giovedì 24 dicembre 2009

La ruspa di sinistra

Rischio cemento sotto la Mole. Si chiama Bor.Set.to dal nome dei comuni coinvolti: Borgaro, Settimo e Torino. E' un'area verde grande come Central Park su cui da anni puntano gli speculatori - dal Vaticano a Sindona a Ligresti - che riescono a imporre alla politica (di centrosinistra) «utili» modifiche

TORINO - Fortuna che c'è la crisi a placare un po' il pressing delle ruspe. Se no, non si fermerebbero mai. Già che di suolo se ne mangiano, in Italia, quasi 250 mila ettari l'anno. E in 16 hanno costruito un'altra Torino ai margini della città, con un aumento di superficie edificata in provincia di 7.500 ettari. Dati che raccontano di un progressivo prevalere della grande e media proprietà immobiliare sui poteri di controllo degli enti locali. Di una politica non più attenta alle esigenze della collettività. Niente di nuovo, è una spirale che affonda le radici negli anni Ottanta e ha contaminato anche la sinistra. Ma ciò che emerge nell'ultimo periodo è la capacità dei privati di imporre alle assemblee elettive la propria visione urbana (il proprio tornaconto). Mega progetti di cittadelle sportive, parchi divertimenti, villaggi residenziali in stile berlusconiano, che fanno leva sul simbolico, ma non rispondono mai a una reale domanda. Sintomo di una «bolla culturale» da cui non riusciamo a scuoterci. E, a tutto questo, si aggiungono gli strumenti di programmazione territoriale che si sostituiscono alla pianificazione urbanistica e ai vincoli che impone.

Ai tempi della giunta Novelli
«I progetti dei grandi potentati sono presentati come occasione irripetibile per assicurare un vantaggio alla collettività in termini di sviluppo economico e sociale». Lo spiega Raffaele Radicioni, uno che di urbanistica se ne intende: è stato assessore delle giunte Novelli dal 1975 al 1985. Quando si pensava a una Torino dalla struttura «a griglia» invece che radiocentrica, a rompere i confini tra centro e periferia, a trasformazioni urbane svincolate dalla rendita fondiaria, ad aprire a tutti l'elitaria collina e a ridurre il costo della casa. Allo stato delle cose, ha perso, ma alle sue idee ci tiene. E negli ultimi anni, oltre a essere l'autore del libro Torino invisibile, è stato protagonista di una lotta contro un progetto che racchiude lo scarto culturale di un'epoca. E anche le contraddizioni: «Un baratto tra pubblico e privato per costruire dove non si poteva». È il caso Bor.Set.to, acronimo che prende il nome dai comuni che in quest'area, nella zona nord di Torino vicino alla tange nziale, si incontrano: Borgaro, Settimo e Torino. Un territorio conteso da 40 anni, che ciclicamente torna a far parlare di sé. Un polmone verde grande quanto Central Park, tre milioni e 200 mila metri quadri; l'unico spazio agricolo ai confini della metropoli. Nel passato ha fatto gola a Sogene, l'immobiliare prima del Vaticano poi di Michele Sindona, che sul terreno voleva dar luce a una «Città Satellite» da 60 mila abitanti e, negli ultimi anni, alletta Salvatore Ligresti. Il re del mattone, nonché della finanza, che - gettati alle spalle i guai giudiziari di Tangentopoli (condanna a 2 anni e 4 mesi per lo scandalo Eni Sai) - ha allungato le mani, o meglio il cemento, su Torino. Nel 2007 fu accolto con fasti dal sindaco Sergio Chiamparino. Arrivò in elicottero per la conferenza del MiTo, la manifestazione musicale tra Milano e Torino, e si incontrò in gran segreto con le istituzioni sabaude. Se ne fece un gran parlare. Sembrava che Totò avesse le mani sulla città: un grattacielo vicino a Porta Susa (accanto alla contestata Torre Intesa-Sanpaolo di Piano), dove insediare il quartiere generale di Sai Fondiaria di cui è presidente onorario, un altro lungo la Spina, la realizzazione della Biblioteca civica e il «gran baratto» del Bor.Set.to.

