sabato 24 luglio 2010

Mirafiori sedotta e abbandonata


«Traditi» da Marchionne: gli operai di Torino storditi e increduli davanti ai cancelli della fabbrica. Ieri due ore di sciopero per tutto il gruppo. «L'azienda ritiri i licenziamenti»

TORINO - «Valletta? Ai tempi non c'ero. Ma forse, ora, è peggio. Marchionne attacca pure il diritto di sciopero» sbotta Nina Leone, rsu Fiom, prima di superare il cancello delle Carrozzerie per entrare al secondo turno. A Mirafiori il clima è teso. Cupo, preoccupato. È in gioco la sopravvivenza dello stabilimento. Gli operai sono quasi storditi dall'escalation di attacchi aziendali. L'ultimo, quello che la Fiat vorrebbe produrre la L0 in Serbia e non più qui. La vecchia fabbrica sembra un anziano pugile, lento e corpulento, a cui sono stati scaricati ganci e fendenti a tradimento. Uno dopo l'altro. E delle promesse del piano industriale, messe in calce solo tre mesi fa, chi se ne frega. Il nuovo monovolume doveva essere prodotto a Torino. Nei Balcani, però, conviene di più. Trattasi di garanzie variabili: «D'altronde, Marchionne non aveva detto che non avrebbe mai chiuso uno stabilimento in Italia?».

Il vecchio pugile, con tutti i suoi lavoratori, traballa ma sta in piedi. «Difficile portare avanti le lotte in periodi di cassa integrazione» sottolinea Ugo Bolognesi, delegato Fiom. Di cassa ne patiranno tutti, dopo le ferie. Ma la tempra delle tute blu è forte. Nonostante l'incertezza sul futuro, non vogliono cedere. Nel 2003 scesero in strada per salvare la loro fabbrica che sembrava destinata a chiudere. E ieri hanno percorso in corteo le vie limitrofe, durante le due ore di sciopero indette dalla Fiom (in Piemonte come in tutto il gruppo Fiat, da nord a sud, contro i licenziamenti e il mancato premio di risultato). A Mirafiori sono, infatti, usciti dalle Meccaniche e in oltre 800 hanno superato corso Settembrini e raggiunto la Porta 5. Hanno gridato: «Da Torino a Pomigliano ai ricatti non ci pieghiamo». L'amministratore delegato, Sergio Marchionne, è stato il principale bersaglio. «Passerà alla storia come il primo che non ha pagato il premio» ha detto Luisa, 18 anni in Fiat. Premio dimezzato lo scorso anno e azzerato in questo: «Lo scandalo è - ha spiegato Stefano - che la Fiat distribuisca l'utile, frutto dei nostri sacrifici, agli azionisti ma non dia nulla ai lavoratori». L'adesione è stata del 65% a Mirafiori, dell'80% all'Iveco (corteo unitario con 1200 lavoraratori) e del 90% all'Itca di Grugliasco.

Oltre al premio, alla cassa e ai licenziamenti per ritorsione sul tavolo ci sono altri problemi e timori: «Il tentativo di stravolgere le relazioni sindacali dopo Pomigliano e la scelta di andare in Serbia, di abbandonare Torino. E come lo si spiega? Scaricando le responsabilità su altri», afferma Federico Bellono, segretario provinciale della Fiom torinese. «Ogni giorno si aggiunge una notizia non incoraggiante e la fuga a Kragujevac è la novità più destabilizzante. Sarebbe più serio che Marchionne dicesse che se ne va perché conviene. Lo stipendio di un operaio serbo è un terzo di uno italiano».

Rabbia e stupore. «Com'è possibile che tutto quello che era stato detto il giorno della presentazione del piano industriale sia stato rimangiato? É sconcertante» si interroga Edi Lazzi della Quinta lega. Quel 21 aprile è rimasto stampato in testa a molti. «Significa che Marchionne non è una persona seria» dice Bolognesi. «Quando arrivò qui, accompagnato dai finanziamenti istituzionali, si comportò in un certo modo, così in America e pure in Serbia, dove gli fanno ponti d'oro. In Italia, invece, il governo si disinteressa». Infastidiscono poi le motivazioni addotte («colpa dei sindacati»): «Pensano alle loro tasche, non gli importa di noi» dice una signora minuta ai cancelli della porta 2.

