democristiano e nato proprio a due passi, a Gabiano. Dal 1951 al 1957 fu un susseguirsi di sollecitazioni.
“Alcune case stanno crollando, altre sono lesionate” tuonava Walter Audisio in una seduta della Camera del 1° febbraio del 1956, citando le parole del parroco di Brusaschetto: “Alcune abitazioni sono già state evacuate e le vite sono in pericolo. Il campanile della chiesa è inclinato di 40 centimetri verso la canonica e la chiesa stessa. Ora siamo in ansiosa attesa, sperando, finalmente, comprensione ed umanità per un pronto, efficace e massiccio intervento governativo, prima che sia troppo tardi”. Rispondendo ad Angelino, il 28 febbraio di quello stesso anno, il sottosegretario di Stato per i Lavori pubblici Giuseppe Caron spiegava: “Dagli accertamenti è risultato che il dissesto statico è dovuto al cedimento di vecchie gallerie al di sotto e in prossimità dell’abitato, ricavate prima del 1927 per l’escavazione di marna di cemento. Al fine di dare alloggio alle famiglie che hanno avuto la casa danneggiata è stata disposta l’assegnazione all’Istituto Case Popolari di Alessandria di 100 milioni di lire per la costruzione di un primo lotto di alloggi”.
Questo fu l’inizio di Brusaschetto Nuovo. Ma passarono ancora due anni prima dell’avvio dei lavori, come testimonia l’allarme lanciato dall’onorevole Brusasca nell’ottobre del 1957: “Il Ministero ha fatto stanziamenti e disposto progetti per la costruzione di nuove case in un sito sicuro, ma le pratiche sono talmente lente che ci avviciniamo all’inverno e le opere sono ancora da eseguirsi”. Eppure, nonostante le richieste di aiuto dalla popolazione ripetute negli anni, la paura e l’incertezza che minavano la quotidianità, una volta terminati i lavori nel 1958 quelle case rimasero vuote.

La vita comunque
Alla fine degli anni Cinquanta le miniere chiusero. E il paese in cima alla collina poco a poco si spopolò. Dai quasi 800 abitanti del 1921 si passò ai 195 del 1961. Proprio l’anno in cui a Trino Vercellese, al di là del fiume, iniziarono i lavori per la costruzione della centrale nucleare “Enrico Fermi”. E un lampo di vita arrivò anche a Brusaschetto Nuovo. Nessun contadino si decise a scendere in basso, la gente venne da fuori. Gli operai della centrale abitarono le case popolari per alcuni anni. E successivamente qualcuno continuò a vivere in questo reticolato di abitazioni tutte uguali, gialle con il tetto rosso, con un’alta chiesa di mattoni a fianco. Lo testimoniano i numeri dei censimenti: 80 persone nel 1971, 88 nel 1981 e 54 nel 1991.
Di questi uomini e di queste donne non rimane però niente nella memoria popolare. È come se coloro che vivevano da generazioni sulla collina avessero rinnegato quell’asettico villaggio, costruito per soccorrerli dalla frana, ma considerato fin dal primo momento un corpo estraneo. Eppure, nonostante tutto, la vita c’era. Travagliata, come dappertutto, forse solo un po’ più difficile. Muri quasi di cartone, non un negozio né un parco per i bambini. Si parla anche di un fatto di sangue, un giallo all’inizio degli anni Ottanta. Il Po era così vicino che le alluvioni non davano tregua, quelle del 1994 e nel 2000 sono solo le più note.
Negli anni Novanta arrivarono gli albanesi, sfollati in questo borgo. Il ritmo delle emigrazioni segnò il tempo fino al 2000, quando il Comune decise di murare gli ingressi e le finestre degli stabili. Eppure il tanto denigrato paese continuava ad essere un desiderio, o forse riparo, per qualcuno. Poveri, disadattati e clandestini che nel tempo hanno sfondato i mattoni e occupato quegli spazi, lasciandosi alle spalle pure i segni di un incendio. E di notte, anche se nessuno ha mai potuto dare un nome agli autori, comparivano scritte sataniste e murales grotteschi con protagonisti la centrale e l’ambiente contaminato di questo territorio. Ma anche un grande disegno in stile western che si dipanava su due case adiacenti, e una serie di scritte ammonitrici: “Mai più così. Viva il Po” e “Noi siamo vivi”.

Le ceneri del borgo
Quello di Brusaschetto Nuovo stava iniziando a diventare un problema. Più che altro per il degrado, la desolazione e lo stato di abbandono di strade e case. Fu anche cintata come zona pericolante. Fino a quando, nel 2008, maturò la convinzione che l’unica strada percorribile fosse abbattere il complesso edilizio e ricominciare da capo. Attori della svolta, il Comune di Camino e il Parco Fluviale del Po tratto vercellese-alessandrino, promotori di un intervento di riqualificazione.
Il progetto è stato presentato alla popolazione durante un’assemblea molto partecipata la sera del 15 gennaio 2009. “È un traguardo che vedevamo molto lontano, finalmente ce l’abbiamo fatta”, ha introdotto soddisfatto il sindaco Sergio Guttero, quasi a fine mandato. “L’idea, ha aggiunto il presidente del Parco del Po Ettore Broveglio, è di riqualificare un’area utilizzando i proventi dell’attività estrattiva. Ripristinando la situazione ambientale di oltre cent’anni fa”. La concessione ha una durata di cinque anni a partire dal settembre 2008. “Progressivamente, ha concluso Nemesio Ala, consulente della ditta Nord Scavi incaricata della demolizione e della riqualificazione, costruiremo habitat, ecosistemi e particolari isole per la fauna. Insomma, un luogo da un lato bello, dall’altro ricco di vita e biodiversità”.
La mattina del 19 gennaio la neve copriva ancora i tetti delle case. La Giunta comunale e i politici della provincia si erano radunati al gran completo per assistere a quello che nella zona stava diventando un vero e proprio evento. Fascia tricolore, taglio del nastro e via alla ruspe. In pochi giorni Brusaschetto non ci sarebbe più stato: spazzato via dal paesaggio come già lo era stato dalla memoria degli abitanti. La prima casa e poi le altre. Mano a mano che i muri e le stanze venivano sventrati emergevano i dettagli di una vita recente. Una parete dipinta di verde, fotografi e, una copia di Topolino, poltrone, brandine, coperte, addirittura vestiti. Come a dire: fino all’ultimo la vita c’era. E, se ti spostavi vicino alla chiesa, potevi vedere al centro della navata un’inquietante sedia a rotelle forse utilizzata per qualche strano rito. Anch’essa spazzata via dalle ruspe.