L'Expo di Milano sposta gli interessi
Ligresti, in quest'area, vorrebbe costruire una Falchera 2 (una delle ipotesi era di 1500 alloggi al posto del futuro parco dei laghetti). Diciamo un'edizione più à la page dell'attuale quartiere popolare, o forse per ironia della sorte una Milano 4, per la vicinanza con la futura stazione dell'Alta velocità, Torino Stura, che la renderebbe più appetibile ai palati meneghini. Adesso è tutto fermo: non è più il 2007, c'è la crisi e c'è anche l'Expo di Milano, dove si stanno concentrando le mire del patron di Sai. Il progetto rimane congelato ma non si sa fino a quando: «Probabilmente aspettano, con la fine del passante ferroviario nel 2012, le migliori opportunità immobiliari - pungola Emilio Soave, Pro Natura - perché, come ama ripetere l'assessore all'urbanistica del comune di Torino, Mario Viano, al privato si devono sempre fornire le più agevoli condizioni per investire». Ma anche nella tregua, meglio tenere le attenne ritte: «Un leitmotiv entra nel subconscio della gente come un mantra. Dicono, tanto non lo faranno mai, poi, appena l'attenzione scema, ecco le ruspe» sbotta Lucia Saglia, consigliere comunale Prc di Borgaro e animatrice del Coordinamento per la difesa delle aree Bor.Set.To.

All'inizio fu il Vaticano
Meglio raccontarla dall'inizio questa storia. «È uno dei più significativi casi di subalternità degli interessi pubblici rispetto a quelli privati», spiega Radicioni, storico membro del Collettivo d'architettura (Coar). Correva l'anno 1962 quando nacque la Urbanistica sociale torinese controllata al 71% dalla Sogene, l'immobiliare del Vaticano che nel 1963 acquistò i terreni al confine tra i 3 comuni, oltre 320 ettari, con l'intenzione - lo dimostrano gli atti d'acquisto - di costruirci la «città satellite». In aree di prima fascia agricola. Il progetto fu contrastato per 15 anni dal Pci e dalla sinistra Dc, fino a far saltare la testa del sindaco comunista Edoardo Defassi, invece favorevole. «Erano altri tempi» dice Radicioni, senza nostalgia né la celebrazione di un passato d'illusioni. Ma spiega: «Nei Settanta c'era un conflitto tra il privato, da una parte, e la cultura più qualificata e le amministrazioni di sinistra, dall'altra, che tentavano una politica di controllo e gestione del territorio». Il cambio è nei primi Ottanta: «Maturò al termine del governo di unità nazionale e, in concomitanza, ci fu la sentenza del 1980 della Corte costituzionale: un colpo al governo delle città. Fu, infatti, rigettata la legge del 1977 sull'edificabilità dei suoli, sancendo l'illegittimità della separazione fra proprietà dei suoli e diritto di edificare». Erano anni rampanti.

Lo sbarco di Ligresti
Nel 1991 fallisce Sogene, i liquidatori vendono i terreni alla neocostituita Bor.Set.To. Azionisti sono le acciaierie Ferrero, la Coop Antonelliana (poi uscita di scena) e Valorizzazioni edili moderne, ovvero Salvatore Ligresti, che ne tirerà le fila. Prendono contatto con le amministrazioni e sondano le possibilità edificatorie. Nel 1996, le istituzioni coordinate dall'assessore provinciale Luigi Rivalta provano ad acquisire l'area per 30 miliardi. Tentativo fallito. Nel 1999, la Provincia stabilisce che, nel Piano territoriale di coordinamento, quel lembo di area metropolitana sia preservato allo sviluppo edilizio, rimanendo agricolo. Il Piano deve però essere approvato dalla Regione. E prima di essere votato passano quattro anni in cui capita un po' di tutto. Nell'«attesa» entrano in vigore due nuovi strumenti di programmazione che permettono di aggirare la pianificazione. Il primo è Urban (finanziato dal Fondo europeo) per lo sviluppo sostenibile di quartieri in crisi con l'insediamento di infrastrutture e attività produttive. Il secondo è Pruust, ideato dal ministero delle Infrastrutture, per la costruzione di una «Tangenziale verde», più o meno un parco. «Sono il bastone e la carota ed è qui che prende piedi il do ut des. Con il protocollo d'intesa del 2004 tra Comuni, Provincia e Regione - racconta Radicioni - si concede la possibilità di edificare sul 12% (271 mila metri quadrati) dei terreni, attività produttive, servizi, case, in cambio della cessione gratuita della restante proprietà (2 milioni e 7 mila metri quadri) destinata alla Tangenziale Verde». Intanto, nel 2003 il comune di Borgaro approva una variante al Prg che trasforma parte delle zone Bor.Set.To da agricole a servizi per parchi urbani e territoriali. Negli stessi anni, nasce il Coordinamento per la difesa delle aree, formato da cittadini e associazioni ambientaliste, con l'appoggio di Prc, Pdci e Verdi. «Incominciammo a elaborare un libro bianco - spiega Lucia Saglia - e a preparare un ricorso al Tar (tuttora in sospeso), perché la variante era palesemente in contrasto con il Piano provinciale».

