sabato 31 gennaio 2009

Orizzonte Obama

TORINO - «Quella là è la Casa Bianca» dice Dario del Gabrio, indicandomi una scala di via Revello. Che strano, un’area di una palazzina occupata che si chiama come la residenza del presidente americano? Vai a vedere che i brutti e cattivi dei centri sociali si sono imborghesiti. Risposta errata. «L’hanno chiamata loro così». E il loro, sta per i ragazzi etiopi ed eritrei, che vivono in un’ala dell’ex clinica San Paolo, uno stabile occupato lo scorso ottobre da oltre duecento rifugiati politici o per motivi umanitari. Tutti scappati dalle guerre civili del Corno d’Africa. Quella parte dell’edificio l’hanno «intitolata» ad Obama. Non casualmente. E basta vedere i loro occhi che brillano, quando gli parli del nuovo inquilino dello Studio Ovale, per capirlo.

«Crediamo tantissimo in lui» racconta Melaku, 26 anni e tante treccine in testa. Martedì sera, quella degli scontri con la polizia in piazza Castello, lui c’era: «Manifestavamo per i nostri diritti: una casa, un lavoro, una residenza. Non possiamo più sopportare che ci vengano negati e sabato lo faremo di nuovo sentire». Oggi pomeriggio ci sarà, infatti, un presidio del Comitato di solidarietà davanti alla Prefettura contro il pacchetto sicurezza e le «leggi razziste» del governo. Melaku parla di una lotta per la libertà: «In Etiopia avevo studiato all’università, poi nel 2006 sono scappato. Ho fatto 20 giorni di deserto e mare, ho speso 6 mila dollari per venire in Italia. Per cosa? Per rischiare ogni volta uno sgombero?». E magari di essere malmenati da un agente, come è successo qualche sera fa.

C’è un senso di precarietà e disillusione che si propaga tra le stanze della palazzina. Molti vorrebbero andare via dall’Italia: alcuni per tornare in patria, tanti invece per andare altrove, in Svezia o in Inghilterra. Gemale, arriva dall’Eritrea, è seduto sul suo letto, racconta che segue dai media le lotte che stanno nascendo; ha parenti a Lampedusa con cui si sente regolarmente. Nella sua piccola camera arriva un amico: «Noi siamo legati a questo dito – dice, mostrandomi il pollice - perché quando ti prendono le impronte e diventi rifugiato, sei obbligato a rimanere in quel paese».

La rabbia e il dolore sembrano essere esplosi tutto d’un tratto: da Lampedusa a Massa, fino a Torino. Se ci sia «una regia» è difficile dirlo: un movimento trasversale sicuramente esiste. Non riguarderà tutti - la paura si sente (pure qui) - ma non sono fatti estemporanei. «Perché da una coscienza della sofferenza – spiega Massimiliano Orlandi volontario della San Vincenzo, in prima fila nell’aiuto dei profughi – nasce sempre una coscienza politica». E aggiunge: «A fronte di una richiesta di 30 mila rifugiati, l’Italia offre solo 3 mila posti d’accoglienza: una risposta assai insufficiente da parte del governo».

