mercoledì 1 dicembre 2010

L'amianto che uccide
A Milano continua la lotta per le “White”


Scende la prima neve a Milano quando lasciamo la casa di Elena, zona Famagosta, a sud della città. Lasciamo lei, i suoi figli, il suo compagno, gatti e cane. I racconti no, non li lasciamo, così come le lotte, ce le porteremo dietro a lungo, facendone tesoro. Scende la prima neve in questo freddo e povero 2010, neve bianca, come il colore di quell'incubo in cui Elena Ferrarese e la sua famiglia hanno vissuto dal 1984. Le White, le chiamavano. Le case bianche, "anche se dentro non c'era nessun presidente...". Bianche di amianto, con tutti quei pannelli a ricoprirne la superficie. Solo il tetto, al contrario di molti altri casi, non conteneva la sostanza killer.

"Quando ci hanno detto che quella diventava la nostra casa, avrebbe dovuto trattarsi di una situazione provvisoria, una sorta di casa parcheggio, per tre o quattro anni", racconta Elena. "Invece siamo stati lì fino a pochi mesi fa. La mia è stata l'ultima famiglia a uscirne, a luglio di quest'anno. Negli ultimi tempi era diventato qualcosa di invivibile: perdite d'acqua, allagamenti, crolli, topi... topi enormi".

Era il 1984 quando il Comune di Milano assegna quegli appartamenti di edilizia popolare, in via Feltrinelli 16, zona Rogoredo, a famiglie provenienti da case di piazzale Dateo e corso Lodi, oppure da sfratti esecutivi in varie zone della città. Ma ben presto gli abitanti si rendono conto della pericolosità della loro "gabbia bianca" e di quei pannelli, che in tutto all'interno contengono 3 tonnellate di amianto. "La prima volta che abbiamo visto quella casa, bianchissima, non sapevamo cosa pensare. Ci sembrava un ospedale o, meglio, un manicomio. Oppure un carcere...". Strano credere che nel 1984, quando il pericolo dell'amianto era già noto da tempo - e solo due anni prima della chiusura dell'Eternit in Italia - si potesse costruire una casa ricoprendola interamente di questa sostanza assassina.

Gli inquilini se ne sono resi presto conto. Nel 1986 hanno fondato un comitato per seguire il problema amianto. Quindi sono arrivate le prime morti, tante, troppe. Come quella di Giammarco, che se n'è andato nel 2003, a soli 26 anni, a causa di tre tumori che gli hanno consumato la vita. Una vita che l'ha abbandonato proprio nel giorno del compleanno della sua mamma. E poi gli impegni per la bonifica, mai rispettati. Doveva partire anni fa, l'ultima promessa era per l'estate del 2009, ma in realtà la casa è ancora lì, svuotata definitivamente dalle famiglie nel luglio scorso. E ora, che quei pannelli ormai grigi sono vuoti e silenziosi da quattro mesi, ancora nessun lavoro è iniziato. Qui in visita erano venute pure il sindaco Moratti e il ministro Prestigiacomo, seguite da grandi scorte. Tante promesse, ma nulla è stato fatto.

Quelle 152 famiglie, con i loro morti e le loro malattie, non hanno mai smesso di battersi. Perché la vita là dentro non era semplice, anzi, pericolosa, per via di questo spettro che ogni giorno le accompagnava. Eppure si era creata un'unione, una corrispondenza di intenti, una combattività difficile da smontare, anche se oggi quelle famiglie sono state divise, riassegnate in case sparse per la città. "Qui, nel complesso dove viviamo noi, avrebbero potuto metterci in molti", ci fa notare Elena, "ci sono un sacco di appartamenti vuoti, che non vengono assegnati".

Oggi c'è ancora molto da fare. C'è la lotta da portare avanti, c'è la via processuale difficile da intraprendere, c'è l'idea di ritrovarsi con altri comitati, altre situazioni simili e altrettanto dolorose, c'è la voglia di non mollare, anche se le forze a volte iniziano a mancare. Ci sono le malattie da sconfiggere e la paura per i figli. Il grido una madre che piange di terrore ogni volta che il suo ragazzo sente anche solo un lieve mal di testa. Ma Elena e la sua famiglia ci hanno insegnato molto. Ci hanno insegnato che, anche se la vita pubblica, e soprattutto chi la amministra, a volte sembra prenderti in giro, si può comunque guardare avanti, senza arrendersi.

Ilaria Leccardi
da Polvere sottile

sabato 24 luglio 2010

Mirafiori sedotta e abbandonata


«Traditi» da Marchionne: gli operai di Torino storditi e increduli davanti ai cancelli della fabbrica. Ieri due ore di sciopero per tutto il gruppo. «L'azienda ritiri i licenziamenti»

TORINO - «Valletta? Ai tempi non c'ero. Ma forse, ora, è peggio. Marchionne attacca pure il diritto di sciopero» sbotta Nina Leone, rsu Fiom, prima di superare il cancello delle Carrozzerie per entrare al secondo turno. A Mirafiori il clima è teso. Cupo, preoccupato. È in gioco la sopravvivenza dello stabilimento. Gli operai sono quasi storditi dall'escalation di attacchi aziendali. L'ultimo, quello che la Fiat vorrebbe produrre la L0 in Serbia e non più qui. La vecchia fabbrica sembra un anziano pugile, lento e corpulento, a cui sono stati scaricati ganci e fendenti a tradimento. Uno dopo l'altro. E delle promesse del piano industriale, messe in calce solo tre mesi fa, chi se ne frega. Il nuovo monovolume doveva essere prodotto a Torino. Nei Balcani, però, conviene di più. Trattasi di garanzie variabili: «D'altronde, Marchionne non aveva detto che non avrebbe mai chiuso uno stabilimento in Italia?».

Il vecchio pugile, con tutti i suoi lavoratori, traballa ma sta in piedi. «Difficile portare avanti le lotte in periodi di cassa integrazione» sottolinea Ugo Bolognesi, delegato Fiom. Di cassa ne patiranno tutti, dopo le ferie. Ma la tempra delle tute blu è forte. Nonostante l'incertezza sul futuro, non vogliono cedere. Nel 2003 scesero in strada per salvare la loro fabbrica che sembrava destinata a chiudere. E ieri hanno percorso in corteo le vie limitrofe, durante le due ore di sciopero indette dalla Fiom (in Piemonte come in tutto il gruppo Fiat, da nord a sud, contro i licenziamenti e il mancato premio di risultato). A Mirafiori sono, infatti, usciti dalle Meccaniche e in oltre 800 hanno superato corso Settembrini e raggiunto la Porta 5. Hanno gridato: «Da Torino a Pomigliano ai ricatti non ci pieghiamo». L'amministratore delegato, Sergio Marchionne, è stato il principale bersaglio. «Passerà alla storia come il primo che non ha pagato il premio» ha detto Luisa, 18 anni in Fiat. Premio dimezzato lo scorso anno e azzerato in questo: «Lo scandalo è - ha spiegato Stefano - che la Fiat distribuisca l'utile, frutto dei nostri sacrifici, agli azionisti ma non dia nulla ai lavoratori». L'adesione è stata del 65% a Mirafiori, dell'80% all'Iveco (corteo unitario con 1200 lavoraratori) e del 90% all'Itca di Grugliasco.

Oltre al premio, alla cassa e ai licenziamenti per ritorsione sul tavolo ci sono altri problemi e timori: «Il tentativo di stravolgere le relazioni sindacali dopo Pomigliano e la scelta di andare in Serbia, di abbandonare Torino. E come lo si spiega? Scaricando le responsabilità su altri», afferma Federico Bellono, segretario provinciale della Fiom torinese. «Ogni giorno si aggiunge una notizia non incoraggiante e la fuga a Kragujevac è la novità più destabilizzante. Sarebbe più serio che Marchionne dicesse che se ne va perché conviene. Lo stipendio di un operaio serbo è un terzo di uno italiano».

Rabbia e stupore. «Com'è possibile che tutto quello che era stato detto il giorno della presentazione del piano industriale sia stato rimangiato? É sconcertante» si interroga Edi Lazzi della Quinta lega. Quel 21 aprile è rimasto stampato in testa a molti. «Significa che Marchionne non è una persona seria» dice Bolognesi. «Quando arrivò qui, accompagnato dai finanziamenti istituzionali, si comportò in un certo modo, così in America e pure in Serbia, dove gli fanno ponti d'oro. In Italia, invece, il governo si disinteressa». Infastidiscono poi le motivazioni addotte («colpa dei sindacati»): «Pensano alle loro tasche, non gli importa di noi» dice una signora minuta ai cancelli della porta 2.

Al cambio turno non sono molti quelli che parlano. Per diffidenza o delusione. Ma qualcuno si ferma: «Il clima è pesante, c'è chi fuori non apre bocca per paura, ma all'interno i malumori sono comuni». La popolarità di Marchionne è in picchiata. Il 2005, quando sembrava il «manager premuroso» è lontanissimo: «Non ci ho mai creduto. Ed è tempo che l'opinione pubblica si accorga di chi è veramente» dice Simone che, insieme a Gianfranco, aspetta l'autobus all'ombra, entrambi dei Cobas. Marchionne come Dottor Jekyll e mister Hyde? «No, è solo Hyde». Si riavvolgono le bandiere e le ferie si avvicinano. Dopo ci sarà la cassa, poi l'incertezza. La Musa, l'Idea, la vecchia Punto e la Multipla sono a fine produzione. Rimane la Mito. Ma non basta. Che ne sarà del vecchio pugile?

Da il manifesto del 24 luglio

venerdì 16 luglio 2010

Attenti allo Skidome

Avrà la forma di un millepiedi e ci si potrà sciare anche ad agosto. È il mega impianto al coperto, unico in Italia, che dovrebbe essere realizzato a Casale Monferrato. Costo totale: 30 milioni di euro, 150 persone da impiegare. Ma non tutti si accodano: «Sarà uno scempio territoriale, energetico e ambientale»

CASALE MONFERRATO - Dicono che avrà la forma di un millepiedi e, all'interno, sarà possibile sciare pure ad agosto, quando fuori il caldo soffocante della pianura non darà tregua neppure all'ombra. Si chiama Snowplay e si tratta del primo skidome italiano, un mega impianto al coperto per praticare tutto l'anno lo snowboard, lo slalom e il fondo. È stato presentato pochi giorni fa nella sede della provincia di Alessandria dalla società torinese Sempresci e, se si farà, sorgerà nella campagna intorno a Casale Monferrato, precisamente a Borgo San Martino. In mezzo alle risaie. E così, in un territorio già sofferente, nuovo suolo agricolo verrà mangiato dal cemento. Una struttura alta 60 metri, un tracciato lungo 350 e largo 80 e magari una corona di centri commerciali. Dovrebbe costare 30 milioni di euro, investiti da privati piemontesi che per ora restano ignoti.

Che il progetto non sia una boutade lo testimonia uno sponsor d'eccellenza, la Federazione Sport invernali (Fisi), che si augura l'inizio dei lavori entro un un anno e l'inaugurazione dello skidome nel 2013. Intanto, l'iniziativa pare raccogliere diffusi consensi istituzionali. D'accordo la provincia di Alessandria (centrosinistra), il comune di Casale Monferrato (centrodestra) e quello di Borgo San Martino. Ma non tutti si accodano, le perplessità su impatto e ricadute sono forti. «C'è la crisi - spiegano Valentino Ferraris e Vittorio Giordano di Sinistra casalese - si riducono gli stipendi, si aumenta l'età per andare in pensione, scarseggia l'energia, scarseggia pure l'acqua (soprattutto dalle nostre parti, ricche di risaie) e scarseggia pure il suolo non edificato, causa non ultima delle alluvioni che hanno colpito il bacino del Po negli ultimi decenni. E che cosa si propone? Un "mostro" per andare a sciare, magari con i bambini, anche d'estate».