La protesta degli abitanti
È il 2007 quando Ligresti alza il tiro: vuole quadruplicare l'area residenziale della parte torinese, spostandola da Borgaro e collocandola vicino alla Falchera: più allettante farlo qui, il villaggio, a due passi ci sarà la stazione dell'Alta velocità. C'è chi calcolò una plusvalenza di 100 milioni di euro. Ma gli abitanti scendono sul piede di guerra, da vent'anni attendono che i due laghetti del quartiere vengano recuperati in una zona da destinare a parco, così dice il protocollo. L'amministrazione Chiamparino sposa invece la linea Ligresti: i palazzi saranno costruiti a semicerchio attorno ai laghi. E il parco? Nel maggio del 2008 il costruttore siciliano fa retromarcia. Non richiede più la revisione del protocollo. Ma rimane tutto in ballo. «Le amministrazioni gli hanno fornito lo scivolo» commenta Soave. «Senza nessuna pianificazione, senza valutare se c'è bisogno di nuovi palazzi, visto che in città gli alloggi sfitti sono 30 mila».

La Variante 200
Ma così vanno le cose. Ad Albiano d'Ivrea da 10 anni parlano di Mediapolis, il parco divertimenti con tre centri commerciali davanti al castello di Masino. La società, promotrice del progetto (con sede in Lussemburgo), ha i permessi per iniziare: le istituzioni hanno pure stanziato i fondi, mancano quelli privati. A Torino, la novità è la variante 200, che oltre a contemplare l'utile linea metropolitana, prevede triplicati i diritti edificatori. E le abitazioni del nuovo boulevard della Spina 3 non sono un bel segnale. Certo, non è prerogativa torinese: in Parlamento, la proposta di legge Lupi sulla gestione del territorio introdurrebbe i privati nell'attività di scelta urbana. Per le grandi città forse è un'utopia la crescita zero, ma una pianificazione diversa è la sola strada percorribile.

Da il manifesto del 24 dicembre

venerdì 11 dicembre 2009

«Le vittime Eternit chiedono giustizia»

Parenti da tutta Europa all'apertura del processo a Torino. Morti e malati a causa dell'amianto
TORINO - Sono venuti in tanti. Da ogni angolo d'Europa dove l'amianto ha sparso morte. Sono venuti con la foto dei cari, con ansia di giustizia. Per dire che «ogni essere umano ha più valore di tutto l'amianto e il profitto al mondo» come recita lo striscione dell'Andeva, l'associazione francese delle vittime. Peppino Meloni ha 74 anni, un sorriso timido e le mani forti, arriva da Paray Le Monial, un comune della Borgogna vicino a Lione, meta di pellegrinaggi religiosi ma anche sede di uno stabilimento Eternit. Lui, in quel paese, è giunto negli anni Cinquanta, dalla Sardegna, e lì ha lavorato per trent'anni: «A respirare il veleno». Tra i suoi colleghi, gli amici, oltre cento morti. La fabbrica però non ha chiuso, è ancora attiva (come altre 4 in Francia): certo, non utilizza più l'amianto, ma fa sempre capo al gruppo belga Etex, diretto ora dal figlio del barone Louis de Cartier de Marchienne, imputato al processo contro i vertici Eternit, che ieri - dopo 8 anni di indagini e 200 mila pagine di documenti - si è finalmente aperto a Torino, tra una marea di parti civili, associazioni delle vittime, amministratori locali, giornalisti e avvocati. Basti pensare che a difendere l'altro imputato, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, c'è una squadra di 26 legali.