All’ex clinica San Paolo, c’è chi è sbarcato a Lampedusa o chi arriva da Caltanisetta, Crotone oppure Foggia. Come Daud Hassan Ali, 32 anni somalo, che non sta nella Casa Bianca, bensì nell’ala principale, più fatiscente. Tiene due bimbi per mano e tocca a lui parlare con i giornalisti nella conferenza stampa dopo i fatti di martedì: «Esiste una Convenzione firmata a Ginevra – afferma - che definisce lo status di rifugiato e ne garantisce i diritti, ma in Italia noi non siamo nessuno. Viviamo nella palazzina senza riscaldamento, luce e poco cibo. Siamo scappati dalla guerra per salvare bambini e famiglie e l’altra sera abbiamo capito che l'Italia non è il nostro secondo Paese». L’affermazione è secca e fa star male. Poi, a microfoni spenti, sottolinea: «Qui divento pazzo, preferirei quasi la guerra a questa vita. Abbiamo patito il gelo, non avevamo nemmeno l’acqua per lavarci, e da mesi aspettiamo che il Comune sblocchi la situazione. Niente. E siamo pure stati picchiati dalla polizia». Risponde, inoltre, a chi li accusa di essere strumentalizzati (il sindaco Chiamparino): «Siamo responsabili delle nostre vite, non c’è nessuno che parla per nostro conto». Il riferimento è ai ragazzi dei centri sociali Askatasuna e Gabrio: fanno parte del Comitato di solidarietà con i rifugiati e le rifugiate, che - insieme a quasi 30 associazioni di diversa provenienza (laiche o cattoliche) – sta aiutando gli occupati dell’ex clinica. Il Comitato nasce nel 2006, quando 40 profughi del Darfour si accamparono sotto Palazzo di Città; l’anno successivo ci fu l’occupazione di via Bologna e il 12 ottobre scorso l’ultima nell’ex clinica di corso Peschiera, angolo via Revello. All’inizio erano un centinaio: sudanesi, etiopi, eritrei e in particolare somali. «Molti – racconta Dario - li incontrammo lo scorso giugno durante la Giornata mondiale del rifugiato, non sopportavano più le condizioni in cui vivevano. E la decisione di occupare è partita da loro». Le condizioni dello stabile, abbandonato e di proprietà di un privato (che sollecita lo sgombero), erano pessime: sanitari distrutti e cavi elettrici spariti. Ora, che i migranti sono addirittura 250, con donne e bambini, la situazione, seppur molto critica, è un po’ migliorata: almeno possono farsi una doccia e grazie al “gruppo sanità” hanno ottenuto un’assistenza sanitaria. Ma non basta per una vita civile. Don Ciotti – il gruppo Abele è una delle associazioni che offre assistenza – poco tempo fa invitava, proprio riferendosi al caso torinese, a mettersi nei panni di «una madre con un bambino di tre mesi che vive senza riscaldamento, senza letti, in 200 persone con due bagni».

Martedì sera è salita la tensione. Già aleggiavano voci di sgomberi e l’incontro nel pomeriggio in Comune, tra associazioni e assessori (che lamentano i pochi fondi da Roma), non è andato a buon fine. Inadeguata la proposta tampone delle istituzioni, rivolta solo a 80-90 persone d’accogliere in un centro della Croce rossa a Settimo. Da lì, è partita la protesta dell’ala più radicale verso la Prefettura. Il resto è cronaca: cariche della polizia, feriti da ambo le parti e 11 denunciati tra i manifestanti. Sulle polemiche politiche meglio tralasciare. Bisogna, comunque, sottolineare che non solo i centri sociali non hanno condiviso la proposta del Comune, ma anche le associazioni, che hanno poi avanzato l’idea di un tavolo di coprogettazione.

Quando raggiungiamo al telefono Massimiliano Orlandi sta portando cibo e bevande dentro lo stabile, parla a nome delle associazioni: «Saremo dei sognatori, ma ci battiamo perché si trovi una soluzione di dignità, d’accoglienza vera e di inserimento sociale, per i rifugiati che stanno soffrendo da mesi. Non vogliamo lo sgombero. Chiediamo, invece, che gli enti locali gli conferiscano la residenza, necessaria per poter trovare un’occupazione». Sarebbe un passo verso i diritti. E nella ex clinica, fuori o dentro la Casa Bianca, c’è chi si dice – in caso di sgombero - disposto «a perdere la vita» per difendere il proprio diritto, non solo a resistere, ma ad esistere.