La rinascita
Le case ora non ci sono più, le macerie nemmeno. Dove un tempo sorgeva Brusaschetto Nuovo si incomincia a vedere un laghetto. Ma gli scavi andranno avanti ancora per molto e l’ambiente si modificherà ulteriormente. I camion che trasportano via la terra proseguiranno il loro lavoro e qualche disagio turberà il quieto vivere degli abitanti, costretti ad usare una strada battuta vicina al fiume Po in vista della realizzazione di quella nuova ai piedi della collina. Era proprio questo che più li preoccupava durante l’assemblea di gennaio. “Ce la farete prima dell’inverno?” si domandavano.
“Il progetto interessa circa 40 ettari di golena, di cui solo una piccola parte era occupata dagli edifici. Per rendere l’idea, pari a 40 campi di calcio, il doppio della superficie complessiva del parco del castello di Camino”, spiega Maria Teresa Bergoglio, responsabile del settore edilizio e urbanistico del Parco. E anche i cinghiali vogliono la loro parte. Sono infatti previsti attraversamenti per la fauna selvatica, che negli ultimi anni si era ricavata la sua strada a due passi dalle case. “Al termine dell’intervento, conclude Bergoglio, il progetto prevede circa metà superficie dedicata a bosco e radura, l’altra parte suddivisa tra aree umide e specchi d’acqua con profondità massima di 3,5 metri sotto falda, poco meno della quota del fondo alveo del Po”.
Così, il volto del futuro sarà come quello del passato e i cinquant’anni di Brusaschetto Nuovo non saranno mai esistiti. Non per tutti. C’è chi ce li ha ancora negli occhi, nelle mattine di rugiada o nei pomeriggi assolati, magari al ritorno dal lavoro. Perché, incastrata tra i colli e il Po, c’era una zona grigia che era stata per anni la vita di qualcuno.

Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
Da PiemonteMese di ottobre

venerdì 9 ottobre 2009

Operai in cerca di rappresentanza, opposizione afona

TORINO - «Di lavoro si interessano solo in campagna elettorale, quando gli conviene... Se vanno al governo non hanno poi il coraggio delle decisioni... I politici non rappresentano nessuno, vengano a lavorare a Mirafiori se vogliono capire la realtà... La verità è che il primo a voler cambiare l'articolo 18 fu D'Alema... Il Pci è morto e il sindacato ha le metastasi». E' la radiografia di una comunicazione interrotta, quella tra politica e operai: il risultato di una ricerca realizzata tra Torino, Roma e Taranto da due studiosi, Francesco Garibaldo ed Emilio Rebecchi. Ne esce il racconto di uno stato d'abbandono. «Di uno spaesamento», dice Nichi Vendola.

Il rapporto è stato presentato ieri nella sala del palazzo dell'Atc di Torino, in un dibattito con Vendola e Luciano Gallino. «All'inizio dell'anno avevamo lanciato l'idea dell'inchiesta - spiega Titti Di Salvo - come Sinistra democratica, ora è patrimonio di Sinistra e libertà. La base da cui partire per interrogarci». Le testimonianze raccolte potrebbe essere scambiate per qualunquismo. Niente di più sbagliato, sono espressione di un vuoto. Anche di un problema di democrazia, di rappresentanza.

La ricerca ha coinvolto 60 lavoratori, uomini e donne, giovani e anziani, iscritti o meno al sindacato, provenienti da realtà diverse. Al centro, il rapporto tra lavoro e partiti. Non solo quelli di sinistra, ma è su quest'ultimi che si è concentrata la critica. E la proposta. «La sinistra - si legge - è un bicchiere frantumato, io in quel bicchiere ci bevevo. Con i frammenti non me ne faccio niente, posso metterli un sacchetto. E ricordarmi com'era bello il bicchiere». Agli operai è stata posta una domanda: come i partiti hanno risposto alla crisi e quale partito si vorrebbe per difendere gli interessi di chi lavora? La risposta è stata diversa a seconda del luogo: «A Torino - spiega Garibaldo - si vorrebbe un partito socialdemocratico. A Roma il ritorno del Pci, un partito popolare e di massa. A Taranto manca addirittura l'idea di una rappresentanza politica classica, si propone una lobby di lavoratori».

C'è sdegno e sconforto nei confronti della politica. Ci si rivolge ai politici di sinistra come si sarebbe fatto un tempo con i liberali o i democristiani («Non avete mai lavorato»). Li accusano di «consumismo e privilegi». Di essere corresponsabili della crisi («il pacchetto Treu»). Allo stesso tempo, però, rimane una richiesta di rappresentanza a una sinistra che non c'è più. Per alcuni è forte il mito del Pci («il disastro è iniziato con l'89»), per altri c'è l'esigenza di un partito nuovo che «si schieri con i lavoratori e scontenti la signora Marcegaglia». Il sindacato viene invece difeso: «La Cgil e la Fiom sono le uniche rimaste a parlare con noi».