Sul fronte occupazionale Snowplay prevede 150 dipendenti, senza specificare altro. E su quello turistico, Sempresci confida di attingere a un bacino vasto: «un raggio di 500 chilometri», Francia e Svizzera comprese (osserva, però, Sinistra casalese: «Per mettere gli sci ai piedi e andare in montagna, gli abitanti di Casale e dintorni se la cavano con circa un'ora di tragitto»). A sentirla raccontare la storia di Snowplay, sembra un déjà vu, che ripercorre le tracce di Mediapolis, il parco tematico di 600 mila metri quadrati, che da dieci anni si vorrebbe costruire davanti al castello di Masino (bene del Fai), vicino a Ivrea. Anche in quella storia i numeri sono volati fin dall'inizio: prima 148 occupati, poi, si disse 1.200; un milione di turisti, anzi dieci milioni. Il tutto presentato dai privati (ancor prima che dalle amministrazioni pubbliche) come occasione irripetibile per la riscossa di un territorio in crisi. «Il solito "ricatto" per cui a fronte di uno scempio territoriale, energetico e ambientale corrisponderebbe un aumento di posti di lavoro va respinto al mittente - sbotta Alberto Deambrogio, casalese, Rifondazione comunista - Il lavoro è tema troppo serio per trovare soluzioni come lo "skidome". Perché, invece di arrampicarsi sugli specchi di prometeici e assurdi impianti, a Casale non si torna a discutere di possibile riconversione dell'industria del freddo?». I progettisti cercano, però, di stemperare le polemiche. Durante la presentazione del progetto, l'architetto Ezio Ruffino aveva garantito «il più ampio utilizzo possibile di tecnologie a bassissimo o nullo impatto ambientale». Pannelli fotovoltaici copriranno il «tunnel», sviluppando una potenza di 2,5 megawatt.

Ma se si va a ritroso nella memoria amministrativa, solo un anno fa, un progetto analogo era stato bocciato a Vinovo, nel torinese, da Provincia e Regione. «Una delle ragioni - incalza Deambrogio - era la dubbia sostenibilità del bilancio energetico ambientale». In Regione, Eleonora Artesio, consigliere Prc, ha appena presentato un'interpellanza in cui domanda alla giunta guidata dal leghista Roberto Cota se non sia il caso di «una valutazione ambientale strategica per approfondire l'impatto complessivo dell'opera».

Come andrà allora a finire? Se lo chiedono Ferraris e Giordano di Sinistra casalese: «Chissà se l'investimento invece che di natura industriale sia esclusivamente di tipo finanziario? E che si fa in genere delle ingombranti strutture, sedi di attività presto fallite o mai iniziate?». Provano a dare una risposta: «Si abbandonano i loro cadaveri all'obbrobrio paesaggistico e, alla fine, ai conti della collettività. Oppure, dal momento che ormai ci sono e in qualche modo devono essere utilizzati, si trasformano in un bel centro commerciale».

Da il manifesto del 16 luglio

domenica 11 luglio 2010

Isola Libera


Antimafia da sud verso nord. La mente è in Piemonte, il cuore in Calabria. A Volvera (Torino) il raduno nazionale dei giovani di Libera. Tra incontri sulla legalità e voglia di «fare movimento» e combattere la mafia. E a Isola Capo Rizzuto, dove la cooperativa che gestisce i campi confiscati, è nel mirino delle cosche

VOLVERA - Fa caldo, come ogni luglio. E nemmeno il verde della campagna allenta la morsa. A Volvera, fuori Torino, in una cascina che ora ha un nome simpatico, Arzilla, ma un tempo non lontano era un bene mafioso, proprietà del narcotrafficante 'ndranghetista Vincenzo Riggio, ci sono 150 giovani. Provengono da tutta Italia, parlano, discutono, si interrogano, recitano, fanno chiasso. Ma quando superi il cancello ed entri - è mattino e l'afa si appiccica alla pelle - senti solo i tuoi passi. Di te, che cammini sulla ghiaia. I ragazzi sono in giardino, sparsi, qualcuno sta nel campo vicino. Le biciclette, concesse dal Comune per raggiungere la cascina, stanno ferme. Loro scrivono una lettera immaginaria a Rita Atria, una ragazza che voleva giustizia e che a 17 anni, una settimana dopo la bomba di via d'Amelio, si uccise a Roma, gettandosi dal settimo piano. Figlia di un boss mafioso di Partanna era diventata una testimone di giustizia trovando in Paolo Borsellino una specie di padre.

Il silenzio certe volte ci vuole: «Le cose, anche una lettera, si devono fare bene» dice subito Francesca, diciottenne torinese dalle idee chiare e dalla grande passione per il teatro (fa parte della compagnia Tromba del Trambusto): appena finito l'orale alla maturità è corsa qui, al raduno nazionale dei giovani di Libera, il primo della storia dell'associazione fondata da don Luigi Ciotti, 15 anni fa.

Quelle lettere i ragazzi le porteranno, il 26 luglio, a Milazzo e le consegneranno a Piera Aiello (cognata di Rita e testimone di giustizia), dopo un viaggio per l'Italia che farà tappa nei beni confiscati. Volvera è un momento importante di riflessione e di scambio. Sette giorni, dal 4 al 10 luglio, di incontri, formazione, seminari, musica e teatro. E' un punto di partenza: «Sono venuti ragazzi da 18 regioni, dai 15 ai 33 anni, - spiega Davide Mattiello, una delle figure di spicco di Libera, nonché uno degli organizzatori dell'evento - fanno parte di presidi o coordinamenti, fanno, quindi, militanza attiva, movimento. E, da qui, nascerà l'azione che andrà avanti tutto l'anno». Quelli del raduno sono giovani che si indignano e si impegnano. Parlano di arte e di scudo fiscale, di informazione e di agricoltura, anche della raccolta delle melanzane nei terreni che erano mafiosi. La situazione del Paese ce l'hanno davanti, stampata. Ma non sono disillusi e lo vedi dai loro occhi. Ci credono: «Per sconfiggerli dobbiamo creare un'alternativa», dice Giulia, 21 anni di Trieste, studentessa di giurisprudenza e membro del presidio di Libera, intitolato a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Per sconfiggere chi? Un sistema di potere e culturale. L'obiettivo è ribaltare un paradigma: «Quello del "cazzo guardi", non ti dico solo fatti i fatti tuoi, ma ti intimidisco». Mattiello lo dice così, secco. «Mi chiamano a parlare nelle scuole e noto che spesso viene considerato bullismo un atteggiamento protomafioso. E in un mondo dove chi non si fa i fatti suoi è uno sbirro o un infame, si distinguono i pochi che si assumono la responsabilità di fare nomi e cognomi. Di testimoniare. In un sistema con in testa Berlusconi, Dell'Utri e con la legge bavaglio come manifesto, la lotta per il cambiamento diventa la priorità».

La testimonianza è il nodo di tutto il raduno. «È impegno, resistenza» ha detto il procuratore Gian Carlo Caselli, che è passato di qui. Insieme ad altri: testimoni di giustizia, come Pino Masciari e Vincenzo Conticello, due che si sono ribellati al racket mafioso; giornalisti, come Roberto Morrione, Pino Maniaci di Telejato; politici, come Nando Dalla Chiesa. E al termine delle giornate c'è stato spazio per il teatro, il Festival Orme, dedicato, appunto, alla testimonianza e all'impegno civile, con lo spettacolo, per esempio, Un uomo vestito di Bianco dedicato a Mauro Rostagno (giornalista ucciso dalla mafia nel 1988).

Nella cittadella di Volvera il silenzio è svanito. Incontri facce di giovani, che raccontano esperienze e aspettative. Siamo qui «per fare movimento», dice qualcuno, «per mettere in circolo idee nuove e agire», per «essere protagonisti». Francesco arriva da Borgosesia, 18 anni, da 4 iscritto a Libera, è qui dal primo luglio per sistemare la Cascina: «Il raduno deve servire a fare rete, a unire». Francesca, la «militante di teatro», aggiunge: «Da Libera non deve partire una rivoluzione d'élite, ma che coinvolga tutti. La nostra bibbia è la Costituzione». Giuseppe di chilometri se n'è fatti parecchi: ha 17 anni ed è di Polistena (Reggio Calabria), vicino a Rosarno. Terra difficile e lo sa (la 'ndrangheta è l'organizzazione più militarizzata e ricca): «Partecipo - spiega Giuseppe - a una cooperativa che lavora sui terreni confiscati a Piromalli e Mammoliti, coltiviamo melanzane, peperoncino, olive. E sono qui per continuare a fare antimafia». La lotta alla mafia, diceva qualcuno, che è cosa da professionisti: «Noi - ha ribattuto Nando Dalla Chiesa, presidente onorario di Libera - la intendiamo come lotta di popolo e i giovani ne sono i protagonisti, sono l'anima».

Mentre alla Cascina Arzilla le attività scorrono, anche quelle di progettazione di nuove campagne, l'area media al centro del cortile della cascina segue passo passo ogni evento. Sono giovani anche loro: Cosimo, Davide e altri. Fabbricano un telegiornale che va in onda la sera ed è visibile sul sito (www.libera.it), sentono i ragazzi, fanno domande agli ospiti, confezionano i servizi. I giovani di Libera sono uno spaccato che si guarda intorno: alle lotte contro la mafia al sud come al nord («non c'è territorio che può dirsi esente, perché ha capacità storica di infiltrarsi» ha detto qualche giorno prima Luigi Ciotti), a quelle degli operai di Pomigliano, a difesa della Costituzione e contro la «legge bavaglio».

Davide Mattiello, 38 anni, occhi chiari e pizzetto grigio e un gran numero di orecchini, cammina e parla, senza una virgola scontata. È un trascinatore. E mentre lo fa percorre i sentieri della Cascina Arzilla (dedicata, oltre che a Rita Atria, ad Antonio Landieri, ragazzo di Scampia, ucciso dalla camorra). Qui, il mafioso Riggio voleva farci un complesso edilizio, gli è stato impedito e il bene è stato sequestrato nel 1993. Ora dopo la confisca è gestito dall'associazione Acmos (collegata a Libera); sono serviti sei anni di lavoro per far rinascere un rudere, con l'obiettivo di restituirlo alla popolazione. «Dove c'è il tendone - indica Davide - ci sarà l'orto didattico per i bambini delle scuole». Poi, parla di alternativa: «Esistono segnali di reazione, tanti, ma ancora insufficienti. E se ci penso, a cosa è servito tutto quello che abbiamo fatto? Come può essere efficace un'azione per capovolgere un sistema? Manca l'unità. Il raduno ha un ambizione culturale, rieducare a una sana disciplina di movimento. C'è il tempo per discutere e scontrarsi, poi bisogna essere parte di un "noi". La democrazia è la scienza della decisione collettiva non solo della partecipazione. E come diceva Marx, si cresce nella dialettica, con ruoli precisi. Non il papà amico del figlio, se no dov'è il conflitto? Ne siamo disabituati». Il sole scotta, il riparo è un albero. Mattiello ci pensa un attimo: «Fortunatamente l'abbiamo rivisto, quello degli operai di Pomigliano. E noi, come Libera, ne abbiamo uno in corso a Isola Caporizzuto, cento ettari di terra confiscati agli Arena (famiglia talmente potente da riuscire a imporre la candidatura del senatore Di Girolamo). La 'ndrina non ci sta, incendia le macchine a consiglieri comunali. È una sfida difficile, ancora di più mancando il lavoro. Ma le venti persone della nostra cooperativa possono contagiarne molte di più».

Infine, si ritorna sullo stato delle cose, sull'Italia più in generale. «È demoralizzante. Gli anni Ottanta ci hanno rovinati. Dopo la spinta antifascista c'è stato un tutti a casa. Ero adolescente e Drive In è stato lo spartiacque culturale, con Silvio Berlusconi il nostro grande educatore. Non ci accorgevamo di quello che capitava, che c'erano stati da poco l'omicidio Aldo Moro e quello di Piersanti Mattarella. Ma siamo così, un Paese clericofascista, che quando può involvere, involve». Ma non tutto è perso, anzi: «Siamo qui per costruire un'alternativa, per capire come diventare potere e cambiare il sistema. Non mi vergogno di dirlo, non sono un'antagonista, credo nella Costituzione». Fa una pausa: «È il 7 luglio, l'hai mai vista una scena così?». Guarda i suoi ragazzi: «Perché non possiamo diventare noi la storia del Paese?».

Da il manifesto dell'11 luglio

venerdì 25 giugno 2010

Torino a sinistra

Prove di dialogo nella sinistra radicale torinese. Un appello del professor Angelo D'Orsi: «Un Partito della Salvezza contro quello della Devastazione». E un incontro pubblico cui hanno partecipato No Tav, collettivi studenteschi, Popolo viola, Sinistra critica, grillini, rifondaroli e vendoliani

TORINO - Pezzi sfilacciati, diffidenti. Magari vivi, ma monotematici. Che sono vissuti finora su mondi paralleli. Un patrimonio che non è in via d'estinzione e non lo vuole essere. L'uscita dalla sconfitta della sinistra è un processo difficile, laborioso e parte anche da Torino. Martedì scorso varie anime (movimenti, associazioni, pure partiti) si sono ritrovate per discutere da dove e come ripartire. «Che fare?» per parafrasare l'abusato Lenin. «Sono state prove di dialogo» ha detto qualcuno. «Un modo per uscire dalla solitudine» o per «riprovare il senso di stare insieme». «Fare massa critica». «Contaminare Torino dell'esperienza della Val Susa», per molti l'esempio perfetto di incontro tra generazioni e culture diverse. Fino all'appello del professor Angelo D'Orsi, storico del pensiero politico all'Università di Torino, di «unirsi in un ideale Partito della salvezza contro il Partito della Devastazione».