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Da il manifesto del 31 gennaio

venerdì 23 gennaio 2009

«A 20 metri dalla linea cinque non c'era nessun rischio»

TORINO - Non vogliono i sindacati, Medicina democratica, Provincia e Comune di Torino come parte civile al processo Thyssen. E non vogliono quasi tutti gli operai, almeno 90 sui 103 totali che avevano effettuato la richiesta. Nella seconda udienza del processo Thyssen, in Corte d'Assise a Torino, gli avvocati della multinazionale tedesca sono partiti all’attacco.

Ritengono che gli enti locali, la Fiom e pure la Fim e la Uilm, non siano legittimati a presentarsi come parti civili, perché quella notte «non ci furono violazioni di interessi collettivi». Per quanto riguarda i lavoratori, nemmeno loro perché 67 firmarono il verbale di conciliazione con l'azienda e gli altri – una ventina - perché «non esposti a rischio». Quest’ultima è la vera novità della strategia difensiva, che per il resto non fa altro che riproporre argomenti già bocciati dal Gup. «Chi si trovava a 20 metri dalla linea 5 non era a rischio»: ecco il nuovo criterio della difesa. «E’ un attacco al processo - ribatte Sergio Bonetto, avvocato di parte civile per i lavoratori – non si può chiedere alla Corte che certifichi, prima ancora di sentire i testimoni e aprire i fascicoli, l’inesistenza del rischio. Tutti gli operai sono stati esposti direttamente al pericolo a causa dell'omissione di cautele antinfortunistiche». Contro la richiesta dei legali Thyssen si sono espressi i pubblici ministeri e gli avvocati di tutte le parti civili. Tocca ora al presidente della Corte, Maria Iannibelli, pronunciarsi sulla questione, entro il 4 febbraio, data a cui è stata aggiornata l’udienza.
La seduta di ieri, molto tecnica, è durata cinque ore. In aula, c’erano i parenti delle vittime, ma nessuno dei sei imputati, nemmeno i due manager italiani (Salerno e Cafueri) che avevano presenziato alla prima udienza. Ezio Audisio, difensore dell'amministratore delegato Harald Espenhahn (accusato di omicidio con dolo eventuale), si è speso in un’articolata arringa, insistendo sull’esclusione dal processo degli operai che avevano trovato un accordo con l’azienda per la buonuscita, rinunciando a risarcimenti per eventuali cause future. «L’accordo, tra l’altro sindacale, – sottolinea Bonetto – non era con gli imputati, ma con la società ed è precedente all’incidente, quindi non c’entra con la costituzione di parte civile».

Anche gli enti pubblici ammessi dal Gup si sono trovati di nuovo sotto attacco: Comune e Provincia, non la Regione che intervenne per bonificare la zona. L’avvocato Alberto Mittone, che ha curato la richiesta della Provincia, precisa: «Per suo statuto è un ente che si occupa d’ambiente, lavoro e territorio, quindi tematiche perfettamente attinenti ai reati contestati per la strage».
Durante l’ultima udienza si è resa più chiara la linea difensiva della Thyssen, che mira a estromettere i lavoratori dal processo (salvo una decina) e a focalizzare l’indagine solo sulla linea 5. Al termine, il procuratore aggiunto Guariniello, che ha coordinato l'inchiesta, ha espresso il suo disappunto perché in aula i tempi si stanno allungando e non si finirà – come sperava – entro il prossimo Natale.

Processo Thyssen, seconda udienza
Da il manifesto del 23 gennaio

sabato 17 gennaio 2009

Playlist 2008

La si attende tutto l’anno. E quando arriva il momento, se vuoi dare scientificità al cazzeggio ti spremi le meningi. Superata una certa età, magari dici di non voler fare classifiche numerate. Parli di ordine casuale. Ma quale random? Se ti prende da piccolo, come insegna Alta fedeltà, non ti passa più. Quindi anche quest’anno ho stilato la mia playlist.