Vittime da tutta Europa
Fuori dal tribunale un meltin'pot di lingue, già di primo mattino. Dal Belgio, dalla Svizzera, dalla Francia, dalla Germania, da Napoli e da Rubiera, da Cavagnolo e da Casale Monferrato. Dieci sono i pullman dalla città simbolo della strage, con i suoi oltre 1500 morti e i 50 casi di mesotelioma diagnosticati all'anno, una cifra che non smette di salire. L'Eternit non ha ammazzato solo gli operai e le mogli che ne lavavano le tute, continua a uccidere e lo fa senza distinzioni: «Le nuove vittime - spiega Nicola Pondrano, ex operaio Eternit e storico leader della lunga lotta - sono cittadini comuni, sono soprattutto i bambini degli anni '60, quelli che giocavano nei cortili invasi dal polverino che l'azienda regalava». Ieri a Casale, in contemporanea alla prima udienza, un altro funerale, il quarto in pochi giorni. È morta una donna di 50 anni impiegata alle poste. «Siamo qui per i nostri cari - dice una signora che ha perso 5 anni fa il marito - e torneremo ogni volta, lo dobbiamo ai nostri morti. Non vogliamo i soldi di Schmidheiny (ha proposto una transizione a patto che le vittime evitassero la costituzione di parte civile, ndr)».
L'avvio del dibattimento per la gente di Casale è una prima vittoria, non un punto di arrivo: «E' un cammino verso la verità», dice Bruno Pesce, coordinatore della vertenza amianto. Il processo di Torino è diventato un esempio. La sua dimensione è ormai europea, «multinazionale» dovremmo dire, tanto quanto era l'Eternit. Riassumendo: il pool del pm Raffaele Guariniello è riuscito a portare alla sbarra la testa di un sistema internazionale, responsabile di un disastro ambientale permanente (oltre 2100 morti e un territorio avvelenato); le associazioni delle vittime lavorano in rete e hanno formato una specie di multinazionale; così, anche il collegio europeo di avvocati che difende molte parti civili (8 i legali stranieri, belgi, francesi, svizzeri, tedeschi e, forse, in futuro spagnoli e brasiliani). E sulla dimensione globale insiste Guariniello: «Serve una giustizia europea sulla salute e la sicurezza». In sintonia, con Francois Iselin Gueydan dell'associazione delle vittime svizzere Caeva che auspica «l'istituzione di un tribunale penale internazionale del lavoro». Dunque, un evento europeo, se non mondiale, anche per la pressione che potrebbe esercitare sui paesi, dal Canada alla Cina fino all'India, dove l'amianto non è ancora vietato.

Fino a 3000 parti civili
Le code di persone in fila, in attesa davanti alle maxi aule, sono il simbolo di una giornata storica. Il presidente della Corte Giuseppe Casalbore - nel 1984 fu uno dei pretori che oscurarono i ripetitori Fininvest - ha aperto la prima udienza con piglio severo. Dopo 180 secondi dall'inizio ha minacciato di «mandare via» due persone che stavano conversando in fondo all'aula e ha rimproverato ripetutamente gli avvocati che non indossavano la toga. Il suo, insieme a quello dei giudici a latere Fabrizia Pironti e Alessandro Santangelo, sarà un compito arduo: gestire un processo delicato e di vaste dimensioni. Prima, ha affrontato le questioni legate ai responsabili civili, come quella della Presidenza del consiglio, nella figura pro tempore di Silvio Berlusconi, i cui avvocati hanno chiesto l'esclusione dal processo. Poi, la costituzione delle parti civili. Un lungo elenco, la spoon river dell'amianto, letto nell'aula magna dove si trovavano i familiari e i parenti delle vittime. In totale le parti civili sono 2200, ma potrebbero arrivare a 3000, più vari enti locali, l'Inps, l'Inail, la Cgil, Medicina democratica, Wwf, Legambiente. Come da previsioni sui banchi non si sono visti gli imputati. «È un'assenza che mi fa rabbia, non ho rancore ma li voglio vedere in faccia, perché oltre ad aver causato le morti ci hanno lasciato un territorio inquinato, infischiandosi della bonifica», racconta Romana Blasotti Pavesi, presidente dell'associazione delle vittime di Casale. È una piccola donna che non ha mai smesso di lottare, ha perso il marito, la sorella, il nipote, la cugina e la figlia. Dalla difesa di Schmidheiny, l'avvocato Astolfo Di Amato ribadisce che l'amianto fa parte della storia sociale e industriale e la responsabilità non può essere individuale. La prossima udienza sarà il 25 gennaio e da quel giorno il processo verrà aggiornato ogni lunedì. Si pensa durerà due anni.
Sono tante le storie che si incontrano tra i corridoi del tribunale. Alessandro Bonamilo soffre di asbestosi (non riconosciuta) per aver lavorato 4 anni a Niederurnen in Svizzera. È stato uno di quei 1879 emigrati italiani che hanno faticato nella fabbrica degli Schmidheiny. Anche Francois Dosso partì giovanissimo verso la Francia, minatore a Merlebach, nella Lorena ai confini con la Germania: centomila malati di silicosi. Storie che reclamano dignità.