L'incontro si è svolto alle Officine corsare di via Pallavicino, il nuovo spazio del Laboratorio corsaro e degli Studenti Indipendenti, che sono stati tra gli animatori dell'iniziativa. «Abbiamo deciso di riunire tutte realtà che fanno percorsi alternativi a Torino - spiega Andrea Aimar del Laboratorio - per provare a costruirne uno comune con la volontà di uscire dalle logiche identitarie dei partiti, che dovrebbero lasciare il protagonismo a chi è stata forza viva in questi anni e spazio a una nuova generazione non solo anagrafica, ma di mentalità. Quindi, autorappresentamioci e allarghiamoci». Nella preparazione dell'assemblea i giovani corsari sono stati «cinghia di trasmissione» tra i tanti: «Da quell'unica area di Rifondazione ancora aperta all'esterno (gli ex vendoliani che ruotano attorno a Eleonora Artesio, ex assessore regionale alla Sanità) ai grillini». E alla fine sono venuti più di quelli attesi, un centinaio di persone e diverse sigle, buona parte del mondo a sinistra del Pd: Comitato No Tav Torino, Resistenza viola, Movimento 5 stelle, Rifondazione comunista, Sinistra ecologia Libertà, Rosso Ideale, Unione Culturale, Terra del Fuoco, Sinistra critica, Pro Natura. Anche associazioni da fuori provincia: A Sinistra di Asti e Liberamente di Alessandria.

Il cantiere è in partenza, il 28 giugno ci sarà la prossima riunione. Dice subito D'Orsi, che ha scritto per la serata un documento di analisi su un'Italia «molto oltre la crisi di nervi» soggiogata dal virus del berlusconismo: «Ci troviamo nel cuore una decadenza morale e intellettuale, politica e antropologica degli italiani, ma il paradosso che stiamo vivendo - spiega - è che al cospetto di una crisi epocale del capitalismo, la sinistra appare morente. Dovrebbe essere la sua stagione, dopo il crollo del biennio "rivoluzionario" 1989/91, e invece essa appare afasica e impacciata, incapace di elaborare strategie, dominata da un personale politico troppo sovente inadeguato, rissoso e autoreferenziale». Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale all'Università di Torino, è ottimista: «Gli spazi per l'alternativa ci sono, però è ora di fare un salto, andare oltre i movimenti monotematici e sviluppare una visione complessiva, che parli di rapporti economici, rappresentanza, ambiente e soprattutto esca all'esterno. Guardiamo i No Tav, loro ci sono riusciti. È un movimento che resiste da vent'anni e nei loro incontri non si discute solo di territorio e ambiente, ma anche di decrescita».

E del movimento contro l'alta velocità Ezio Bertok, comitato No Tav Torino, ne sa qualcosa: «Una delle carte per ripartire potrebbe essere quella di esportare a Torino lo spirito di contaminazione tra culture e generazioni che si è vissuto in Val Susa (dove la situazione si fa di nuovo calda visto che l'Osservatorio vuole stringere i tempi per il tunnel di Chiomonte). Alle Officine corsare c'è stata una prova tecnica di dialogo, molti sono venuti ad annusare l'aria. Ci sono realtà che vogliono essere protagoniste, pensiamo al movimento per l'acqua pubblica. L'obiettivo è creare occasioni di dialogo tra persone che si parlano poco. Perché esiste uno stato d'impotenza comune di fronte al trasversale partito degli affari, alla costruzione di nuovi grattacieli, a un consumo smodato del suolo, alla Tav. Prendiamone consapevolezza e usciamo allo scoperto».

Una delle prossime tappe, anche se qualcuno storce il naso, sono le elezioni comunali di Torino. Chi pensa siano un banco di prova, chi, almeno per ora, un argomento da evitare. «Per tutti - sintetizza Algostino - non sono il fine, ma bisogna prenderle in considerazione. Partiamo con lo sviluppare un'altra idea di città, sul lavoro, l'ambiente, i diritti». Anche sui tempi, nel cantiere (che magari avrà presto un altro nome) le posizioni sono sfumate, in bilico tra un'emergenza democratica sotto gli occhi di tutti e il rischio di cadere nella fretta. Nell'immediato ci sono appunto le elezioni e a medio e a lungo termini c'è qualcosa di più complesso, una prospettiva, forse la rinascita della sinistra.
D'Orsi dà la scossa: «Siamo davanti a un passaggio decisivo: o lasciare andare alla deriva la barca, aspettando il cozzo contro gli scogli, o tentare di indirizzarne la rotta. Siamo pochi? Siamo molti? Intanto, contiamoci. E scendiamo allo scoperto, rompendo gli indugi, vincendo i timori, superando antiche divisioni, pronti ad allearsi pur di raggiungere l'obiettivo: che, detto in una sola parola, enfatica, ma oggi inevitabile, è la salvezza d'Italia, cominciando, magari, da Torino e dal Piemonte. Occorre agire ora, prima che sia troppo tardi. Correremo il rischio di sbagliare, certo, ma almeno, domani, non saremo tormentati dal senso di colpa di non aver tentato finché era possibile. Ora, dunque. Non domani».

Qualcosa di diverso, l'8 giugno, si è verificata. Non è stata la solita riunione. «Ho notato - spiega D'Orsi - come le persone fossero venute ad ascoltare più che a esibirsi». «Gli istituzionali stessi - dice Bertok - sono venuti per sentire, capire». Per Andrea Aimar, Laboratorio corsaro, una serata sicuramente positiva: «Solo una posizione fuori dal coro da una parte di Rifondazione, che temerebbe di perdere la propria identità». C'è però una porzione di quel partito che è parte integrante del cantiere, ne è stata tra i propositori. «Dobbiamo rendere visibile una sinistra diffusa - auspica Elonora Artesio, consigliere regionale Prc - trovare i punti comuni e superare la frammentazione a sinistra del Pd». Sulla stessa lunghezza d'onda Roberto Romito (Rifondazione per la sinistra, minoranza Prc): «Mi auguro sia un processo aperto, un cantiere non strutturato e libero di muoversi, lontano dalle egemonie di partito. Spero che il nutrito gruppo di giovani lo sappia pilotare bene. E si deve far tesoro di una guida come D'Orsi».

Il primo passo è superare le diffidenze. E trovare il collante. Aspetti ce ne sono: l'autorappresentanza, un nuovo protagonismo, il soccorso a una democrazia in pericolo. «Citando Erri De Luca - racconta Aimar - ci manca quel rame (non il piombo) che negli anni Settanta era stato un buon conduttore. A Torino va ricreata una temperatura di fusione, gli elementi ci sono, le realtà di lotta sono vive, bisogna metterle in rete».

E poi? «Ai partiti, che invitiamo a far parte del cantiere, diciamo di compiere un passo indietro, ai movimenti di farlo in avanti e irrompere nel tema della rappresentanza. Come hanno fatto gli Studenti Indipendenti, che stanno nel movimento e nelle istituzioni universitarie. O le liste civiche in Val Susa». Aggiunge Algostino: «La rappresentanza non deve essere una delega in bianco, senza vincolo di mandato». L'ambizione del cantiere per un'altra Torino e di un altro Piemonte è riunire tutte le esperienze vive e alternative al sistema economico e al potere politico che oggi è egemonico dal Pd alla Lega. «Noi siamo incompatibili. Proviamo a tradurre le realtà di sinistra in forza politica».

La seconda fase, una volta messe insieme le forze presenti all'oggi: «Dovremo - conclude Aimar - arrivare a tutte quelle persone che a oggi non siamo nemmeno in grado di vedere. Coloro che vivono nelle indifferenza o rispondono alle proprie paure personali votando Lega, coloro che si sono fatti abbindolare dalla favola berlusconiana. Tutti quelli che esprimono bisogni ai quali oggi non siamo in grado di dare risposta, con i quali non abbiamo nemmeno le parole giuste per comunicare». L'obiettivo è aprirsi: «Sono venuti anche dalla Fabbrica di Nichi. ora recuperiamo chi martedì non c'era». Il sasso è lanciato.

Da il manifesto del 24 giugno

mercoledì 9 giugno 2010

L'arabo è di casa

Maha ha 27 anni e da Livorno, armata di webcam e microfono, raggiunge su youtube 7.400 studenti

Maha Yakoub è seduta su un divano oppure in piedi, tra le mura di casa. Parla ai suoi studenti, come se fosse in classe. Se li immagina di fronte, penna in mano a prendere appunti, mentre lei spiega come in arabo si pronunciano e scrivono le lettere dell’alfabeto, poi i numeri, i giorni della settimana, i saluti. Eppure di fronte ha solo la webcam di un computer e un microfono. Strumenti che le permettono di arrivare virtualmente nelle case di migliaia di studenti. Lei che di anni non ne ha ancora 27 e da un po’ vive a Livorno con Luca, il marito italiano. In mano ha una laurea in Lingue e letterature straniere (inglese, arabo ed ebraico), presa a metà tra il suo Paese di origine (“che preferisco non dire qual è”) e l’università di Pisa. È bastato poco. Una buona inventiva, la capacità di spiegare con chiarezza le basi di una lingua straniera, la dimestichezza dell’utilizzo della rete e il viso accattivante di una ragazza dolce e dai modi familiari.

E così, nel novembre del 2008, Maha ha aperto un canale su Youtube, Learn arabic with Maha. Ha iniziato con lezioni dall’inglese all’arabo, con uno stile informale e preciso che ha colto nel segno: i contatti sono presto lievitati. “Ho scoperto -racconta- che sono tante le persone interessate a studiare l’arabo, specialmente nei Paesi anglosassoni. Anche musulmani che non lo conoscono. E ho il piacere di superare i soliti pregiudizi nei confronti degli arabi”. Poi, un giorno, un’altra svolta nella vita di Maha: “Diversi utenti italiani mi chiedevano lezioni nella loro lingua”. È la nuova sfida. Il 30 novembre 2009 ha pubblicato la prima lezione in italiano, sull’alfabeto arabo. Pochi giorni dopo ha confezionato il video che sarebbe diventato quello dei record, “Merry Christmas in arabic”, oltre 750mila contatti. Per realizzarlo, è bastata una piccola telecamera, una lavagna, luce favorevole e un buon programma di montaggio. “La maggior parte delle clip le faccio da sola, a volte mi riprende Luca”.

Negli ultimi mesi i suoi studenti online sono arrivati a quota 7.400 iscritti al canale: “Ho aperto un profilo Facebook, per avere un feedback con loro, facendomi conoscere anche nella vita privata. Mi mandano i compiti, scambiamo foto e musica”. Ma quello di Maha è davvero diventato un lavoro. Tanto che, oltre ai canali come Youtube e Facebook è possibile trovarla sulla piattaforma “eduFire”, social network di e-learning. Diffuso soprattutto negli States, mette in contatto studenti e tutor, permettendo lezioni private a costi modici. Come risulta dalla sua pagina personale nel network, le tariffe di Maha sono di 15 dollari per 30 minuti di lezione di arabo, 25 per un’ora di arabo ed ebraico. “È uno strumento usato per lo più da adulti che vogliono imparare nuove lingue senza spostarsi da casa”, spiega. E sono tante ormai e piattaforme che propongono questo tipo di scambio linguistico e culturale, come “Livemocha”, “Myngle” oppure “Guavatalk”, dedicato all’insegnamento del cinese. “Sono canali attraverso cui è facile trovare un madre lingua, vedere il suo volto, i commenti di altri studenti. In America ci sono tanti bambini che ormai studiano da casa, via internet, con piattaforme organizzate direttamente dalle scuole”.

Maha è contenta del suo progetto, lavora, si aggiorna. Sogna di imparare dieci lingue. E magari magari condividere saperi sul web. “Credo che l’e-learning e internet in generale siano uno strumento ideale per lo scambio culturale-linguistico. Sono il futuro. E la cosa più bella è che puoi contemporaneamente insegnare a Geoffrey, un bambino americano di 9 anni, e a Corrado, un signore italiano di 70 anni”.

Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
da Terre di Mezzo di giugno

mercoledì 19 maggio 2010

Lega Nord in Emilia - Sassuolo (Modena). Sgomberi e donne "cariche come molle"



Sassuolo violenta
di Mauro Ravarino e Paolo Stefanini. Il viaggio nell’avanzata leghista in Emilia fa tappa a Sassuolo (Modena), capoluogo in crisi dell’industria ceramica. Qui il Carroccio esprime il vicesindaco, Gian Francesco Menani, e ha puntato tutto sulla sicurezza. Le donne possono seguire corsi antistupro in palestra e si dicono «cariche come molle». In città «il degrado» viene combattuto a colpi di sgomberi (di palazzi, centri sociali e moschee) e con continui controlli sugli stranieri nei parchi e nei condomini con l’aiuto di due cani poliziotto «da attacco e difesa».

Le altre videoinchieste sulla Lega in Emilia realizzate per l'Unità

domenica 9 maggio 2010

La zarina resta sempre più sola

TORINO - E fu così che il grande partito si trasformò in un ring. Prima dell'esito elettorale, le tensioni erano latenti. Nascoste da una quotidiana diplomazia. C'è voluta la sconfitta, la vittoria del Carroccio a sprigionarle. Chiamparino contro il partito («subalterno ai poteri forti» a proposito di Intesa-Sanpaolo), la Bresso pure («troppi cacicchi che badano alla loro sopravvivenza»). I dirigenti che scaricano la zarina, senza però ammetterlo. E lei che porta avanti il ricorso al Tar contro l'esito del voto quasi in solitudine e poi costituisce in Regione un gruppo autonomo «Uniti per Bresso».

Sotto la Mole, la situazione è tesa. Giovedì, quando è venuto Romano Prodi per una lezione di economia internazionale, del partito non si è visto nessuno. Che le cose non vadano bene lo ammette sconsolato Cesare Damiano, ex ministro del lavoro, che del Pd aveva provato a diventare segretario regionale: «Gli uni contro gli altri armati non si va da nessuna parte, bisogna rompere gli steccati congressuali, trovare una sintesi». Ieri l'ex governatrice, insieme a un pool di legali guidati da Enrico Piovano, ha spiegato le ragioni del ricorso contro presunte irregolarità nella presentazione di tre liste del centrodestra. «L'illegalità è stata la regola, non l'eccezione di questa campagna elettorale. Dai miei avversari del centrodestra è stata messa in campo una serie di liste taroccate che imitavano liste del centrosinistra esistenti da anni».

Nel mirino della Bresso (ma anche dei Verdi, presente Angelo Bonelli, e dell'Udc) sono tre liste minori, che insieme hanno ottenuto quasi 50 mila voti, molti più dei 9 mila che hanno segnato la vittoria di Cota: Verdi Verdi, Consumatori e Al centro con Scanderebech. Secondo gli avvocati «il consigliere Scanderebech in qualità di presidente del gruppo consiliare Udc rilasciò la dichiarazione di collegamento in favore della lista da lui rappresentata, esentandola dal raccogliere le sottoscrizioni di cittadini sostenitori, ma lo fece quando era già stato espulso dall'Udc (il 16 febbraio 2010). E dunque la lista non avrebbe dovuto essere ammessa».

Il Tar potrebbe pronunciarsi prima dell'estate, dopo ci sarà l'inevitabile appello in Consiglio di Stato. Se la Bresso vincesse potrebbe ottenere l'annullamento e il voto in primavera, oppure potrebbe scattare la surroga: gli 11 esclusi del listino di Bresso subentrerebbero a quelli di Cota e la zarina tornerebbe al governo. Nervosa la reazione del centrodestra al ricorso: «Siamo al caso umano - ha commentato Cota - un epilogo indecoroso». Lei ha subito replicato: «Come sempre siamo all'insulto personale. E non spetta a Cota stabilire la fondatezza dei ricorsi».

E se pochi giorni fa, Roberto Placido, Pd (confermato vicepresidente del consiglio regionale, uno dei consiglieri eletti con più voti), si era rivolto alla Bresso citando i Rokes «bisogna saper perdere», l'ex presidente ha risposto «che il diritto a tutelarsi viene esercitato da tutti». Per Damiano è improbabile ritornare al voto: «I conti sono stati fatti. Abbiamo sostenuto la Bresso con forza e senza rimpianti». In casa Pd il clima resta pesante.

Da il manifesto dell'8 maggio

lunedì 26 aprile 2010

Quando il rock è partigiano

CARPI - Germano Nicolini strizza gli occhi commosso, quando Cisco intona Al diével, la canzone che ne racconta la vita. Solo pochi minuti prima, il mitico comandante partigiano Diavolo aveva scaldato di lucida ironia la piazza di Carpi, con frecciate a quei politici (Berlusconi e La Russa in testa) che vorrebbero affossare il 25 aprile e farne una festa della conciliazione. Germano, “un diével solo per i tedeschi”, c’era anche nel 1995, nella prima, e fino a ieri unica, edizione di Materiali Resistenti (15 anni anni fa declinato al singolare), una giornata di musica e memoria.

All’epoca c’era pure Massimo Zamboni - anima storica dei Csi (c’era pure Giovanni Lindo Ferretti, ieri assente, giustificato da approdi politici ormai lontani) - che ne fu direttore artistico . Zamboni è tornato. Smilzo, occhialini e sguardo timido arriva in piazza a metà pomeriggio e tira un sospiro di sollievo: «Ci vorrebbe un 25 aprile ogni mese, perché il resto dell’anno mi sento solo». Poi sale sul palco, prende la sua chitarra ruvida, e con gli Offlaga Disco Pax suona Allarme, un pezzo dei suoi Cccp, di cui il gruppo di Max Collini da Reggio Emilia ha raccolto in parte il testimone. Fusioni insolite, tra musicisti di vari gruppi, che sono continuate per tutto il concertone. Come quando Mara Redighieri, ex Ustmamò, ha ricantato quindici anni dopo Siamo i Ribelli della montagna, questa volta in una versione più rock con Fabrizio Tavernelli (già con gli Afa), uno degli animatori dell’evento. Una piazza bella e resistente.

Piazza dei Martiri si è riempita lentamente di colori, bandiere ed entusiasmi. Tanti giovani: ragazzini ma anche trentenni che ricordano bene l’edizione del 1995. E, tra il pubblico, pure qualcuno che il 25 aprile di 65 anni fa l’ha vissuto davvero. Perché tutto parte da lì. Senza Retorica. «Non bisogna avere paura di partire dal passato per arrivare al futuro. Per questo ho ripreso i canti anarchici dell’Ottocento» racconta con voce lieve Mara Redeghieri, che ha portato a Carpi il suo nuovo progetto Dio Valzer. Sul palco con lei Lorenzo Valdesalici, 15 anni fa era appena nato.

I Giardini di Mirò, emiliani di frontiera, hanno spezzato i tempi del concerto. La loro musica è un sali-scendi dilatato, che crea un’atmosfera ipnotica. Sono stati i primi ad aver sdoganato in Italia i suoni del post-rock. E non si è potuto star fermi di fronte al piglio punk dei Tre allegri ragazzi morti, capitanati dal fumettista Davide Toffolo. Quando sono saliti gli Offlaga l’applauso è stato fragoroso. Tra il pubblico difficile trovare chi non conoscesse un verso di Robespierre, Sensibile (con dedica provocatoria a Giusva Fioravanti) e Toponomastica. Alternati alla musica, gli interventi degli scrittori Paolo Nori e Carlo Lucarelli. E, infine, il Teatro degli Orrori, romanticamente drammatico, forte di un disco A sangue freddo, uno dei migliori album dello scorso anno.

Tutto era stato, però, aperto da Cisco, ex Modena City Ramblers, con le mondine di Novi, già protagoniste del film documentario Di madre in figlio. Un’esplosione di energia, che con Bella Ciao, cantata a cappella, ha dato il via alla festa. Portano tutte il fazzoletto dell’Anpi: «Siamo sempre partigiane» spiega Giulia Contri, figlia di mondina, che dirige il coro ed è pronta a partire per il tour Terra da coltivare. Quindici anni dopo, nonostante tutto e nonostante Berlusconi, a Carpi si è visto uno spirito ancora resistente. Che sia, non solo musicalmente, di buon auspicio.

Da l'Unità del 26 aprile

sabato 24 aprile 2010

Viaggio nell'Emilia leghista al femminile Ilaria: «Io? Razzista no, xenofoba sì...»




Casa mia di Mauro Ravarino e Paolo Stefanini. Il viaggio nella penetrazione leghista in Emilia prosegue con Baiso, in provincia di Reggio Emilia. Qui Ilaria Montecroci, 22 anni, è consigliere comunale del Carroccio. Dice di voler difendere il suo territorio ma per farlo «il razzismo non è l'ideologia giusta su cui lavorare. Più che razzista posso definirmi xenofoba» - ammette - «perché ho paura di certe culture diverse che non possono convivere con la nostra». Una donna djavascript:void(0)eterminata e decisa: da grande non vuole fare la velina, come altre donne del Pdl, bensì «entrare in Parlamento».

Le altre videoinchieste sulla Lega in Emilia realizzate per l'Unità

venerdì 23 aprile 2010

DiscoLega, viaggio tra i giovani del Carroccio



DiscoLega di Mauro Ravarino e Paolo Stefanini: prosegue tra i divanetti di una discoteca di Imola il viaggio de l’Unità nell’Emilia sempre più verde. Durante una festa dell’Mgp (Movimento giovani padani) alcuni militanti rispondono a un’intervista in stile The Club, il programma di videomessaggi per ragazzi che cercano l’anima gemella. Ma le domande non sono “Cosa fai per conquistare una ragazza” ma : “Cosa diresti a un immigrato irregolare?” Cosa diresti a un gay che si vuole sposare?” “Cosa diresti a una ragazza che vuole abortire?" "Mameli o Va, pensiero?"

Le altre videoinchieste sulla Lega in Emilia realizzate per l'Unità

venerdì 2 aprile 2010

«Mai in ospedali veneti». La legge del carroccio

Crociata leghista. Dopo Cota anche il neogovernatore Zaia va all'attacco

TORINO - E così a Roberto Cota è venuto a dar manforte il collega Luca Zaia. Da ieri, il Piemonte e il Veneto non sembrano più così lontani. A unirli ci sono la Lega Nord (il partito dei neo-governatori) e la crociata antiabortista contro la Ru486. Oltre a un federalismo improvvisato che non bada a leggi e costituzioni. Uno (Cota) vuol far marcire le confezioni della pillola nei magazzini, l'altro (Zaia) «non darà mai l'autorizzazione a poterla acquistare e utilizzare nei nostri ospedali». Incuranti, però, che sull'autorizzazione e l'uso di un farmaco la competenza non sia dei presidenti regionali. E nemmeno quella sulla libertà terapeutica.

In piena polemica, interviene Antonio Baldassarre, presidente emerito della Consulta, a far chiarezza: «Lasciare le confezioni di Ru486 sigillate nei magazzini? La vedo difficile, anche se quella del presidente del Piemonte mi sembra una battuta. Se un farmaco è autorizzato a livello nazionale (dall'Aifa, ndr) un presidente non può impedirne l'acquisto; ma solo intervenire su ospedali e farmacie comunali. Certo bisognerà vedere con che tipo di atto; solo allora si potrà fare una valutazione dal punto di vista giuridico». Una tirata d'orecchi al neogovernatore la rifila pure Fabio Gava, parlamentare veneto del Pdl: «Non è il modo ma soprattutto una competenza della Regione: per quanto concerne l'uso della pillola è stata varata una apposita legge che è stata profondamente discussa: trovo ingiusto che un presidente di Regione, a partire dal Veneto, ne impedisca la vendita».

Nell'occhio del ciclone è finita Torino. Anzi, un ospedale. Il Sant'Anna. Qui, un medico, Silvio Viale ha iniziato nel 2005 la sperimentazione della pillola abortiva. È abituato alla polemica, se l'è vista con diversi ministri (Storace, Sirchia, Sacconi), e anche questa volta è battagliero: «Non possono fare nulla se non spaventare i medici e le donne. Ma non ce la faranno, finalmente scatterà la dignità professionale». Il Sant'Anna ha chiesto 50 confezioni di pillole Ru486, che potrebbero essere consegnate già oggi o, al più tardi, dopo Pasqua (da ieri possono essere essere distribuite in Italia e richiesta dalle farmacie ospedaliere). Viale, anche esponente radicale, è sul piede di guerra: «Se proveranno a bloccarla, a ritardarne l'erogazione, ho già in mente le contromisure, ma non ve le svelo». Un grimaldello politico gli gira in testa: «Se Cota avesse detto quelle cose due giorni prima avrebbe perso le elezioni. Ma c'è anche stata la complicità di Mercedes Bresso nel mantenere la Ru486 fuori dalla campagna elettorale. Capisco adesso perché non mi voleva candidato».