Al cambio turno non sono molti quelli che parlano. Per diffidenza o delusione. Ma qualcuno si ferma: «Il clima è pesante, c'è chi fuori non apre bocca per paura, ma all'interno i malumori sono comuni». La popolarità di Marchionne è in picchiata. Il 2005, quando sembrava il «manager premuroso» è lontanissimo: «Non ci ho mai creduto. Ed è tempo che l'opinione pubblica si accorga di chi è veramente» dice Simone che, insieme a Gianfranco, aspetta l'autobus all'ombra, entrambi dei Cobas. Marchionne come Dottor Jekyll e mister Hyde? «No, è solo Hyde». Si riavvolgono le bandiere e le ferie si avvicinano. Dopo ci sarà la cassa, poi l'incertezza. La Musa, l'Idea, la vecchia Punto e la Multipla sono a fine produzione. Rimane la Mito. Ma non basta. Che ne sarà del vecchio pugile?

Da il manifesto del 24 luglio

venerdì 16 luglio 2010

Attenti allo Skidome

Avrà la forma di un millepiedi e ci si potrà sciare anche ad agosto. È il mega impianto al coperto, unico in Italia, che dovrebbe essere realizzato a Casale Monferrato. Costo totale: 30 milioni di euro, 150 persone da impiegare. Ma non tutti si accodano: «Sarà uno scempio territoriale, energetico e ambientale»

CASALE MONFERRATO - Dicono che avrà la forma di un millepiedi e, all'interno, sarà possibile sciare pure ad agosto, quando fuori il caldo soffocante della pianura non darà tregua neppure all'ombra. Si chiama Snowplay e si tratta del primo skidome italiano, un mega impianto al coperto per praticare tutto l'anno lo snowboard, lo slalom e il fondo. È stato presentato pochi giorni fa nella sede della provincia di Alessandria dalla società torinese Sempresci e, se si farà, sorgerà nella campagna intorno a Casale Monferrato, precisamente a Borgo San Martino. In mezzo alle risaie. E così, in un territorio già sofferente, nuovo suolo agricolo verrà mangiato dal cemento. Una struttura alta 60 metri, un tracciato lungo 350 e largo 80 e magari una corona di centri commerciali. Dovrebbe costare 30 milioni di euro, investiti da privati piemontesi che per ora restano ignoti.

Che il progetto non sia una boutade lo testimonia uno sponsor d'eccellenza, la Federazione Sport invernali (Fisi), che si augura l'inizio dei lavori entro un un anno e l'inaugurazione dello skidome nel 2013. Intanto, l'iniziativa pare raccogliere diffusi consensi istituzionali. D'accordo la provincia di Alessandria (centrosinistra), il comune di Casale Monferrato (centrodestra) e quello di Borgo San Martino. Ma non tutti si accodano, le perplessità su impatto e ricadute sono forti. «C'è la crisi - spiegano Valentino Ferraris e Vittorio Giordano di Sinistra casalese - si riducono gli stipendi, si aumenta l'età per andare in pensione, scarseggia l'energia, scarseggia pure l'acqua (soprattutto dalle nostre parti, ricche di risaie) e scarseggia pure il suolo non edificato, causa non ultima delle alluvioni che hanno colpito il bacino del Po negli ultimi decenni. E che cosa si propone? Un "mostro" per andare a sciare, magari con i bambini, anche d'estate».