Mauro Ravarino
da il manifesto dell'11 dicembre

Maxi numeri in aula, duemila morti e decine di legali

Dopo Bophal, quello della Eternit è il più grande processo per disastro ambientale mai realizzato. I numeri sono maxi: 2889 le parti offese, di cui 2056 morti e 833 malati, tra lavoratori e cittadini. Ieri, all'avvio del processo nella città di Torino, si sono costituite 2200 parti civili che potrebbero salire a 3000. Cinquanta gli enti e le associazioni, tra cui tre Regioni (Piemonte, Emilia-Romagna e Campania) e la Cgil, che rappresenta 1660 parti. Le vittime saranno difese da un collegio internazionale di avvocati, guidati dall'italiano Sergio Bonetto. La lunga inchiesta di Raffaele Guariniello si è incentrata sui quattro stabilimenti Eternit in Italia: Casale Monferrato, Bagnoli, Cavagnolo e Rubiera. Gli imputati, accusati di disastro ambientale doloso (fino a 12 anni di reclusione), sono la «cupola» internazionale della multinazionale dell'amianto: Stephan Schmidheiny, 62 anni, e Louis De Cartier, 88 anni. Le stime dei risarcimenti richiesti dalle vittime e dagli enti si aggira tra i 4 e 5 miliardi di euro.

giovedì 10 dicembre 2009

Al via il processo Eternit: oltre 2 mila vittime dell'amianto

Un pool di avvocati da diversi Paesi per difendere i lavoratori. A giudizio i vertici della multinazionale

TORINO - Per la prima volta a Casale Monferrato si superano i 50 casi di mesotelioma in un anno. Non era mai successo. I dati sono ufficiosi, stime dell'Asl locale. «È sconfortante, ma speriamo sia il picco», commenta Bruno Pesce, coordinatore dell'associazione vittime dell'amianto, esorcizzando la paura che il peggio (previsto per il 2020) debba ancora venire. Lui è un uomo mite, ma deciso. In questi 30 anni di lotta non si è mai scoraggiato. Oggi, con l'inizio a Torino del processo contro i vertici Eternit, è il giorno che ha atteso da decenni: «È l'occasione per la verità».

Sul banco degli imputati, per disastro doloso ambientale permanente e per inosservanza volontaria delle norme sulla sicurezza, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis De Cartier de Marchienne: la «cupola» dell'Eternit. Quella che secondo l'accusa decideva le politiche della salute negli stabilimenti. Quella che, seppur negli anni '60 conoscesse la nocività dell'amianto, non introdusse misure antinfortunistiche. La stessa che regalava ai lavoratori il polverino, o meglio gli scarti della produzione, e lo cedeva a cifre simboliche agli enti pubblici. I morti conteggiati nell'indagine del pm Raffaele Guariniello sono 2056, 853 i malati accertati. Cifre aggiornate al febbraio 2008: la strage continua e colpisce cittadini mai stati nelle fabbriche d'amianto. Sulle nuove vittime è in corso un'inchiesta «Eternit bis», già 100 decessi accertati tra Casale e Cavagnolo (Torino).

Il processo è il più grande al mondo dopo quello di Bophal. Lo è per dimensioni (3-4 mila parti civili e un risarcimento pari a 5 miliardi di euro) e per importanza (sotto accusa la testa di una multinazionale). Attese oggi 2 mila persone. Arriveranno dalle 4 città dove l'Eternit aveva sede. Dieci pullman da Casale, uno da Rubiera (Reggio Emilia), un altro da Cavagnolo, 25 lavoratori in volo da Bagnoli. In 200, poi, dalla Francia con l'associazione Andeva. Il dibattimento inizierà alle 9, davanti alla prima sezione del tribunale presieduta da Giuseppe Casalbore, che ha citato in giudizio lo Stato italiano, come responsabile civile, per non aver svolto i dovuti controlli né la bonifica. Fuori dal Palagiustizia, la manifestazione della Rete per la sicurezza sui posti di lavoro.