Ma nei due nuovi feudi padani, separati solo da una Lombardia che della sanità fa un affare privatissimo, i neo-presidenti vanno dritto per la crociata. Zaia ha spiegato: «Studieremo il modo per contrastare uno strumento farmacologico che banalizza una procedura così delicata come l'aborto, lascia sole le donne e deresponsabilizza i più giovani». Cota, oltre a volere le associazioni pro vita negli ospedali, «chiede ai direttori generali di bloccare l'uso della Ru486 fino al suo insediamento». Dagli insoliti banchi di opposizione la Bresso è in fibrillazione: «Noi chiederemo ai direttori delle Asl di non rispettare l'invito di Cota». Accanto a lei siede Eleonora Artesio, assessore uscente alla Sanità (e neo consigliere per la Federazione della Sinistra), che il febbraio scorso diede al Piemonte il primato di essersi pronunciato sull'eterno scontro tra assunzione della pillola in ricovero o day hospital, dando la libertà della scelta alla donna. Artesio e Monica Cerutti, eletta con Sinistra Ecologia e Libertà, hanno sottolineato: «Cota ignora il contenuto della legge 194 e il ruolo dei consultori. La sua uscita lascia intendere una presunzione istituzionale, secondo la quale il Piemonte a guida leghista potrebbe permettersi l'intimidazione ai medici e l'offesa alla determinazione delle persone».

Ma il governatore leghista sa di non essere solo. Dalla sua incassa il plauso del Vaticano, con monsignor Domenico Fisichella, presidente della pontificia Accademia per la vita, che solo qualche giorno fa aveva detto: «Quanto ai problemi etici, mi pare che la Lega manifesti una piena condivisione con il pensiero della Chiesa».

Da il manifesto del 2 aprile

mercoledì 31 marzo 2010

Quei grillini dei No Tav. Batosta per la sinistra

Il momento delle accuse: «Amici della Lega», «traditori»

TORINO - Lei continua a chiamarlo il «ribellismo». Dice che il problema sono quei giovani che sperano nel movimento No Tav perché si interessano solo della contestazione. Che la sua sconfitta dimostra «che solo la politica urlata paga». E a chi le chiede come ha potuto non accorgersi del fatto che il movimento di Beppe Grillo stava rosicchiando tanti consensi al centrosinistra, la governatrice uscente del Piemonte Mercedes Bresso risponde sconsolata: «Non c'erano segnali, i sondaggi non lo dicevano. È stato fuoco amico».

È andata proprio così. Il giovane medico di base Davide Bono, portavoce dei grillini a cinque stelle, col suo modo di fare neppure troppo aggressivo si prende due consiglieri e quasi il quattro per cento dei consensi. Punti decisivi per assegnare la vittoria al leghista Roberto Cota, passato col 47,32% e 1.043.318 voti, su Mercedes Bresso e il suo 46,90%, ovvero 1.033.946 suffragi. Bono ha preso 90.086 voti, cioè il 4,08%. Nulla di paragonabile all'1,43% di Sel, al 2,64% della Federazione della sinistra, per non dire dei Verdi fermi allo 0,74%. Un grimaldello decisivo per scardinare l'incerta tenuta della sinistra nella provincia di Torino e sicuramente più importante delle tante schede nulle, tirate fuori lunedì sera dalla Bresso ma già dimenticate (ma il ricorso si farà). Visto, poi, che nel 2005 Ghigo era esattamente dov'è il centrodestra ora - con meno Lega, ma questa sarebbe un'altra storia - e che al Pd mancano giusto quattro punti per la vittoria, il centrosinistra sa già contro chi puntare il dito.

Val Susa, provincia di Torino, qui il candidato del movimento 5 stelle ha incassato cifre da record: il 28,7% a Bussoleno, il 29,8% a Venaus e il 26,5% a San Giorgio (uno dei rari comuni della valle in cui la Bresso ha superato Cota, 37,2% contro 31,5%). Numeri che all'ex zarina fanno accapponare la pelle. Ma lo stupore per questo boom scema appena ci si allontana dal capoluogo, si va verso Avigliana e le montagne. In Val Susa se l'aspettavano. Prendete la folla in piazza Castello davanti al Beppe, il 14 marzo scorso. Ecco. Proprio quel giorno Alberto Perino, storico leader No Tav, fece la sua dichiarazione di voto: Davide Bono. E, ieri, la sua risposta alla domanda sul perché del risultato grillino è stata caustica, come sempre. «È chiaro: gli altri due erano per la Tav. Prima avevamo votato Rifondazione e Verdi. Poi, loro hanno tradito. I 5 stelle, invece, ragionano sulle cose concrete, come noi». E al Pd che li accusa di aver liberato il campo alla Lega? «Che dire, chi è causa del suo mal pianga se stesso».

Bono, barba e occhialini, era convinto del successo: «Conoscevamo la nostra potenzialità, in valle abbiamo avuto il sostegno dei tanti che alle amministrative hanno appoggiato le Liste civiche». Respinge le accuse del centrosinistra che lo vuole responsabile della sconfitta: «I nostri voti sono principalmente sottratti all'astensionismo e alla delusione». Gli dà ragione Giorgio Vair, vicesindaco a San Didero, 15 chilometri da Susa. Amministratore dall'85, si definisce «indipendente di sinistra». L'ultima volta è stato eletto in una delle Liste civiche che si oppongono all'alta velocità (120 consiglieri comunali sui 600 in valle): «Il voto al movimento 5 stelle è di protesta contro i poteri forti e di contenuto. È stato l'unico a parlare di un diverso modello di sviluppo».

Rifondazione a Bussoleno è passata dal 12% del 2005 al 4%. Juri Bossuto è consigliere regionale uscente del Prc, da sempre impegnato nelle lotta No Tav. «Siamo dal 1992 nel movimento, senza volerlo cavalcare. Purtroppo il nostro accordo tecnico è stato interpretato come una resa. Non era così, si trattava di opporsi a una destra razzista. Il movimento No Tav ha fatto un grave errore, i grillini non andranno mai davanti alle fabbriche». Che la responsabilità sia anche della sinistra lo ammette Sandro Plano, il presidente della Comunità montana, nel Pd ma sempre a rischio espulsione: «La colpa - lo dice con amarezza - è nostra, bisogna ritrovare lo spirito dell'Ulivo».

Le cinque stelle prendono molto persino nelle roccaforti rosse della provincia torinese. Come Collegno, dove il Pd si «ferma» al sessanta per cento dei consensi: «Lasciando da parte il 75% delle regionali 2005, siamo calati di cinque punti dalle europee dello scorso anno. C'è un calo ma non parlerei di crisi visto che il partito resta su percentuali altissime», spiega il segretario Francesco Casciano. Anche da queste parti Bono ha rosicchiato un po'. Giusto cinque punti: «Ma la Tav non c'entra, il problema è l'antipolitica. Anche perché la crisi è fortissima. E quando a settembre finiranno gli ammortizzatori sociali, qui, in quella che era la seconda zona industriale d'Europa, la situazione si farà davvero dura».

Sara Menafra e Mauro Ravarino
Da il manifesto del 31 marzo

sabato 27 marzo 2010

Piemonte cercasi

Il Pd chiude la campagna elettorale sull'onda «socialdemocratica». Il segretario Bersani all'alba si fa trovare ai cancelli di Mirafiori. L'accoglienza è fredda, ma lui ci crede: «Proviamo a raccontare il paese reale». Poi corre verso la periferia torinese

TORINO - Corso Tazzoli, porta 2, è l'ingresso della fabbrica per eccellenza. Alle carrozzerie, come in tutta Mirafiori sono abituati ai politici in campagna elettorale. Ma forse non così all'alba («solo ai tempi di Berlinguer» dice qualcuno). E non alle cinque. In quegli attimi gli operai sono più ombre del solito. È, infatti, ancora buio quando Pierluigi Bersani arriva ai cancelli della Fiat, accompagnato dalla candidata a presidente del Piemonte Mercedes Bresso. L'oscurità è presto sciolta dai flash e dalle luci delle telecamere. È l'inizio di una lunga giornata, che qualcuno dei suoi fedelissimi definisce socialdemocratica, ma lui preferisce chiamarla «popolare». Ha voluto chiudere la campagna elettorale prima nel luogo simbolo del lavoro in Italia e poi in una piazza nella periferia di Torino: «Perché vado dove ci sono i problemi, non i miracoli. E vorrei un partito capace di guardare le persone all'altezza degli occhi».

L'impatto ai cancelli non è dei più caldi. L'accoglienza non è affettuosa (gli operai sono preoccupati per il loro futuro), ma nemmeno ostile. Anzi c'è chi dice subito: «Sono contenta vi siate svegliati al nostro orario». C'è però chi scappa via tra le due ali di giornalisti senza nemmeno fermarsi, altri gli stringono la mano, altri si fermano. Vogliono parlare. «Che fine ha fatto la norma sui lavori usuranti?» chiede un operaio. «È vero c'è la legge, ma il governo non la applica» risponde il segretario. Un'operaia si fa avanti: «Soltanto ora vi ricordate di noi e di come viviamo. Ho 34 anni, un compagno precario. Abbiamo rinunciato ad avere un figlio» dice a muso duro. Nina Leone è rsu Fiom alle carrozzerie, gli chiede un impegno sulla legge di iniziativa popolare su democrazia e rappresentanza sindacale: «Non posso essere contrario - dice Bersani, cauto - a una proposta che dà maggiore voce ai lavoratori».

Le tute blu vogliono rassicurazioni sul futuro: «Non lasciateci soli». Bresso tranquillizza: «Abbiamo incontrato la Fiat e ci hanno detto che non hanno intenzione di mollare Mirafiori, anzi, che faranno una nuova produzione». Ma non basta a levare le paure: «In questo paese - spiega Bersani - c'è un caso Fiat, per questo bisogna che si apra un negoziato nazionale e che il governo trovi il modo di portare al tavolo l'azienda e le organizzazioni sindacali per sapere cosa si vuol fare, perché non può essere che il Lingotto presenti il suo piano e il governo non ne sappia niente».

Per il comizio di chiusura, il Pd non ha scelto la solita piazza (Rifondazione è rimasta in centro, davanti al Carignano). É volato in periferia, Madonna di Campagna, piazza Villari. Il cuore di un quartiere popolare. Quando sale sul palco, Bersani dà la carica: «Due mesi fa ci pensavano confinati in una riserva indiana di 3 o 4 Regioni. Non è più così. E se ne sono accorti. Vedrete ci sarà un'inversione di tendenza». Spiega: «Abbiamo voluto portare sotto i riflettori il paese reale: lavoro, reddito, sanità, scuola. Questi sono i nostri valori, con la difesa della migliore costituzione del mondo, quella italiana». Racconta la sua campagna: «In ogni città ho voluto incontrare un'azienda in crisi, un quartiere popolare. Per imparare chi siamo noi, un grande partito popolare». Parla semplice, diretto. «Il capo del governo è nervoso, non sorride più, digrigna i denti. Ce l'ha con magistrati, sinistra mangia bambini e conduttori televisivi». Al nome di Santoro scoppia l'applauso. Poi: «Neanche in Iran provano a oscurare la comunicazione come qui». Si rivolge a Berlusconi, che non cita quasi mai per nome, lo chiama piuttosto «il miliardario», il surfista che va da un'onda a una balla: «Se non ti piace la televisione cambia canale. Come facciamo tutti i giorni quando vediamo la tua faccia».

Il Piemonte è una delle regioni in bilico, quella più simbolica («Si gioca al pelo, ma siamo fiduciosi»). Scalda la chiamata antileghista: «Non ci sarebbe Berlusconi se non ci fosse la Lega e il Carroccio non può fare tutte le parti in commedia: venire il week end a fare il partito del federalismo e del territorio e poi durante la settimane sostenere il miliardario con più passione di Cicchitto». E poi si rivolge a Cota: «Ha giurato nelle mani del miliardario a San Giovanni a Roma, non ci venga poi a parlare di autonomia, lui che si è inchinato all'imperatore. E domani quando Berlusconi chiederà di fare le centrali nucleari dirà di no?». Infine: «Il Pd deve essere il partito della nuova unità della Nazione e dell'antica Costituzione della Repubblica».