Per Luciano Gallino, la ricerca indica cosa dovrebbe fare un partito di sinistra. «Negli ultimi 20 anni sono andati a pezzi vari tipi di unità: quella di tetto, di padrone e di rapporti di lavoro. Compito della sinistra è ridurre il frastagliamento, per esempio con una legge che stabilisca un solo contratto per il lavoro dipendente». Il discorso si fa politico: «Ci deve essere un partito, non in eterna formazione, che osi pronunciare la parola redistribuzione del reddito e si batta per dare specifiche sicurezze di occupazione e pensionamento». A Nichi Vendola tocca l'ultimo intervento. «Nel variegato universo della sinistra siamo stati tutti sconfitti. Bisogna partire dalle esigenze dell'oggi e dalla prospettiva sul domani. Nelle ricerca, la politica appare come uno sfottò nei confronti dei ritmi della fabbrica. Dobbiamo connettere l'attuale crisi democratica con la crisi sociale. L'aggressione alla Corte costituzionale con la drammatica condizione operaia. Se non troviamo questa connessione è finita». La sfida, per tutti, è trovare i modi per ricostruire il rapporto spezzato.

Da il manifesto del 9 ottobre

giovedì 8 ottobre 2009

Thyssen, in aula il dirigente per la sicurezza: «Era tutto a posto»

TORINO - Andava tutto bene, era tutto in regola. «Non è vero che i reparti fossero pieni di olio e carta sparsa». È solo la parodia della realtà. Per chi fosse venuto ieri per la prima volta in Corte d'Assise, senza saper nulla del processo Thyssen, quello fatto da Cosimo Cafueri, responsabile della sicurezza all'epoca del rogo, sarà sembrato il ritratto di una fabbrica normale. Non quello di uno stabilimento che giocava a dadi col destino, come invece risulta dalle decine di testimonianze finora raccolte. Una fotografia che il primo dei sei imputati non accetta, anzi capovolge. Quasi stupito quando il procuratore Raffaele Guariniello gli chiede come facesse a gestire una situazione così: «Non ha mai pensato di dimettersi?». Cafueri fa una pausa: «Così, in che senso?». Guariniello, come se dovesse precisare qualcosa di scontato, risponde: «A rischio». Per il responsabile sicurezza «le condizioni di lavoro non erano tali da prevedere quello che è accaduto». E sul piano della sicurezza «la situazione non era diversa dagli anni precedenti».

Cafueri entrò in Thyssen nel 1974, a 18 anni, come operaio. Una carriera tutta interna la sua. Nel 1995 assume la responsabilità sulla sicurezza nello stabilimento di Torino e nel 1999 quella sull'impianto trattamento acque. Parla davanti a un'aula gremita e si difende dall'accusa di non avere segnalato ai vertici societari l'esigenza di adottare misure preventive contro gli incendi: «Non mi risultavano gravi carenze. A ottobre gli ispettori non riscontrarono anomalie». In verità, prescrissero misure di sicurezza che l'azienda non adottò. «Se tutto andava così bene - chiede il pm Francesca Traverso - perché il giorno dopo l'incendio chiamò una ditta esterna per sistemare gli estintori?». Il tentativo fu bloccato dagli agenti di polizia. «Telefonai solo per avere la documentazione richiesta dagli ispettori della Asl».

Secondo Cafueri, accusato di omicidio con colpa cosciente, seppure diminuissero progressivamente le professionalità, non c'erano problemi di sicurezza. E non era strano che Rocco Marzo, una delle vittime («un mio amico» ribadisce più volte l'imputato), un lavoratore esperto ma senza un corso antincendio alle spalle, fosse stato nominato qualche giorno prima capoturno addetto alle emergenze: «La gestione della formazione era totale responsabilità di chi gestiva il personale. Il mio compito era proporre programmi formativi». Un concetto che ci tiene a ripetere: le responsabilità erano d'altri. «Non avevo il compito di sorvegliare, né di gestire le pulizie». A Torino chi decideva era Raffaele Salerno, capo dello stabilimento, suo diretto superiore; sarà interrogato mercoledì prossimo. Successivamente verrà ascoltato l'amministratore delegato Harald Espenhahn, sul quale pende l'accusa più grave, omicidio volontario con dolo eventuale.

Sul disordine che regnava nell'azienda, per Cafueri, in aula sono state raccontate falsità. «Qualcuno ci ha messo del suo». Si sente un brusio tra i parenti delle vittime. «Non volevo eroi ma gente con la testa. E nell'ultimo periodo gli operai avevano la testa da altre parti». Precisiamo: avrebbero perso il lavoro da lì a poco. Infine, ancora un sassolino su uno dei nodi centrali del processo: «Il personale sapeva benissimo che avrebbe dovuto usare il pulsante di emergenza». Ammette, però, che il piano d'emergenza quella notte non abbia funzionato. Ma forse non era tutto imprevedibile come ce lo racconta.

Da il manifesto del 7 ottobre

martedì 22 settembre 2009

Lo strano caso Ilmas: azzannata dalla crisi in un mercato vivace

TORINO - A un certo punto Franco Berardo, 45 anni, 20 passati alla Ilmas, ha detto basta. Non ce la faceva più a vedere colleghi disperati cui pignoravano la casa. Proprio lui, che - dopo 4 mesi senza stipendio - era tornato a vivere con i suoi. Allora, ha chiamato l'amico e compagno di lavoro, Agostino Cuocolo, e gli ha detto: «Non si può andare avanti così, dobbiamo farci sentire. Saliamo sul tetto». Una tenda e coperte per ripararsi dal freddo. E' da giovedì che sono lì. Scenderanno solo in caso di buone notizie. Aspettano l'incontro di martedì tra le parti al ministero del Lavoro.