Infine, un'altra novità. Le parti civili saranno difese da un collegio legale internazionale, la prima volta in Europa in una causa simile. Accanto a Sergio Bonetto e Laura D'Amico, ci saranno legali da Francia, Belgio, Svizzera e Germania. «Alla multinazionale dell'amianto contrapponiamo quelle delle vittime», ha spiegato la Cgil, che nel processo rappresenta 1660 persone. «Grazie allo scambio di informazioni - dicono gli avvocati Paul Teissoniere e Jan Fermon - abbiamo scoperto che ovunque si lavorava allo stesso modo. Non erano comportamenti decisi da dirigenti locali, ma una politica dei vertici».

Da il manifesto del 10 dicembre

lunedì 7 dicembre 2009

Alla Mahle la solidarietà torna internazionale, con Fiom e Ig Metall

Nuovo viaggio degli operai in Germania, mentre continua il presidio dello stabilimento

TORINO - Domani andranno di nuovo a Stoccarda. Una settimana dopo quell'incontro «della speranza» che si è invece rivelato una delusione, con il loro piano di salvataggio bocciato e pochi margini di trattativa. Gli operai della Mahle Valvole di Volvera non si sono però rassegnati. La multinazionale tedesca, 40mila dipendenti nel mondo, ha deciso di chiudere la loro fabbrica, quasi 100 occupati. Lo ha fatto senza troppe spiegazioni, sebbene il lavoro non manchi e la sede sia considerata efficiente: l'unica nel gruppo in grado di produrre 3.000 tipologie diverse di valvole per motori Mercedes, Iveco e Daimler.

Da oltre 70 giorni «i 94 leoni», come li chiama il delegato Fiom Gaetano Perez, tengono in piedi un presidio fuori dai cancelli, notte e giorno. Continuano a lavorare, ma bloccando il passaggio delle merci. Domani una delegazione sarà in Germania sotto la casa madre. E non sarà sola, insieme ci saranno i sindacalisti tedeschi della Ig Metal. «È un fatto storico», esclama Giorgio Airaudo, segretario provinciale Fiom. «La lotta e la trattativa vanno avanti di pari passo in Italia e in Germania. Si è creata una rete di solidarietà europea tra due culture sindacali diverse che si battono, al di fuori del protezionismo nazionale, per difendere i posti di lavoro». L'alleanza è nata proprio tra gli stampaggi di Volvera, grazie a Caterina, un'operaia che parla il tedesco e ha fatto da interprete.

Le multinazionali fanno spesso così. Dopo aver fatto shopping nelle aziende dell'indotto torinese, con il pretesto della crisi sono fuggite. Vedi Cabind o Sandvik. Hanno deciso altrove e lasciato come messaggeri i dirigenti italiani. Alla Mahle provano a tener duro. Se non salvano il sito, vogliono almeno obbligare i tedeschi a trattare. Nella sala assemblee arrivano Perez e Lino La Mendola (Fiom); di ritorno dal tavolo welfare in Regione, annunciano che l'azienda è disponibile a ricollocare solo 50 persone. Troppo poco e lo si capisce dai brusii dei lavoratori. «Noi - dicono i sindacalisti - non abbandoniamo ancora l'idea di salvare la produzione, magari spostandola a La Loggia (Torino, dove ha sede uno stabilimento Mahle). Ma se non sarà possibile, il piano sociale proposto così com'è è inaccettabile. Anche con i 15 prepensionamenti, rimangono quasi 30 persone a spasso». L'obiettivo minimo è ricollocare i lavoratori negli stabilimenti di La Loggia (350 dipendenti) e Saluzzo (250). Ma saranno gli operai a votare sul «che fare».

Intanto, il presidio non smobilita. Fuori dalla sala, Cristian, 32 anni, racconta che la notizia della chiusura è stata una batosta inaspettata: «Certo, qualche anno fa avevano trasferito alcune commesse in Polonia, ma la fabbrica andava bene. Ci tagliano solo perché costiamo di più». L'intenzione della Mahle è quella di dismettere gli stabilimenti più piccoli e saturare i più grossi. «Un controsenso, siamo sempre stati un'eccellenza», dice Gerardo. Mario ha 43 anni e lavora lì da 15 anni: «La lotta più importante è sui posti». Il gazebo non si smonta e il fantoccio dell'operaio licenziato resta appeso ai cancelli.

Da il manifesto del 7 dicembre