Prima aveva parlato Mercedes Bresso, il suo ultimo appello: «Dobbiamo tornare al governo del Piemonte e poi di quello nazionale. Fermeremo la Lega e i lumbard sul Ticino».

Da il manifesto del 27 marzo

mercoledì 24 marzo 2010

Pazzi per il cinema

Attraversano l’Abruzzo con un pullman per portare film e vita agli isolati delle new town. Loro, che sono Matti

L'AQUILA - Il brusio si sente anche dall’esterno, la stanza è una scatola sottile. Un container anonimo, come se ne vedono tanti dopo una catastrofe. Isolato, a lato dei padiglioni che un tempo ospitavano il manicomio di Collemaggio a L’Aquila. Rispetto ai muri crepati delle vecchie strutture, questo parallelepipedo bianco dà una certa sicurezza.

Ogni giorno si ritrovano qui una ventina di ragazzi del Centro di salute mentale. “Una beffa del destino tornare nel luogo che avevamo abbandonato più di dieci anni fa, al termine di una lunga lotta. È una collocazione di sofferenza, ma l’abbiamo accettata, dopo sette mesi passati in tendopoli”. Alessandro Sirolli, direttore del Centro, ha modi gentili e barba incolta. È uno psicologo di frontiera: allievo di Franco Basaglia, è stato impegnato fin dagli anni ’70 nel processo di smantellamento dei manicomi, in particolare quello di Collemaggio, chiuso nel 1996.

Ripartire dopo il terremoto non è stato semplice, ma Sirolli l’ha voluto fare proprio con i suoi matti e con un’iniziativa particolare. Dal 20 febbraio, infatti, gira con loro per le new town abruzzesi a bordo del Cinebus. “È un autobus trasformato in cinema -spiega lo psicologo-, per portare film e dibattiti nei nuovi quartieri, dove mancano spazi di socialità e la gente è sempre più isolata”.

L’Ama, l’azienda dei trasporti aquilana, ha concesso un pullman. La onlus romana “Chiara e Francesco” e l’associazione “180 amici” si sono fatte carico dell’impianto di proiezione e dei costi per due operatori. La prima tappa è stata la piazza del Duomo, nel centro de L’Aquila. Il Cinebus ha poi toccato le frazioni di Roio, Paganica e Colle Brincioni.

Il tour andrà avanti per tutta la primavera. Nei fine settimana il pullman raggiunge una delle new town, la gente si accomoda sui sedili e si gode lo spettacolo. Finora sono stati proiettati la fiction su Basaglia “C’era una volta la città dei matti”, “Si può fare”, del regista Claudio Manfredonia con la partecipazione di Claudio Bisio, e “Tutta la vita davanti”, di Paolo Virzì.

“È un ottimo modo per coinvolgere i matti, che mi accompagnano nelle diverse tappe del viaggio. Alla fine di ogni pellicola i cittadini e le persone che frequentano il Centro discutono di quello che hanno visto ma anche delle condizioni in cui stiamo vivendo oggi”.

Il contatto con la cittadinanza è linfa vitale per Sirolli e la sua attività. “Già prima del terremoto, avevamo pensato a una serie di iniziative da realizzare nella nostra sede appena ristrutturata, in via San Marciano, un palazzo settecentesco ora inagibile: un milione e 300mila euro di danni causati dal sisma”. L’idea era quella di presentare testi di scrittori abruzzesi. La scossa, però, ha sconvolto tutto. “Dopo il 6 aprile, la nostra terra si è riempita di giornalisti ed è arrivata una valanga di libri sul terremoto”, racconta Sirolli. I libri sono stati il primo veicolo per intraprendere quelli che lo psicologo chiama “laboratori di cittadinanza”.

I ragazzi di Sirolli hanno vissuto nelle tende, in mezzo agli altri. “Abbiamo scelto di stare nella tendopoli, quella del campo Globo, che si è trasformata nella sede provvisoria del Centro e in casa per decine di ragazzi che avevano perso la propria. Non senza resistenza della Protezione civile che ci voleva isolare su una collina. La tenda è uno spazio di socialità e contaminazione, proprio quello che cercavamo quando nel 1996 siamo usciti dal manicomio per permettere a queste persone di vivere in appartamenti in città”.

Il giorno dopo il terremoto era arrivata anche una proposta. Inaccettabile. “Tranquilli, ve li prendiamo noi i matti”. Erano i responsabili di Villa Pini, la casa di cura di Chieti di proprietà della famiglia Angelini, oggi al centro di un’inchiesta giudiziaria per truffa.

Sirolli ha voluto difendere i propri matti, scegliendo una soluzione precaria come quella della tendopoli. “C’era chi si lamentava perché il matto faceva la pipì fuori dalla tenda -ricorda-, poi magari si scopriva che era stato un vecchietto che non ce la faceva ad arrivare ai bagni. Ma soprattutto abbiamo ricevuto espressioni di vicinanza”. Il 2 novembre, quando il Centro è stato trasferito nel container e i ragazzi sono tornati a vivere nelle proprie case o nella new town, molti hanno pianto. “E ancora oggi se ci incontrano per strada ci chiedono come stanno Luigi, Danilo e gli altri”.

Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
Da Terre di mezzo di marzo

lunedì 22 marzo 2010

Spostare il processo «è uccidere ancora»

No a Genova, «l'Eternit resti a Torino»

TORINO - Siamo a un momento delicato del processo Eternit. La difesa sta cercando di spostare il dibattimento a Genova, sollevando una questione di competenza territoriale. «Perché in Liguria si trovava la sede legale», sostengono gli avvocati del magnate svizzero Stephan Schmidheiny e del barone belga Louis de Cartier de Marchienne, accusati di disastro ambientale doloso permanente e omissione dolosa delle norme di sicurezza. La questione era stata già respinta nell'udienza preliminare. «Se fosse accolta sarebbe devastante, se così non sarà, il processo si radicherà a Torino e si potranno finalmente sentire i testimoni», spiega Davide Petrini, avvocato di parte civile.

La scorsa settimana fuori dalla sede della Regione Piemonte in corso Stati Uniti è comparso uno striscione: «Spostare il processo a Genova è come uccidere una seconda volta». All'interno, si svolgeva un convegno promosso dalla Iban (International Ban Asbestos Network), in cui si sono alternate testimonianze da ogni paese. Una accanto all'altra, dimostrando come «l'avvelenamento» dell'Eternit fosse frutto di una politica mondiale, deciso da una testa dirigenziale. Prima in Occidente e poi, dopo il bando dell'amianto, nei paesi in via di sviluppo.

L'Eternit in Europa era un sistema, una ragnatela difficile da scalfire. Fatta di fabbriche e relazioni, di polvere e potere, di tettoie e tubature. Faceva profitto e dava lavoro, anche parecchio. Si era costruita un aspetto materno: concedeva una casa agli operai, a cui regalava il «polverino» (gli scarti della produzione). Ma che fosse maledettamente cancerogeno non glielo diceva. Madre e mostro. In Belgio l'abbraccio si faceva stretto. «Gli orari dei treni corrispondevano a quelli degli stabilimenti, i medici dell'impresa erano gli stessi di famiglia. La polvere era ovunque, noi bambini ci giocavamo in mezzo. L'azienda rassicurava, dicendo che l'amianto non aveva nulla a che vedere con l'asbestosi». Lo racconta Eric Jonckheere, fondatore della Abeva, l'associazione belga delle vittime: «Sono cresciuto a Kapelle-Op-Den-Bos, dove mio padre lavorava come ingegnere all'Eternit. Solo quando si ammalò di mesotelioma si dissolse l'inganno, l'azienda ci contattò per risolvere la faccenda, mia madre rifiutò. Anche lei morì, poco dopo mio padre, della stessa malattia, pur non essendo mai entrata in fabbrica. Poi, ho perso due fratelli». Una famiglia spazzata via dall'amianto: «L'Eternit se n'è andata, lasciando centinaia di morti. Senza preoccuparsi della bonifica».

Bob Ruers, avvocato olandese, ha assistito 1.500 persone negli ultimi quindici anni. Anche nei Paesi Bassi (485 morti l'anno di amianto) l'azienda regalavano il polverino: «Conosceva la pericolosità, ma non diceva nulla. Era una via indiretta per smaltire i rifiuti gratuitamente». Franco Basciani è un ex lavoratore dell'Eternit di Niederurnen nella Svizzera tedesca. «Noi emigranti italiani guardiamo con attenzione al processo di Torino. A Zurigo, i tentativi vengono tutti sconfitti dalla prescrizione, che inizia non dal momento in cui contrai la malattia ma da quando sei sei stato esposto». Nel Paese si sente ancora il peso politico di Schmidheiny: «Nella sua biografia racconta che ai tempi della presidenza Eternit voleva installare aspiratori, ma i lavoratori si opposero. Se lui avesse detto che le fibre di amianto uccidevano, gli operai non ci avrebbero più messo piede».

Da il manifesto del 21 marzo

domenica 21 marzo 2010

Piemonte al bivio tra Lega e sinistra

La regione sul filo del rasoio. Se la destra vince, può fare il cappotto nell'intero nord. Rischio astensione

TORINO - L'hanno soprannominata l'ultimo baluardo, altri invece un laboratorio. Mentre corrono per le vie di Torino le api-car con il faccione di Roberto Cota e sfreccia, lungo corso Vittorio, il pullman della Bresso con l'icona di una sorridente Mercedes, la città della Mole - in crisi e sonnacchiosa - si ritrova d'un tratto sotto i riflettori elettorali. Investita da ruoli e doveri. Pierluigi Bersani l'ha detto esplicitamente: «Il Piemonte è la priorità». Ecco perché chiuderà qui la campagna elettorale. È la sola grande regione del Nord che il centrosinistra può strappare al dominio del centrodestra. Poi, il discorso del laboratorio: l'alleanza tra il Pd e l'Udc, mal digerita dalla sinistra che ha comunque dato appoggio all'attuale presidente Bresso: la Federazione della sinistra con un accordo tecnico (programmi distinti: un posto dentro il listino, ma fuori dalla giunta) e Sinistra ecologia e libertà, un accordo pieno (programma condiviso, però fuori dal listino).

Si arriverà sul filo del rasoio. E proprio il popolo della sinistra, in bilico tra disillusione e paura dell'avanzata leghista con tutto il côté di razzismo annesso, potrebbe essere l'ago della bilancia. Ieri, la Bresso ha esclamato: «Fermeremo i "lumbard" sul Ticino. Non abbiamo niente contro i lombardi ma contro i 'lumbard' che sono tutta un'altra cosa». La «zarina» sembra in vantaggio, il suo staff è ottimista, ma gli ultimi sondaggi registrano solo un punto percentuale in più. Non così tanto da dormire sonni tranquilli. «Temo il non voto, soprattutto dei delusi di sinistra. Ma ci spero. Le prossime elezioni sono un sondaggio sulle condizioni della tenuta di democrazia in Italia. Se vincono i barbari sarà un duro colpo», commenta Diego Novelli, lo storico sindaco del Pci (1975-1985), che non ha appeso l'impegno al chiodo. Sta fuori dai partiti, non vuole essere preso per la giacchetta, ma giovedì scenderà in piazza per sostenere la Bresso, davanti al Carignano, dove è nato il primo parlamento italiano. Su facebook, il gruppo promotore «No Padania, questa Regione non la lega nessuno» ha raccolto in pochi giorni 5mila adesioni.

I due sfidanti principali (gli altri sono Davide Bono, medico di 29 anni portavoce del Movimento Cinque Stelle, e Renzo Rabellino, mago delle liste civetta, due cassate dal Tar: lista Cota e Lega Padana) hanno inaugurato il Ballarò itinerante di Floris. Con colpi ben poco di fioretto: la Bresso dà del «lumbard» a Cota che risponde con disprezzo chiamandola «francese». La territorialità è il primo punto nel programma del capogruppo alla Camera della Lega: «Chi arriva per ultimo, non può pretendere di passare per primo. Priorità ai cittadini nell'assegnazione di case popolari, asili e servizi». E, nei giorni scorsi, passeggiando con Mario Borghezio a Porta Palazzo, descritta come Tunisi, ha aggiunto: «Un buono a tutti i sedicenni piemontesi da 50 euro per i libri». E poi, strali contro la proposta del comune per gli asili aperti ai figli di immigrati irregolari.