Quella della Ilmas non è una storia di ordinaria crisi economica. Le commesse non mancano, come in tutto il settore aereonautico. Il problema è la liquidità, i soldi. Alla base, un mix di responsabilità private e pubbliche: gestione discutibile e una cattiva politica. Adesso, senza stipendio, né premio di produzione, né soldi della cassa straordinaria, senza prospettive, gli operai chiedono un sostegno al reddito e la salvaguardia dei posti: 360 tra la sede centrale di Rivoli, Acerra e la controllata Osu di Orbassano. «Vogliamo inoltre - spiega Marinella Baltera, Fiom Torino - che si velocizzi la pratica per ottenere l'amministrazione straordinaria, chiesta il 31 luglio. E chiediamo che Invitalia (ex Sviluppo Italia, l'agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa, ndr) sblocchi i fondi congelati da tempo per l'insediamento di Casalnuovo, in provincia di Napoli».

Qui la storia si fa difficile e complicata. Anche oscura. Le radici della crisi risalgono al 2005, quando la Ilmas vince un bando per la riqualificazione di un'area dismessa a Casalnuovo, ricollocando 85 lavoratori Exide in mobilità. In questa zona di camorra voleva costruire un addestratore acrobatico. Un'operazione da 27,5 milioni di euro, con fondi in parte privati, in parte di Sviluppo Italia e della Regione Campania. Quest'ultima, che doveva occuparsi della formazione, ha stanziato meno di 400.000 euro sui quasi 1,9 milioni previsti. Il progetto non decolla, anche per l'ostruzionismo dell'amministrazione comunale di centrodestra, sciolta due anni fa per infiltrazione mafiosa. Il sindacato lancia l'allarme: quelle aree sono al centro degli interessi della criminalità organizzata. Non si sbloccano i fondi Invitalia; per vizi di forma nella domanda, dicono dal governo: «Quattro anni di vizi sono un po' sospetti» commenta Baltera. L'Ilmas, che si sobbarca i costi per assunzioni e formazione, non riesce a gestire la situazione; troppo azzardata, e sprofonda in una crisi di liquidità.

«L'operazione a Casalnuovo ci aveva preoccupato: investivano al sud e non facevano nulla per ammodernare Rivoli. Più tardi ci saltò la tredicesima». Lo racconta Luciano Carta, fresatore iscritto alla Cub, che da giorni tiene vivo il presidio a Rivoli. Parla con Berardo, molto critico con le ultime operazioni della società: «Come fa a precipitare un'azienda aeronautica mentre i nostri concorrenti lavorano?». Gli operai sperano in un rapido commissariamento e si augurano che i compratori «non siano pescecani a cui fanno solo gola le commesse». Voci ufficiose dicono che Alenia e Augusta siano interessate. Pino Galgano, rsu Fiom, martedì andrà a Roma: «Ci spaventa l'inverno, quando dovremmo pagare il riscaldamento». E conclude: «Dobbiamo vigilare perché della nostra azienda non si faccia uno spezzatino».

Da il manifesto del 20 settembre

giovedì 10 settembre 2009

Zitti. Non recitate

A Chivasso il sindaco Bruno Matola (Pdl, ex An) censura l’anteprima nazionale dello spettacolo A Ferro e fuoco della compagnia Teatro a Canone diretta dal regista Simone Capula. Il lavoro è ispirato al libro di Stefania Podda Nome di Battaglia Mara. Vita e morte di Margherita Cagol il primo capo delle Br. Il Sindaco dopo aver concesso in un primo tempo l’uso del Teatro comunale l’ha revocato 6 giorni dalla prima.
Motivo? «La tutela della morale pubblica». Matola, senza mai aver visto lo spettacolo, fa riferimento a «espressioni che possano essere ritenute offensive della dignità e della morale pubblica e pertanto potenzialmente lesive dei sentimenti e degli interessi pubblici collettivi che questa Amministrazione è tenuta a tutelare». La stessa sensibilità, però, non l’aveva avuta nel caso di discutibili invitati di estrema destra o di serate sul fascismo. E qualcuno si chiede: l’Italia dovrebbre essere uno Stato di diritto, non uno «Stato etico»?

Scrivono Frediano Dutto e Piero Meaglia del Centro di Documentazione Paolo Otelli di Chivasso: «E’ evidente la scorrettezza di una revoca così tardiva, e il danno economico e professionale che implica per la compagnia: ma non è su questo aspetto che vogliamo soffermarci qui. Ciò che indigna è la motivazione prodotta dal sindaco: lo spettacolo sarebbe offensivo “della dignità e della morale pubblica”, e “potenzialmente lesivo dei sentimenti e degli interessi pubblici collettivi”. Una censura di fatto, esplicita, neppure mascherata da un pretesto (quale potrebbe essere, ad esempio, un impedimento tecnico all’uso della struttura). Per tutelare non si sa bene quali sentimenti che il sindaco ritiene di incarnare, egli procura certamente un danno a noi tutti come cittadini mediante la lesione del nostro diritto costituzionale alla libertà di espressione del pensiero “con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (Articolo 21).
Non vale la pena contestare qui punto per punto questa motivazione ridicola e pericolosa come questa destra di cui il sindaco è espressione. Possiamo solo aggiungere che lo spettacolo – pur affrontando un tema scabroso: la vicenda umana e politica della BR Mara Cagol – rappresenta un utile momento di riflessione critica, mai apologetica, sulla lotta armata e sul terrorismo che, ci piaccia o no, fanno parte della storia del nostro paese. Noi, che abbiamo visto le prove dello spettacolo, lo possiamo affermare serenamente.
In ogni caso, per essere criticato, anche duramente, lo spettacolo avrebbe dovuto aver luogo. Voltaire avrebbe detto: “Non condivido nulla di quello che dici, ma mi batterò affinché tu possa farlo liberamente”. Voltaire viveva sotto una monarchia assoluta. Per i cittadini di una democrazia compiuta, questa lotta non dovrebbe più essere necessaria. Ma purtroppo non è così.
Per queste ragioni, vi invitiamo a venire lo stesso, come se lo spettacolo avesse luogo, davanti al Teatrino civico alle 21 di questa sera, per riaffermare la volontà di difendere i nostri diritti costituzionali».