Sul fronte occupazionale Snowplay prevede 150 dipendenti, senza specificare altro. E su quello turistico, Sempresci confida di attingere a un bacino vasto: «un raggio di 500 chilometri», Francia e Svizzera comprese (osserva, però, Sinistra casalese: «Per mettere gli sci ai piedi e andare in montagna, gli abitanti di Casale e dintorni se la cavano con circa un'ora di tragitto»). A sentirla raccontare la storia di Snowplay, sembra un déjà vu, che ripercorre le tracce di Mediapolis, il parco tematico di 600 mila metri quadrati, che da dieci anni si vorrebbe costruire davanti al castello di Masino (bene del Fai), vicino a Ivrea. Anche in quella storia i numeri sono volati fin dall'inizio: prima 148 occupati, poi, si disse 1.200; un milione di turisti, anzi dieci milioni. Il tutto presentato dai privati (ancor prima che dalle amministrazioni pubbliche) come occasione irripetibile per la riscossa di un territorio in crisi. «Il solito "ricatto" per cui a fronte di uno scempio territoriale, energetico e ambientale corrisponderebbe un aumento di posti di lavoro va respinto al mittente - sbotta Alberto Deambrogio, casalese, Rifondazione comunista - Il lavoro è tema troppo serio per trovare soluzioni come lo "skidome". Perché, invece di arrampicarsi sugli specchi di prometeici e assurdi impianti, a Casale non si torna a discutere di possibile riconversione dell'industria del freddo?». I progettisti cercano, però, di stemperare le polemiche. Durante la presentazione del progetto, l'architetto Ezio Ruffino aveva garantito «il più ampio utilizzo possibile di tecnologie a bassissimo o nullo impatto ambientale». Pannelli fotovoltaici copriranno il «tunnel», sviluppando una potenza di 2,5 megawatt.

Ma se si va a ritroso nella memoria amministrativa, solo un anno fa, un progetto analogo era stato bocciato a Vinovo, nel torinese, da Provincia e Regione. «Una delle ragioni - incalza Deambrogio - era la dubbia sostenibilità del bilancio energetico ambientale». In Regione, Eleonora Artesio, consigliere Prc, ha appena presentato un'interpellanza in cui domanda alla giunta guidata dal leghista Roberto Cota se non sia il caso di «una valutazione ambientale strategica per approfondire l'impatto complessivo dell'opera».

Come andrà allora a finire? Se lo chiedono Ferraris e Giordano di Sinistra casalese: «Chissà se l'investimento invece che di natura industriale sia esclusivamente di tipo finanziario? E che si fa in genere delle ingombranti strutture, sedi di attività presto fallite o mai iniziate?». Provano a dare una risposta: «Si abbandonano i loro cadaveri all'obbrobrio paesaggistico e, alla fine, ai conti della collettività. Oppure, dal momento che ormai ci sono e in qualche modo devono essere utilizzati, si trasformano in un bel centro commerciale».

Da il manifesto del 16 luglio

domenica 11 luglio 2010

Isola Libera


Antimafia da sud verso nord. La mente è in Piemonte, il cuore in Calabria. A Volvera (Torino) il raduno nazionale dei giovani di Libera. Tra incontri sulla legalità e voglia di «fare movimento» e combattere la mafia. E a Isola Capo Rizzuto, dove la cooperativa che gestisce i campi confiscati, è nel mirino delle cosche

VOLVERA - Fa caldo, come ogni luglio. E nemmeno il verde della campagna allenta la morsa. A Volvera, fuori Torino, in una cascina che ora ha un nome simpatico, Arzilla, ma un tempo non lontano era un bene mafioso, proprietà del narcotrafficante 'ndranghetista Vincenzo Riggio, ci sono 150 giovani. Provengono da tutta Italia, parlano, discutono, si interrogano, recitano, fanno chiasso. Ma quando superi il cancello ed entri - è mattino e l'afa si appiccica alla pelle - senti solo i tuoi passi. Di te, che cammini sulla ghiaia. I ragazzi sono in giardino, sparsi, qualcuno sta nel campo vicino. Le biciclette, concesse dal Comune per raggiungere la cascina, stanno ferme. Loro scrivono una lettera immaginaria a Rita Atria, una ragazza che voleva giustizia e che a 17 anni, una settimana dopo la bomba di via d'Amelio, si uccise a Roma, gettandosi dal settimo piano. Figlia di un boss mafioso di Partanna era diventata una testimone di giustizia trovando in Paolo Borsellino una specie di padre.