L'emergenza in Piemonte è il lavoro. A settembre 2009 il tasso di disoccupazione è balzato al 6,5% rispetto al 4,8% dell'anno prima. La Bresso ha promesso nei primi cento giorni un fondo speciale da 15 milioni di euro per favorire i giovani talenti piemontesi alla ricerca di occupazione. Cota, un piano straordinario per la difesa e la creazione di opportunità lavorative. E ancora «la localizzazione della nuova Città della salute». Se ne parla da 7 anni, in mezzo agli scandali delle tangenti alle Molinette. Soprattutto se farla a Torino o a Grugliasco. Il problema non è tanto il dove (al di là dei fondi che ritardano), ma il come. Il modello di Cota è quello di Don Verzé e del suo San Raffaele. E, in tema di sanità, c'è anche attenzione all'alleanza con l'Udc, che potrebbe condizionare le scelte. Sulla Fiat, cautela. No netto della Bresso al nucleare, Cota ondivago (sì all'atomo, ma non nel mio giardino). Vanno, invece, d'accordo sulla Torino-Lione.

Nei social network, il movimento valsusino discute: chi non vota, chi appoggia pezzi della sinistra, chi si oppone alla Lega e chi spinge per il movimento Cinque stelle, che dice no alla Tav. Davide Bono è il candidato a presidente: «Non ci sentiamo più rappresentati dai partiti dell'arco costituzionale. Bresso e Cota sono sullo stesso piano. Vogliamo cambiare la classe politica e il modello di sviluppo. Abbiamo formato una lista civica di non iscritti a partiti e incensurati, pensiamo che la sostenibilità non sia solo necessità ambientale ma anche economica e sociale, per posti di lavoro non precari».

La Bresso ce la farà, se Torino e la provincia terranno. E se la chiamata al fronte democratico antileghista funzionerà. Nel resto del Piemonte la sfida è forse persa. Interessante Vercelli, capire se influirà sul voto l'arresto per tangenti del presidente della provincia, Renzo Masoero (Pdl). Da ex distretto rosso è diventato feudo di Forza Italia e ora grancassa dell'entusiasmo leghista, dove il parlamentare Gianluca Buonanno ha scelto come slogan: «Bisogna mandare a casa chi non ci tutela e dà soldi agli zingari».

Da il manifesto del 21 marzo

giovedì 18 marzo 2010

Trenitalia, per molti ma non per tutti. Mai per le persone disabili

Con l'Alta velocità cambiano le regole sui treni di linea: diventano off-limits le carrozzine dei portatori di handicap. La storia di Riccardo

Prendi l'alta velocità e hai l'assistenza assicurata, ma il Frecciarossa costa caro e ferma solo nelle grandi città. Se prendi invece un treno di linea, magari il Torino-Milano, rischi che Trenitalia ti lasci a piedi: te e la tua carrozzina. O al massimo, un addetto ti può accompagnare fino al convoglio e poi te la devi cavare da solo. Un tempo non era così: «C'è stata un'involuzione progressiva», racconta Riccardo Corsano, 34 anni, di Novara, che l'ha patita sulla sua pelle. «La mia sarà una piccola storia ma è l'anello di un sistema, di una discriminazione che aumenta. E ho capito che bisogna dire basta e smetterla di stare zitti».

Il treno per Milano è partito e se n'è andato senza di lui. Non c'era posto, non c'era spazio per i disabili e non c'era nessuno che potesse aiutarlo: servizi diminuiti e treni non conformi. «Mi costringono ad essere un peso, ad essere quello che non sono», si sfoga Riccardo che lavora all'Ufficio relazioni con il pubblico dell'Ospedale Maggiore di Novara. Non camminando dalla nascita è costretto a servirsi di una sedia a rotelle. «Due settimane fa ero in servizio e ho chiesto a mia mamma di andare in stazione per prenotare un viaggio andata e ritorno per Milano, volevo andare a vedere qualche mostra d'arte. Se sei disabile devi prenotare il treno almeno due giorni prima, una delle tante privazioni alla libertà di circolazione». E allo sportello qual è stata la risposta?: «Trenitalia non effettua più nessun servizio per i clienti disabili sulla tratta Torino-Milano, a eccezione di coloro che possono camminare quel tanto che basta per raggiungere i sedili all'interno, anche perché nella maggioranza dei casi le sedie a rotelle sono più larghe della porta degli scompartimenti».

Riccardo parla pacatamente, ma in modo fermo, rompe lo steccato del silenzio: «Questa volta ho preso carta e penna, ho voluto raccontare la mia situazione, che è uguale a quella di tanti altri, per smuovere le coscienze. Sono pronto a intraprendere pure un'azione legale». Continua il racconto: «Fino allo scorso anno si poteva viaggiare ma su treni decisi dall'azienda, ovvero quelli dotati di attrezzatura per accedervi. Ma molte vetture, come ho saputo dagli stessi impiegati, non hanno superato i controlli previsti dalle norme europee. Prima, invece, viaggiavo tra uno scompartimento e l'altro, come un cittadino di serie C, però almeno potevo muovermi. Ora Trenitalia obbliga i clienti disabili a viaggiare solo quando e come decide l'azienda. E talvolta, vedi il mio caso, impedisce del tutto di usufruire del servizio».

Abbiamo, allora, provato a chiamare l'assistenza clienti di Torino, la risposta è stata: «Da Torino non c'è problema se si prende l'alta velocità (a Novara non ferma, ndr), se si usufruisce invece della tratta normale c'è solo un treno attrezzato, quello delle 21,50. Noi possiamo aiutare il cliente a salire sul treno, ma oltre non possiamo prenderci la responsabilità».

Per Riccardo la carrozzina, per quanto sofferta e penalizzante, è un osservatorio privilegiato per vedere i problemi. Perché ti arrivano in faccia. «Ma gli occhi della gente sono sempre più chiusi. Si sente spesso parlare di diritti dei disabili, l'Italia ha recepito la Convenzione Onu e il governo ha sottoscritto i provvedimenti dell'Ue sulla libera circolazione delle persone disabili». Anche Trenitalia ha un regolamento per l'assistenza, visibile sul sito. «Ma nella realtà, lo noto nella vita di tutti i giorni quando al bar i bagni per i disabili sono usati come ripostiglio, stiamo regredendo. E se non posso nemmeno prendere il treno come posso essere autonomo, avere amici, una relazione o stare da solo?» Ecco: «Come posso non essere considerato diverso?».

Da il manifesto del 18 marzo

sabato 13 marzo 2010

«A Torino asili aperti ai clandestini»

Il sindaco Chiamparino dopo la sentenza della Corte: «Noi non torniamo indietro»

TORINO - Se la Cassazione fa marcia indietro, Torino non farà un dietrofront. «Il progetto di asili aperti ai figli degli immigrati senza permesso di soggiorno va avanti». Lo afferma il sindaco Sergio Chiamparino e lo ribadisce l'assessore all'istruzione Beppe Borgogno. Nonostante il decreto Maroni e nonostante la sentenza della Corte. «Anche se - precisa subito l'assessore - non c'entra nulla con la nostra iniziativa. E non ci faremo trascinare nella polemica».

Il giorno prima della sentenza ci aveva provato Mario Carossa, capogruppo del Carroccio in Comune, tuonando contro la possibilità data ai figli di irregolari di iscriversi alla materna: «Non possiamo più tollerare che siano sempre privilegiati gli altri e che i piemontesi siano sempre al fondo». Borgogno quasi stupito: «La Lega se ne accorge solo ora, capisco che siamo in campagna elettorale, ma è da luglio che denunciamo l'incoerenza di una norma del pacchetto Maroni, che consente ai figli di cittadini irregolari di essere iscritti alla scuola dell'obbligo ma non alla materna. Ci siamo mossi contro una discriminazione». Fa una pausa e dice: «Non posso proprio pensare che per combattere la clandestinità si debba impedire a bimbi dai 3 ai 6 anni di andare a scuola».

Quando lo raggiungiamo al telefono, Borgogno è in macchina, il sole è quasi calato e nel cielo di Torino non c'è più la neve dei giorni scorsi. Il teatrino dei commenti si è scatenato da un pezzo e dall'altro capo della cornetta l'assessore non riesce a trattenere il disappunto: «Si sta facendo solo confusione. La sentenza e il progetto sono due cose distinte, quello che è successo non sposta una virgola». Non la pensa così il coordinatore del Pdl piemontese, Enzo Ghigo: «Il Comune deve tenere in considerazione la sentenza e attivarsi affinché siano tutelati i diritti dei minori ma anche la legalità». Sulla retromarcia della Corte il parere di Borgogno è istituzionale: «Le sentenze non si commentano, si applicano». Ma il tono non cela l'insoddisfazione.

L'intento del progetto torinese l'aveva spiegato qualche ora prima il sindaco Chiamparino: «Abbiamo esteso alle materne quello che è già previsto per tutta la scuola dell'obbligo, ossia che i funzionari scolastici non sono tenuti a denunciare genitori clandestini. E una norma di buon senso, che scatterà con le prossime iscrizioni. Prendiamo il caso di due fratelli, figli di irregolari, uno di 6 e l'altro di 5 anni: mi sembra ridicolo che il primo possa andare tranquillamente alla prima elementare, e l'altro sia trattato come un elemento socialmente pericoloso. E che dire poi di tutti gli irregolari che sono in attesa di permesso di soggiorno?». Ottomila solo a Torino.

Sono otto mesi che il Comune, con tanto di carta e penna, prova a comunicare al governo la volontà di non fare discriminazioni. Di ammettere tutti a scuola. «Abbiamo deciso - afferma Borgogno - di mettere in primo piano il diritto dei più piccoli ad avere una famiglia e un percorso educativo». Un diritto che viene messo a rischio dal pacchetto Maroni: «La denuncia del nucleo familiare è in contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, con la Costituzione e con il diritto dei bambini ad avere dei genitori». Niente di improvvisato: «Ci siamo consultati con giuristi. Se il decreto permette l'iscrizione alla scuola dell'obbligo, noi vogliamo estenderla ai cicli scolastici che lo Stato e il Comune sono obbligati a fornire, materna compresa».

Ma alla proposta il governo ha fatto orecchie da mercante, zero risposte: «Noi siamo andati avanti comunque e abbiamo completato le prescrizioni». Sui numeri c'è il più stretto riserbo. «Non sono molti». E sono in calo rispetto agli anni scorsi. Vince, quindi, la paura di essere denunciati come clandestini.

Da il manifesto del 12 marzo
Sullo stesso numero: Cassazione senza pietà di Giorgio Salvetti

giovedì 11 marzo 2010

Valledora: una storia di resistenza

Trecento chilometri quadrati di pianura padana tra le province di Vercelli, Biella e Torino, tra le risaie e il lago di Viverone, fino alle propaggini della Serra di Ivrea. Un territorio di confine, che ospita i depositi di scorie nucleari di Saluggia e Trino, le centrali termoelettriche di Livorno Ferraris e Chivasso, le cave di Tronzano, la linea ad Alta velocità Milano-Torino e le discariche di Cavaglià e Alice Castello. In questo comune sono stoccati due milioni e cinquecentomila metri cubi di rifiuti. E di siti ce ne sono addirittura tre. Il più recente doveva essere una bonifica dei precedenti, ma si è trasformato in una nuova discarica, più grande delle altre due messe insieme: un milione e duecentomila metri cubi. Una concentrazione di impianti inquinanti forse unica in Italia.

Che le cose stavano cambiando si capiva già a inizio anni '90, ma prima che si formasse una coscienza collettiva su quello che stava accadendo di anni ne sono passati ancora. Col tempo sono nati comitati operativi nei paesi della zona. Mancava solo un’unità d’azione. Così il 7 novembre 2007 si sono riuniti in un’unica sigla: Movimento Valledora. Un nome per dare seguito a una critica condivisa, un modo per dire che i problemi non sono singole realtà a sé, ma fanno parte di una più ampia problematica. «Siamo come Don Chisciotte e stiamo lottando contro un nemico invisibile, che ci arriva da ogni parte. La cattiva pianificazione territoriale», spiega Anna Andorno, portavoce del Movimento.