martedì 8 settembre 2009

In cassa integrazione anche i «re-inseritori»

Il paradosso del consorzio Csea

TORINO - La crisi più va avanti e più scatena paradossi. Può succedere che chi si occupa del reinserimento dei disoccupati si trovi lui stesso in cassa integrazione. Capita a Torino, alla Csea, importante agenzia formativa a capitale privato e pubblico (il Comune ha il 20%) con dieci sedi in Piemonte. La scorsa primavera ha denunciato un deficit di quasi 2 milioni di euro e chiesto 80 esuberi. Per ora nessun licenziamento, ma i 320 dipendenti sono tutti in cassa e senza percepire un euro. Va avanti così da metà giugno: niente stipendio, niente cassa retribuita e nemmeno ferie pagate. Anche se c'è un accordo - voluto dagli enti locali e firmato il 29 luglio - in cui si stabilisce che l'azienda, in cambio della cassa in deroga, si impegna a pagare gli arretrati. Tutto disatteso. «L'accordo è nato proprio per dare possibilità a Csea di acquisire dalle banche la liquidità necessaria a pagare gli arretrati, ma finora non abbiamo ricevuto un soldo», spiega Bruno Somale, delegato Flc-Cgil.

«Vorremmo sapere i motivi reali per cui Csea non riesce ad avere finanziamenti dalle banche», afferma Gianni Grimaldi, che ha vissuto direttamente la controversa privatizzazione di metà anni '90, quando alcuni centri di formazione gestiti dal Comune furono assorbiti dal consorzio Csea. La ritrosia delle banche è probabilmente dovuta all'assenza di un vero piano di ristrutturazione. Grimaldi si rivolge poi al Comune, parte in causa: «Non ci lasci soli, si impegni a tutelare chi rimarrà senza lavoro e dica se vuole sfilarsi dal cda». Questa è una delle preoccupazioni che agita i lavoratori, ovvero che, in tempi di brunettiana razionalizzazione, al Comune non convenga più di tanto Csea. Butta acqua sul fuoco il vicesindaco Tom Dealessandri: «E' un'ipotesi che non sta né in cielo né in terra, la convenzione con lo Csea è stata rinnovata neanche due anni fa. Con la Regione siamo impegnati perché la situazione si risolva».

Intanto, la prossima settimana, in uno stato di mobilitazione permanente (deciso martedì in assemblea), inizieranno i corsi per i ragazzi che devono assolvere l'obbligo formativo. I dipendenti non vogliono bloccare il naturale svolgersi delle lezioni, però tutto parte nell'incertezza. Il consorzio quest'anno compie 30 anni, gli ultimi molto travagliati. Da tempo si parla di sovrannumero, fornitori e consulenti non pagati e strategie sbagliate, come l'acquisizione di istituti decotti. Certo, una delle ragioni della crisi sono i finanziamenti diminuiti: gli anni in cui l'Europa elargiva fondi a pioggia sono lontani. «Ma saranno calati del 10 o 15%, non del 30% come dichiara Csea», precisa Somale.

Ripercorriamo, allora, le tappe della crisi. A marzo vengono resi noti difficoltà di bilancio e piano di esuberi, ad aprile saltano ticket per il pranzo e incentivi. Un mese dopo viene comunicato lo stato di crisi e lo Csea reclama contratti di solidarietà, ma il sindacato si oppone. A giugno i lavoratori portano a casa metà stipendio. A luglio, su sollecitatazione anche dalla presidente della Regione, Mercedes Bresso, viene decisa la cassa in deroga per ottenere una liquidità immediata dalle banche. Intanto, la Regione prepara un fondo di rotazione a sostegno delle agenzie e l'azienda promette che, se le attività partiranno regolarmente, la prima tranche di liquidità arriverà il 25 settembre. Ma la situazione non si sblocca: partono presidi e scioperi. Cosa chiedono i lavoratori? Dall'azienda, un piano di ristrutturazione; dagli enti locali, un interessamento per il ricollocamento degli esuberi.

Da il manifesto del 6 settembre

venerdì 31 luglio 2009

E Ada filava...

Donne e lavoro era la traccia su cui dovevamo lavorare. Ada, un'operaia tessile, è la storia che abbiamo raccontato.

Ada, nel 1997 - dopo 25 anni di lavoro - viene licenziata. Ma non si arrende e cerca una nuova strada. Siamo a Biella, il maggior distretto tessile italiano, una città che ha costruito la propria identità attorno ai lanifici e alle grandi architetture industriali. Un settore in cui le protagoniste sono state donne all'avanguardia nelle lotte per l'uguaglianza sociale ma che oggi sconta il peso della crisi e della globalizzazione.

Questo è il documentario mio, di Silvia, Ilaria e Claudia. Si chiama E Ada filava..., ha un anno e spera di non aver perso lo smalto.








«C'è lo spaesamento ma anche la voglia di non mollare. Di trovare una strada. C'è un territorio che attraversa una crisi e la vive nei suoi simboli. C'è il tessile e tutto un contesto che ruota attorno, ma c'è soprattutto la storia di una persona con le sue emozioni, i dubbi e i desideri, che meglio di ogni altra cosa raccontano una realtà sociale»

E Ada filava... (2008, 22'): un documentario di Ilaria Leccardi, Claudia Luise, Silvia Mattaliano e Mauro Ravarino. In poche parole, l'Isola Rossa.

giovedì 30 luglio 2009

Le tute blu di Torino seguono la Fiom Cgil

Referendum sulla piattaforma

TORINO - Da Mirafiori e da quella Torino che, per numeri, è ancora la capitale dei metalmeccanici arriva un segnale forte: il modello contrattuale di Fim e Uilm non piace. Lo dicono i lavoratori che hanno partecipato alla consultazione sulla piattaforma separata dei metalmeccanici della Cgil. In tutto sono stati 36mila i votanti su un totale di 74 mila addetti: 93,43% i sì e 361 le aziende coinvolte di cui 179 interessate da cassa integrazione. Al referendum hanno preso parte iscritti e non, a differenza delle votazioni indette da Fim e Uilm che hanno ammesso, tranne rari casi (Carrozzerie di Mirafiori), solo i tesserati, in linea con la filosofia degli ultimi accordi separati. Insomma, meno partecipazione, meno conflitto e firma accelerata.