In cima, l’orchestralità non barocca dei Fleet Foxes, i tempi dispari dei Volcano! e il rumore che ti fa saltare dei No Age. Poi, Micah p. Hinson, ormai una certezza che però non ama sedersi sugli allori, e la raccolta (un tempo non le avrei messe in classifica) di cover di Adem: belle, davvero. Dopo il quintetto di testa: Angil e le Hiddentracks che frulla indie, jazz e hip hop; il neo-folk di Larkin Grimm (scoperta da Michael Gira); l’elettronica psichedelica dei Fuck Buttons; il disco "pop" dei Wire e quello post-qualcosa dei Pit er Pat. Dietro, ma sempre tra i migliori, il genio di Fennesz e quello di Alexander Tucker. Infine, Dodos, per rappresentare un anno che ha praticato "il balzo della tigre": dalle radici verso il futuro. Perché l'indie-rock sembra si rinnovi rispolverando il passato. Nessuna nostalgia, ma ricerca di nuove forme. Il "modernariato folk", allora, può essere una chiave di lettura del 2008.

Fleet Foxes – s/t
Volcano! - Paperwork
No Age – Nouns

Micah P. Hinson - And The Red Empire Orchestra
Adem – Takes

Angil and the Hiddntracks - Oulipo Saliva
Wire – Object 47
Larkin Grimm - Parplar
Fuck Buttons – Street Horrrsing
Pit er Pat – High Time

Alexander Tucker - Portal
Ralfe Band – Attic Thieves
Dodos – Visiter
Notwist - The Devil, You + Me
Fennesz – Black Sea

Runners: Bonnie “Prince” Billy, Bon Iver, Gregor Samsa, Vampire Weekend, Black Angels, Oxford Collapse, Megafaun.

L'inizio del 2009 è, invece, già segnato dagli Animal Collective (Merriweather Post Pavilion). Ascoltare per credere: Summertime Clothes.

domenica 4 gennaio 2009

Jorn Utzon (1918-2008)

Il padre delle “vele bianche” della Sidney Opera House è morto, a Copenaghen, all’età di novant’anni. Architetto visionario, considerato il massimo rappresentante dell’architettura organica della seconda metà del XX secolo, è stato allievo di Alvar Aalto. Nel 2003 ha ricevuto il premio Pritzker.

Conchiglie, onde o crostacei? No, lui diceva di essersi ispirato alla forma delle nuvole nel disegnare le “vele bianche” della futura Sidney Opera House. Più di cinquant’anni fa, nel 1957, quando vinse il concorso in Australia per quello che nel 2007 è stato dichiarato patrimonio dell’Unesco. Jorn Utzon è morto nella città dov’era nato, Copenaghen, e da cui se n’era andato durante la guerra. Qui con suo papà incominciò a disegnare barche. Nel 1942, appena laureato, decise di trasferirsi nella neutrale Svezia. Poi va in Finlandia, dove lavorerà nello studio di Alvar Aalto che, con Gunnar Asplund e Frank Lloyd Wright, fu uno dei suoi maestri. Nel 1950, tornato in Danimarca, apre uno studio. Ma continua a viaggiare tra Asia, America e Oceania. E così, pressoché sconosciuto in campo internazionale, vince il concorso che gli regala fama mondiale: l’Opera. Un progetto visionario, fuori da ogni comune canone estetico, che suscita entusiasmo ma anche grandi perplessità. Proprio per quella copertura inconsueta, formata da tanti gusci, che per alcuni non sarebbe stata in piedi. Ma presto, Utzon scopre il fulcro della sua creatura: una sfera dal raggio di 75 metri dai quali derivano tutti i singoli gusci della copertura. E le vele prendono il volo: parte la costruzione. Finché nel 1966, per contrasti con i committenti australiani, abbandona il progetto, completato nel 1973 da Peter Halln, David Littlemore e Lionel Todd. Smacco ma non sconfitta, il genio resta suo. E ora tocca ai suoi figli il restauro.