Il silenzio certe volte ci vuole: «Le cose, anche una lettera, si devono fare bene» dice subito Francesca, diciottenne torinese dalle idee chiare e dalla grande passione per il teatro (fa parte della compagnia Tromba del Trambusto): appena finito l'orale alla maturità è corsa qui, al raduno nazionale dei giovani di Libera, il primo della storia dell'associazione fondata da don Luigi Ciotti, 15 anni fa.

Quelle lettere i ragazzi le porteranno, il 26 luglio, a Milazzo e le consegneranno a Piera Aiello (cognata di Rita e testimone di giustizia), dopo un viaggio per l'Italia che farà tappa nei beni confiscati. Volvera è un momento importante di riflessione e di scambio. Sette giorni, dal 4 al 10 luglio, di incontri, formazione, seminari, musica e teatro. E' un punto di partenza: «Sono venuti ragazzi da 18 regioni, dai 15 ai 33 anni, - spiega Davide Mattiello, una delle figure di spicco di Libera, nonché uno degli organizzatori dell'evento - fanno parte di presidi o coordinamenti, fanno, quindi, militanza attiva, movimento. E, da qui, nascerà l'azione che andrà avanti tutto l'anno». Quelli del raduno sono giovani che si indignano e si impegnano. Parlano di arte e di scudo fiscale, di informazione e di agricoltura, anche della raccolta delle melanzane nei terreni che erano mafiosi. La situazione del Paese ce l'hanno davanti, stampata. Ma non sono disillusi e lo vedi dai loro occhi. Ci credono: «Per sconfiggerli dobbiamo creare un'alternativa», dice Giulia, 21 anni di Trieste, studentessa di giurisprudenza e membro del presidio di Libera, intitolato a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Per sconfiggere chi? Un sistema di potere e culturale. L'obiettivo è ribaltare un paradigma: «Quello del "cazzo guardi", non ti dico solo fatti i fatti tuoi, ma ti intimidisco». Mattiello lo dice così, secco. «Mi chiamano a parlare nelle scuole e noto che spesso viene considerato bullismo un atteggiamento protomafioso. E in un mondo dove chi non si fa i fatti suoi è uno sbirro o un infame, si distinguono i pochi che si assumono la responsabilità di fare nomi e cognomi. Di testimoniare. In un sistema con in testa Berlusconi, Dell'Utri e con la legge bavaglio come manifesto, la lotta per il cambiamento diventa la priorità».

La testimonianza è il nodo di tutto il raduno. «È impegno, resistenza» ha detto il procuratore Gian Carlo Caselli, che è passato di qui. Insieme ad altri: testimoni di giustizia, come Pino Masciari e Vincenzo Conticello, due che si sono ribellati al racket mafioso; giornalisti, come Roberto Morrione, Pino Maniaci di Telejato; politici, come Nando Dalla Chiesa. E al termine delle giornate c'è stato spazio per il teatro, il Festival Orme, dedicato, appunto, alla testimonianza e all'impegno civile, con lo spettacolo, per esempio, Un uomo vestito di Bianco dedicato a Mauro Rostagno (giornalista ucciso dalla mafia nel 1988).

Nella cittadella di Volvera il silenzio è svanito. Incontri facce di giovani, che raccontano esperienze e aspettative. Siamo qui «per fare movimento», dice qualcuno, «per mettere in circolo idee nuove e agire», per «essere protagonisti». Francesco arriva da Borgosesia, 18 anni, da 4 iscritto a Libera, è qui dal primo luglio per sistemare la Cascina: «Il raduno deve servire a fare rete, a unire». Francesca, la «militante di teatro», aggiunge: «Da Libera non deve partire una rivoluzione d'élite, ma che coinvolga tutti. La nostra bibbia è la Costituzione». Giuseppe di chilometri se n'è fatti parecchi: ha 17 anni ed è di Polistena (Reggio Calabria), vicino a Rosarno. Terra difficile e lo sa (la 'ndrangheta è l'organizzazione più militarizzata e ricca): «Partecipo - spiega Giuseppe - a una cooperativa che lavora sui terreni confiscati a Piromalli e Mammoliti, coltiviamo melanzane, peperoncino, olive. E sono qui per continuare a fare antimafia». La lotta alla mafia, diceva qualcuno, che è cosa da professionisti: «Noi - ha ribattuto Nando Dalla Chiesa, presidente onorario di Libera - la intendiamo come lotta di popolo e i giovani ne sono i protagonisti, sono l'anima».