«Alleggia un'idea proprietaria del contratto, come anche dello sciopero» attacca Giorgio Airaudo, segretario della Fiom torinese, il quale ritiene che l'unica soluzione per risolvere il gap di rappresentanza sia l'introduzione di «regole democratiche» per dare la possibilità di esprimersi a tutti i lavoratori. Su 175 mila lavoratori metalmeccanici nel torinese (il 10% di quelli italiani) sono, infatti, solo 40 mila gli iscritti ai tre sindacati: «A scegliere devono essere tutti» sottolinea Airaudo. «Il voto al referendum - ha aggiunto - ha un messaggio preciso: la piattaforma presentata dagli altri sindacati non ha convinto e noi continuiamo a pensare che sia stato un errore la scelta fatta dalla controparte di dividere il sindacato, così come presentare una piattaforma separata dentro la crisi».

Una settimana fa sono iniziate le trattative sul contratto. Da una parte Fim e Uilm (più Fismic) che, volendo dare piena attuazione all'accordo separato sulle regole del 22 gennaio, hanno disdettato la parte normativa del precedente Ccnl, valida fino a fine 2011, e proposto un rinnovo economico e normativo su tre anni. La Fiom, invece, ha presentato una piattaforma secondo il vecchio modello, ovvero su due anni e solo sul piano economico (aumento salariale 130 euro contro i 113 di Fim e Uilm sui tre anni). Sulle regole (tema che va dagli orari ai permessi) la Fiom non arretra: «Per noi il contratto - ha ribadito Airaudo - resta in vigore, pertanto sappiano gli imprenditori che, se a settembre gli altri sindacati firmeranno l'intesa con Federmeccanica, la nostra piattaforma diventerà piattaforma aziendale in tutte le fabbriche in cui troveremo il consenso». E contro la disdetta normativa, oltre alla mobilitazione, la Fiom ha deciso azioni legali.

«Sulle divisioni in atto - commenta Airaudo - i sindacati hanno colpe, ma la responsabilità principale è della controparte». A Torino c'è la Fiat, maestra in divisioni, impegnata su tanti fronti (da un lato espansioni, dall'altro chiusure). Tra questi c'è l'offerta d'acquisto per Bertone, accanto a quella di Gian Mario Rossignolo. Ma se del secondo si conoscono le linee progettuali (costruire Suv coinvolgendo pure i 170 lavoratori in cassa della Delphi di Livorno), della strategia Fiat non si sa nulla. Ai sindacati Sergio Marchionne non ha risposto alla richiesta di incontro. E così le ipotesi sfiorano la fantasia: auto di lusso (Chrysler o Fiat), piccole serie oppure gli immobili, vicini al possibile sito delle nuove Molinette, a far gola? Airaudo chiede al ministro Scajola, garante dell'amministrazione straordinaria, di decidere in fretta: «nell'attesa, non vorremmo sparissero le offerte. Le istituzioni torinesi non devono farsi sfuggire questa opportunità, anche perché ci sono altri stabilimenti a disposizione, come Pininfarina».

Da il manifesto del 30 luglio

giovedì 23 luglio 2009

Il processo all'Eternit si farà

Accolte le richieste del pm Guariniello: rinviati a giudizio i proprietari miliardari. Le vittime dell'amianto, in tutta Europa, alla fine potrebbero essere duecentomila

TORINO - Quando il gup Cristina Palmesino legge l'ordinanza di rinvio a giudizio per i due imputati dell'inchiesta Eternit, un applauso e un abbraccio sciolgono tutta la tensione accumulata in questi mesi d'attesa. Dovremmo dire anni - almeno trenta - di aspettative, lotte, dolore e speranza per la gente di Casale Monferrato, che ha patito questa tragedia. Almeno 1400 i morti nella cittadina piemontese. A cui si aggiungono i casi di Cavagnolo nel torinese, Ruviera in Emilia e Bagnoli in Campania. Una lunga catena di morti e malati: sono 3 mila in tutto quelli conteggiati nel capo d'accusa.

Il processo ai vertici Eternit si farà e inizierà il 10 dicembre prossimo. Sul banco degli imputati ci sono il barone belga Jean Loui De Cartier De Marchienne e il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, che dopo aver trafficato nella lavorazione della fibra cancerogena è stato rappresentante dell'Onu per lo sviluppo sostenibile. Non sono dirigenti di secondo piano, ma i più potenti signori dell'amianto a livello internazionale: accusati entrambi di disastro doloso (reato che prevede fino a 12 anni di reclusione) e rimozione volontaria di cautele (fino a 5 anni). Non solo avrebbero causato il «disastro», ma non avrebbero nemmeno svolto azioni per prevenirlo né per limitarlo.

Il gup ha respinto tutte le obiezioni della difesa e ha accolto in toto le richieste della Procura di Torino, formulate al termine della maxi inchiesta coordinata dal pm, Raffaele Guariniello, che a caldo ha commentato: «E' stata scritta una pagina importante della tormentata storia dell'amianto in Italia e nel mondo». Un passo storico. Lo dicono un po' tutti, perché da nessuna parte, neanche in Francia, si è riusciti a intraprendere un processo così importante per numero di casi trattati e per il ruolo dei dirigenti coinvolti, la testa di un sistema. Al pm torinese risponde l'avvocato Astolfo Di Amato, che guida il pool di difesa di Schmidheiny: «L'amianto - ha detto - fa parte della storia industriale e sociale, e in tribunale si giudicano gli uomini, non la storia. Il processo non va caricato di significati extra giuridici, come per esempio la responsabilità sociale degli imputati».