Quel giorno di novembre si incontrarono i comitati di Livorno Ferraris (con la lotta contro l’inceneritore ne è stato l’ispiratore), Borgo d’Ale, Alice Castello, Cavaglià, Tronzano e Santhià, dove si era costituito un gruppo di donne. Si trovarono per firmare una carta d’intenti. In seguito si aggiunsero quelli di Viverone e Moncrivello. Finalmente si partiva, parola d’ordine: «Salvare ciò che resta del nostro territorio e delle nostre storie». L’inizio, darsi un metodo e coordinarsi, non è stato facile. «Ma siamo cresciuti – racconta Anna Andorno -, abbiamo acquisito competenze. Ci battiamo perché si riprenda a

lottare per avere dignità e rispetto. Sembrerebbe un obiettivo timido, invece, è il primo passo verso qualcosa di rivoluzionario. Amare il proprio territorio non significa avere una senso protettivo o esclusivo nei suoi confronti, si tratta di ragionare in modo civico, di muoversi in una dimensione sociale, di non restare indifferenti ai problemi e di trattarli con partecipazione viva. Per fare questo abbiamo dovuto studiare, ricercare, informarci, chiedere consulenze, trattare con la diffidenza del potere politico».

La loro zona la raccontano come un territorio di confine “da colonizzare”. Non sanno dove mettere un impianto inquinante? Allora, lo piazzano qui ai confini tra le province, sperando di non avere troppe noie dagli abitanti. Ma c’è chi non ci sta: «Facciamo informazione – spiega ancora Andorno - verso la popolazione, le scuole, i gruppi. Da qui, l’idea di un documentario. Cercavamo un mezzo per arrivare al maggior numero di persone possibile, ci siamo autotassati e abbiamo affidato l’incarico al regista più bravo della zona, Matteo Bellizzi (autore di “Sorriso amaro”, ndr)». Un lavoro duro, 35 ore di ripresa. «Abbiamo trascinato Matteo ai convegni, ai tour sulle discariche, ai dibattiti nelle piazze, nelle cascine per intervistare i contadini locali». Poi la suspense del montaggio e la nascita di “Valledora. La terra del rifiuto”. «Un film bellissimo, vero, caldo. Il nostro problema è riassunto in 63 minuti e c’è proprio tutto. Matteo ha creato i personaggi e finalmente Valledora ha la sua storia».

In questi oltre due anni di lavoro il Movimento Valledora è diventata una presenza costante e “fastidiosa” sul territorio, con interventi puntuali ogni volta che si è prospettata l’apertura di un nuovo impianto potenzialmente inquinante. «Per ogni richiesta di apertura di cave, discariche o impianti richiediamo il progetto, informiamo la popolazione attraverso serate e volantinaggi, presentiamo osservazioni e tentiamo di incontrare le istituzioni». Una procedura che gli attivisti ripetono anche ad ogni nuova legge regionale o iniziativa provinciale che viene avanzata. E i primi segnali di ascolto da parte delle istituzioni sono arrivati. Il sindaco di Moncrivello (Vercelli) ha votato una mozione contro l’apertura di nuove cave sul territorio, anche se la ditta interessata ha comunque presentato una pratica di autorizzazione. Inoltre, la Regione Piemonte, anche sull’onda delle richieste del Movimento, ha commissionato il documento “Ipotesi di Piano strategico della Valledora”, che racconta lo scempio perpetrato a danno delle popolazioni locali e di quest’area in cui crescono i rischi per la salute se si considera la presenza delle falde acquifere e il pericolo che vengano inquinate dalle sostanze che si depositano nel sottosuolo.

E poi le azioni legali, difficili da portare avanti autonomamente perché costose. «Lavoriamo per i ricorsi al Tar con gli avvocati di Legambiente, Pro Natura e Lipu. Attualmente è in corso un’indagine della magistratura su un nostro esposto per un presunto danno ambientale provocato da una cava. In passato invece abbiamo vinto contro la provincia di Biella il ricorso sul Bioreattore di Cavaglià e abbiamo ottenuto un’ispezione della provincia di Vercelli alla discarica Ciorlucca di Alice Castello, dove sono state rilevate irregolarità”.

Un’attenzione allargata verso tutto ciò che può essere uso improprio del territorio e al tempo stesso risposta all’eccessivo consumo, a partire dalla più semplice delle azioni, come la raccolta differenziata. Anche per questo il Movimento Valledora ha aderito al Manifesto nazionale di “Stop al consumo del territorio”, un’iniziativa portata avanti da diversi comuni e associazioni italiane per sensibilizzare cittadinanza e istituzioni contro l’irrefrenabile marcia del cemento e lo sfruttamento incondizionato del paesaggio. In questo senso, ad esempio, a fronte della futura costruzione di tre nuove discariche nel comune di Livorno Ferraris il Movimento ha lanciato una petizione per l’impianto di 20mila alberi al posto di una discarica. «Siamo folli... – sorride Anna Andorno – Ma la nostra unica speranza è la coscienza dei cittadini. Che si risvegli e poi... nessuno ci fermerà».

Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
da Cenerentola di febbraio

giovedì 4 marzo 2010

La Fiom di Torino: «Democrazia, non siamo minoranza»

Airaudo e Rinaldini ribadiscono le ragioni della mozione Due. E fanno i conti con la crisi

La sfida è la democrazia. All'interno dell'organizzazione. Come fuori, a difesa della Costituzione e dei diritti dei lavoratori. Democrazia è stato uno dei termini più ricorrenti negli interventi al congresso provinciale della Fiom di Torino. «L'unità è un bene prezioso ma vive solo nell'affermazione di una democrazia interna», ha detto il segretario generale Gianni Rinaldini, denunciando come la seconda mozione al Congresso Cgil sia stata presentata solo nel 50% delle assemblee. E il segretario torinese Giorgio Airaudo ha precisato: «A chi ci vuole identificare come una mozione, noi ribadiamo che siamo una categoria della Cgil, i metalmeccanici non possono essere considerati minoranza».

Per Airaudo non è un appuntamento come un altro. Dopo 8 anni finisce il suo mandato (in futuro, la segreteria regionale o nazionale). Anni intensi raccontati con commozione davanti alla platea. Con la gratitudine «di aver ricoperto il ruolo di segretario a Torino, uno degli incarichi più alti per un sindacalista». Il pregio della contaminazione nel movimento: «Sotto la Mole sarebbe meglio l'auto elettrica della Tav». E un cruccio: il rimorso della Thyssen. Sotto la sua segreteria la categoria è cresciuta: 19600 iscritti, la più numerosa d'Italia.

L'ultimo anno è stato quello della crisi con presidi in 35 aziende: «Ma il 2010 sarà peggiore e molte imprese stanno avviando ristrutturazioni al buio. Vedrete che gli esuberi saranno nell'ordine del 30%». E la Fiat di Marchionne: «Guarda più agli Usa che al nostro paese e vuole scaricare sui lavoratori i costi della permanenza in Italia (più ore e meno salario)». Nel torinese, le emergenze «ex Iveco e Cnh di San Mauro, che hanno quasi esaurito la cassa. A Mirafiori, invece, ce ne sarà di più».
L'accordo separato di Cisl e Uil sui contratti rimane una ferita aperta. Lo hanno sottolineato sia Airaudo che Rinaldini. «Un punto di non ritorno, se ne esce solo con regole democratiche». Per Rinaldini «il sindacato è in crisi e il confronto può solo ripartire da un ragionamento sulla riunificazione dei diversi rapporti di lavoro: basta parasubordinati e interinali».

Ma mentre la Fiom si prepara a raccogliere le firme per la proposta di legge di iniziativa popolare sulla rappresentanza (delegati in ogni azienda), il governo torna all'attacco: «Si inventa - afferma Rinaldini - nuovi contratti interinali (il lavoro a chiamata e l'affitto a tempo indeterminato) e poi attacca di nuovo l'articolo 18». Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele, è stato ospite del congresso: «Io c'ero il 23 marzo 2002 a difendere un diritto fondamentale. Ora dico che non basta l'indignazione, serve il disgusto. Siamo di fronte a una crisi totale, etica e politica». E Rinaldini: «Lo sciopero del 12 marzo dovrà essere come una vertenza nazionale». Infine il leader Fiom chiede che «il governo convochi un tavolo con Fiat e sindacati prima del 21 aprile», data in cui il Lingotto dovrebbe illustrare il piano industriale.

Da il manifesto del 4 marzo

sabato 27 febbraio 2010

«Non mi importa delle regioni»

Berlusconi a Torino mette le mani avanti: «In queste elezioni conta solo il risultato totale». Attacca i magistrati «talebani» e molla il senatore «portato da Alleanza nazionale». Protesta delle toghe

TORINO - La maschera è quella di sempre, nasconde le smorfie. Ma questa volta non basta il classico sorriso: il corpo è teso. Inquieto, nervoso. E non si tratta del continuo annuire al candidato del Pdl in Piemonte, Roberto Cota (Lega Nord), lo sfidante di Mercedes Bresso. Si vede che il presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, è preoccupato. Anche per l'esito delle prossime regionali. Fa lo spavaldo, ma mette le mani avanti. A chi gli chiede quante regioni bisogna conquistare per dirsi soddisfatti risponde: «Non conta il numero, il risultato che consideriamo di dover ottenere è quello di avere una forte maggioranza di elettori nei confronti della sinistra». Poi aggiunge: «Speriamo nella maggioranza nella Conferenza Stato Regioni».

Per il resto, Berlusconi - ieri a Torino a inaugurare la campagna elettorale del centrodestra - ha rinvigorito il quotidiano attacco alla magistratura. A muso duro. «Il male terribile dell'Italia, la vera patologia è la politicizzazione della magistratura, cioè l'uso politico della giustizia». Ed è per questo che promette a breve una riforma della giustizia «che non piacerà a quella una banda di pm talebani che intervengono con propositi eversivi nella vita democratica». Ci tiene a precisare il termine «banda». Per l'Anm sono insulti intollerabili. La frase entrerà nel fascicolo aperto da tempo dal Csm a tutela di magistrati oggetto di accuse da parte del premier.

Ma non vuole fare di tutta l'erba un fascio: «Fortunatamente non tutti sono talebani». La moglie di Cota, per esempio: «Roberto ha un solo difetto, aver sposato un magistrato - dice con sorriso sornione - ma lei è una di quelli perbene».
Poi - appena dimenticatosi la frase «la sovranità non è più nel popolo ma nei pm» - gira a suo favore la sentenza della Cassazione che due giorni fa ha dichiarato prescritto il reato per il quale l'avvocato di Berlusconi David Mills era stato condannato in primo e secondo grado. Non importa se prescritto significa anche colpevole: «Il caso Mills è una invenzione pura, assurda». Quanto al processo gemello, che lo vede imputato come presunto corruttore di Mills, che riprende oggi e che avrà ancora più di un anno per arrivare almeno alla sentenza di primo grado: «Voglio venirne fuori con una assoluzione piena».

Sul senatore Nicola Di Girolamo e sui suoi rapporti con l'ndrangheta il presidente del consiglio fa quasi lo gnorri. «Non leggo i giornali, proprio come faceva la Thatcher». Precisa di non averlo mai conosciuto e con un colpo da maestro scarica le responsabilità su Alleanza nazionale: «Non è stato portato da gente di Forza Italia, ma da un responsabile di An che non ho il piacere di conoscere». Infine fa capire con estrema chiarezza che del destino del senatore non gli importa granché. E' una vicenda «grave», dice invocando la riforma sul voto degli italiani all'estero.

Oltre alla giustizia, ci sono le elezioni. E alla conta delle regioni, da ieri Berlusconi preferisce quella degli elettori. Non si sbilancia, qualcuno forse lo avverte che il consenso potrebbe calare. Però, sotto la Mole deve pur dare un segno di ottimismo: «Roberto Cota sarà il governatore del Piemonte» esclama senza dubbi. Lo elogia e lo ricorda giovane, quando - alle tradizionali cene del lunedì ad Arcore con Umberto Bossi - era proprio il futuro capogruppo della Lega in Parlamento ad ammansire il Senatur: «Mi rivolgevo a lui quando dovevo convincere Umberto».

Ma la paura c'è. E, davanti ai giornalisti - alla prima uscita elettorale - il premier Berlusconi rispolvera il vecchio slogan: «Una scelta di campo». Elencando i motivi per cui non si deve votare la sinistra, «il polo dell'invidia». L'Udc non c'entra: «Non ha nulla da spartire con il Pd, soprattutto dopo che si è ammanettato a Di Pietro». «Non votateli perché vogliono reintrodurre l'Ici, raddoppiare le tasse sulle rendite finanziarie, aumentare la tassa sul patrimonio e introdurre uno Stato di polizia tributaria attraverso il controllo dei pagamenti in contatti. La sinistra vuole impedire l'attuazione del "piano casa" attraverso il controllo delle Regioni. E spalancare le porte agli immigrati». Fuori tema, l'ultima cartuccia: «Basta con le intercettazioni, le modificheremo, perché così è uno Stato di polizia».

Da il manifesto del 27 febbraio