Mentre alla Cascina Arzilla le attività scorrono, anche quelle di progettazione di nuove campagne, l'area media al centro del cortile della cascina segue passo passo ogni evento. Sono giovani anche loro: Cosimo, Davide e altri. Fabbricano un telegiornale che va in onda la sera ed è visibile sul sito (www.libera.it), sentono i ragazzi, fanno domande agli ospiti, confezionano i servizi. I giovani di Libera sono uno spaccato che si guarda intorno: alle lotte contro la mafia al sud come al nord («non c'è territorio che può dirsi esente, perché ha capacità storica di infiltrarsi» ha detto qualche giorno prima Luigi Ciotti), a quelle degli operai di Pomigliano, a difesa della Costituzione e contro la «legge bavaglio».

Davide Mattiello, 38 anni, occhi chiari e pizzetto grigio e un gran numero di orecchini, cammina e parla, senza una virgola scontata. È un trascinatore. E mentre lo fa percorre i sentieri della Cascina Arzilla (dedicata, oltre che a Rita Atria, ad Antonio Landieri, ragazzo di Scampia, ucciso dalla camorra). Qui, il mafioso Riggio voleva farci un complesso edilizio, gli è stato impedito e il bene è stato sequestrato nel 1993. Ora dopo la confisca è gestito dall'associazione Acmos (collegata a Libera); sono serviti sei anni di lavoro per far rinascere un rudere, con l'obiettivo di restituirlo alla popolazione. «Dove c'è il tendone - indica Davide - ci sarà l'orto didattico per i bambini delle scuole». Poi, parla di alternativa: «Esistono segnali di reazione, tanti, ma ancora insufficienti. E se ci penso, a cosa è servito tutto quello che abbiamo fatto? Come può essere efficace un'azione per capovolgere un sistema? Manca l'unità. Il raduno ha un ambizione culturale, rieducare a una sana disciplina di movimento. C'è il tempo per discutere e scontrarsi, poi bisogna essere parte di un "noi". La democrazia è la scienza della decisione collettiva non solo della partecipazione. E come diceva Marx, si cresce nella dialettica, con ruoli precisi. Non il papà amico del figlio, se no dov'è il conflitto? Ne siamo disabituati». Il sole scotta, il riparo è un albero. Mattiello ci pensa un attimo: «Fortunatamente l'abbiamo rivisto, quello degli operai di Pomigliano. E noi, come Libera, ne abbiamo uno in corso a Isola Caporizzuto, cento ettari di terra confiscati agli Arena (famiglia talmente potente da riuscire a imporre la candidatura del senatore Di Girolamo). La 'ndrina non ci sta, incendia le macchine a consiglieri comunali. È una sfida difficile, ancora di più mancando il lavoro. Ma le venti persone della nostra cooperativa possono contagiarne molte di più».

Infine, si ritorna sullo stato delle cose, sull'Italia più in generale. «È demoralizzante. Gli anni Ottanta ci hanno rovinati. Dopo la spinta antifascista c'è stato un tutti a casa. Ero adolescente e Drive In è stato lo spartiacque culturale, con Silvio Berlusconi il nostro grande educatore. Non ci accorgevamo di quello che capitava, che c'erano stati da poco l'omicidio Aldo Moro e quello di Piersanti Mattarella. Ma siamo così, un Paese clericofascista, che quando può involvere, involve». Ma non tutto è perso, anzi: «Siamo qui per costruire un'alternativa, per capire come diventare potere e cambiare il sistema. Non mi vergogno di dirlo, non sono un'antagonista, credo nella Costituzione». Fa una pausa: «È il 7 luglio, l'hai mai vista una scena così?». Guarda i suoi ragazzi: «Perché non possiamo diventare noi la storia del Paese?».

Da il manifesto dell'11 luglio