Quello del giudice Palmesino è stato un provvedimento lungo e dettagliato. Poteva essere - come spesso succede - un rinvio generico e sintetico, invece, si è rivelato il contrario. Il gup ha voluto sottolineare come i reati contestati (che partono dal 1952) non possano essere prescritti. Un'affermazione chiara: «Il disastro è ancora in atto». Scrive nel documento: «Il disastro si sta ancora manifestando, provocando nuove malattie, sia negli ex lavoratori, sia nei cittadini che vivono in prossimità degli ex stabilimenti Eternit, o nei luoghi in cui è in uso materiale derivato dalla lavorazione dell'amianto». Inoltre «il materiale derivante dalla lavorazione utilizzato per costruzione, pavimentazione e coibentazione è ancora attualmente in uso nei siti».

Commosso, all'uscita del Tribunale, Bruno Pesce, leader del Comitato vertenza Amianto: «Dopo anni si restituisce dignità alle vittime. Sappiamo che gli scogli più grossi devono ancora arrivare, ma quella di oggi è una tappa importante». La sua è una lunga lotta, iniziata sul finire degli anni Settanta e sempre accompagnata da una forte partecipazione sociale. Ieri, erano in 140 i casalesi in aula. Sono quelli che, con altre 550 fra persone fisiche ed enti territoriali, si sono costituiti parte civile. Tra loro c'è chi lavorava all'Eternit, chi ha contratto l'asbestosi, chi in quella fabbrica non ci ha mai messo piede, chi ha perso il padre, il marito, la moglie o il fratello. Tutti portavano un adesivo giallo con scritto «Strage Eternit: giustizia». Nei corridoi, dopo la notizia, sorrisi, lacrime e felicità. Finalmente vittime e parenti vedono aprirsi una porta di speranza. Troppe volte la loro ansia di giustizia è stata delusa. Escono dal Palagiustizia e commentano la decisione del gup con poche ma significative parole: «Siamo felici». Lo dice, per tutti, una donna con gli occhi lucidi. Qualcuno fa la «V» di vittoria, con l'indice e il medio della mano destra. Altri si sfogano: Pietro ha 63 anni e racconta di quando lavorava all'Eternit: «Scaricavamo l'amianto blu, il più pericoloso. Di trenta che erano con me, siamo sopravvissuti in due. E adesso quella gente là deve andare in galera». A mezzogiorno ritornano a Casale, la città della fabbrica del cancro, il maledetto mesotelioma. Ma anche la città che ha messo in atto la più grande bonifica (non certo per opera dell'azienda che i suoi rifiuti li ha lasciati lì dove stavano). Presto, in via Oggero dove sorgeva il grande stabilimento dovrebbe nascere un parco. Si chiamerà «Eternot». Un nome che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.

Sergio Bonetto è l'avvocato di parte civile. Insieme a Pesce, alla pasionaria Romana Blasotti Pavesi, a Nicola Pondrano (segretario della Camera del lavoro di Casale), è uno dei protagonisti di questa storia. Da anni difende le vittime. «Adesso inizia un processo storico, che potrebbe essere d'esempio per tanti altri. Auspichiamo sia partecipato. Vorremmo, infatti, coinvolgere gli avvocati dei paesi europei, perché quello dell'amianto è un problema che va oltre i confini». I numeri fanno spavento: nelle previsioni, nei prossimi decenni i morti nel vecchio continente potrebbero raggiungere la cifra di duecentomila.

Da il manifesto del 23 luglio

lunedì 20 luglio 2009

Shoegaze 2. Sporchi ritorni


Vent’anni dopo è ancora bassa fedeltà. Nu-gaze, shitgaze o no-fi. Boh. Chi meglio rimastica, inventa. Breve e inconsapevole viaggio tra le melodie rumorose della nuova scena indie d’oltreoceano

Che la storia sia ciclica o meno, meglio non disputare. Ma nella storia del costume i ritorni sono innegabili. E tra le prime a essere filtrata c’è l’arte rock. Anche nei meandri più sotterranei. Banalità? Forse. Però, passano i vent’anni e alcune sonorità, o quanto meno un modo d’approccio, riappaiono automaticamente in superficie. Così è sempre stato, per estremizzare: nulla si inventa e nulla si distrugge (qualcosa si scopre?). E adesso, quasi a cavallo tra primo e secondo decennio del XXI secolo, a ritornare è il lo-fi, che l’aveva fatta da padrone nei primi anni Novanta (Pavement e derivazioni varie). Già all’epoca scelta più estetica che etica (a differenza del pre-sixties, dove la bassa fedeltà era più necessità che vezzo). Quindi: dissonanze, obliquità melodiche miste ruvidità punk, voce filtrata, chitarra gracchiante (acustica o elettrica) e batteria sincopata. Un mix che nella cameretta, ormai non più slacker, non ti fa stare fermo. Vent’anni fa, o quasi, come adesso.

Il quasi è importante, perché non essendo ancora al giro di boa le contaminazioni synth-wave degli Ottanta sono continue. Come per i newyorkesi Blank Dogs, il progetto di Mike Sniper: sicuramente più Joy Division che Sebadoh, ma di lo-fi ce n’è abbastanza per citarli a proposito. Under And Under, il loro ultimo album da poco uscito per la fidata In the Red, è tra i più originali di questa scena poco decifrata, ma molto sponsorizzata dal web (Pitchfork in testa). Le coordinate vanno dall’Oregon al Midwest, dalla California a New York. Tutta interna agli States, ma con ancora lo sguardo rivolto verso Inghilterra e dintorni. Vedi, l’ammirazione per i misconosciuti Vaselines e il loro garage-pop che impressionò uno come Kurt Cobain e soprattutto l’amore per i My Bloody Valentine (saccheggiatissimo Loveless), dai quali hanno mutato, oltre al wall of sound, il termine a loro affine shoegaze, rideclinandolo in shitgaze, per opera di Kevin De Broux, bassista dei Psychedelic Horseshit. Ovvero, un suono che nasce da una strumentazione classica rock per virare verso galassie di bassa fedeltà, venendone talmente sommerso da diventare shitty (di pessima qualità). Estetica del brutto, quindi.

Di questa scena «neo lo-fi» - o no-fi, shitgaze, nu-gaze, weird-punk (l’anima più garage), solo per elencare le varie etichette con cui è stata magari maldestramente definita - fanno parte gruppi molto diversi con in comune un approccio «scazzato» o «falso scazzato» (slacker avremmo detto ai tempi del miglior Steve Malkmus). Chiamiamolo naif. Ma anche, in particolare, una miscela dolce-acida che frulla, da punti di vista diversi, indie rock, post-punk e noise pop. Ai tempi di internet e dell’elettronica da comodino. Certo, quando manca un pensiero «forte» si rimodula un paradigma esistente. E l’esaltazione pitchforkiana è talvolta eccessiva. Ma non tutto è fuffa, anzi si può dire che l’indie rock a stelle strisce abbia trovato di nuovo brio.

Gli alfieri sono da una parte, su una costa, i No Age, duo di Los Angeles (Dean Spunt e Randy Randall), dall’altra le Vivian Girls, trio femminile di Brooklyn. Dei primi, Nouns, lo scorso anno, fu uno dei migliori album della stagione: in bilico tra My Bloody Valentine (il loro guardarsi le scarpe mentre suonano – shoegaze appunto - non è mai passato di moda) e Black Flag, tra attitudine punk e stile noisy e un piglio indie-pop alla Doug Martch dei Built to Spill. Il trio delle Grande mela suona, invece, un garage ruvido e melodico, dove ciò che fa inasprire le veloci chitarre rende soave la voce. C’è chi ci rivede i Jesus and Mary Chain (nume tutelare un po’ di tutte le band) e chi i Pixies. Da New York, anche i bravi Crystal Stilts, fra dark-wave e post-punk. Da Atlanta, Georgia, arrivano i Deerhunter, capitanati dallo scheletrico Bradford Cox, già icona indie. Escono per la Kranky di Chicago, tempio di un certo post-rock ambient, ma dello sperimentalismo elettronico, caro alla casa madre, hanno attinto solo agli inizi, poi hanno preferito aguzzare lo guardo verso i piedi.

I Times New Viking provengono dall’Ohio, Columbus per la precisione. Come i Psychedelic Horseshit. Ecco perché, il profondo Midwest viene considerata la patria dello shitgaze. Di cui i Viking sono i naturali rappresentanti: la loro passione è ricoprire con distorsioni e ritmi ossessivi alla Fall trascinanti melodie pop. Verso sud, a San Diego troviamo un altro polo della scena: tre le band proposte, una è il fenomeno del momento. Partiamo dagli Abe Vigoda, che fin dal nome (quello dell’attore caratterista americano che interpretò Tessio ne Il Padrino) puntano sull’ironia; sono quattro giovanissimi ragazzi ispanici, che fanno – a loro detta - «tropical punk». Definizione che lascia il tempo che trova, meglio ascoltarli. Skeleton è un album pieno di sorprese: riprendono la lezione dei concittadini Trumans Water e l’adattano alle cadenze, mai banali, degli Animal Collective. Poi, ci sono i Crocodiles i più «inglesi» fra tutti (non solo per il nome rubato a un disco di Echo & the Bunnymen), appena usciti con Summer Hate e un brano, I Wanna Kill, che ha tutti i crismi del singolo a effetto. Incidono per Fat Possum, stessa etichetta di Wavves, il progetto semi-solista di Nathan Williams, vera piccola stella dello shitgaze, isterie incluse. Oltre, ovviamente, a forti dosi di talento, ben compresse nell’omonimo album che sembra, sedici anni dopo, la giusta continuazione di Westing (By Musket & Sextant) dei Pavement o di qualche cassettina di Daniel Johnston.

A completare la mappa, senza più logiche geografiche: i folli Eat Skull dall’Oregon che scavano, oltre i loro stessi feedback, alla ricerca di una forma canzone più classica. I Titus Andronicus, dal New Jersey, in beffa a un nome shakespearianamente tragico, sono un caldo abbraccio nichilistico (No future...) e caciarone di trascinante e slabrato folk-punk: come se i Neutral Milk Hotel rifacessero Never Mind the Bollocks. I Women arrivano, infine, da Calgary (Canada), il loro esordio è stato registrato da Chad VanGaalen in posti davvero strani, vicino alla stazione o sulla riva di un fiume. Il risultato è un album composito e multiforme: la versatilità è un tratto che li distingue dagli altri. Potremmo chiamarli avant-pop o alt-rock: pescano dai sixties (Beatles e Syd Barrett) come dal white-noise dei Sonic Youth o, ancora, dal raffinato post-rock dei Joan of Arc. Fino al caos rumoristico dei contemporanei Black Dice, per poi tornare alla melodia. Così, già oltre il confine del Montana, fuori frontiera (come se la musica ne avesse), la mappa finisce: la scena è vasta e al momento prolifica. Non tutto si salva, di noiser di maniera è pieno il mondo. Anche a «rimasticare» ci vuol stoffa. Ma, al bando gli snobbismi, la scena indie rock è viva. E si fa sentire. Perché senza dolci rumori non si può campare.