giovedì 11 giugno 2009

L'arivàro non fa lo pietro*

Le rughe di Benigno sono il calco della sua vita. A Vico Pancellorum lo conoscono tutti come il Moro. Di anni ne ha 83 e come suo fratello Silvio, detto Scintilla, ha sempre fatto lo stagnino, o magnano, o calderaio. Chiamatelo come volete: questo lavoro è stato un’arte, non solo di ferro e fuoco ma anche nel parlare. Per via di quel gergo che non ti faceva capire dagli altri, ma che ti rendeva ancora più amico al tuo compagno. Benigno era un bambino e con il ventilatore a tracolla (il mantice) scalava il Balzo Nero, il monte che guarda dall’alto la Media Valle del Serchio, appennino lucchese. Andava col padre al di là del versante, in direzione valli parmensi. A rifare le pentole di rame, tecnicamente la stagnatura. Si passava dai pastori negli alpeggi e poi giù in basso verso gli alberghi o gli ospedali. Si dormiva nei fienili dei contadini (i bori) e talvolta pure all’aria aperta, in pineta. Da casa si stava fuori un mese o più. «L’incupo affinava scalio», racconta in una lingua che se non avessi vicino Claudio, presidente del locale circolo Il Risveglio, non capirei. Tradotto: era un lavoro faticoso. Benigno parla l’arivarésco, il gergo dei calderai ambulanti, gli arivàri appunto, di Vico Pancellorum.

Per arrivare qui si supera Bagni di Lucca, che fa da comune, e si va oltre Casoli. Da una parte, su un colle, vedi Limano, dall’altra Lucchio. La strada si fa impervia, si passa tra castagni e pochi campi coltivati. Ed ecco spuntare Vico, a 650 metri d’altezza, un piccolo borgo sulle pendici del Balzo Nero. Il nome del paese ha strane origini, probabilmente romane: da panicum o da una contrazione di due parole latine, panis coelorum (pane dei cieli), o forse ancora da Pancelli, una famiglia che qui avrebbe avuto la signoria. Fino agli anni Sessanta era collegato al mondo solo da una mulattiera, la cornice. Un isolamento che ha funzionato da coesione e, allo stesso tempo, da via di fuga. Perché i vichesi sono sempre andati in giro per lavori stagionali, il magnano o il figurinaio (chi produceva statuine di gesso, l’altro mestiere forte della zona). «Qui – precisano – si è vissuto per secoli come seminomadi». Fino a quando la guerra li ha portati via tutti, o buona parte: all’estero. Se prima era un paese di oltre mille abitanti, alcuni dicono mille e seicento, ora ne saranno rimasti cento. Sono andati in Canada, Stati Uniti, Francia, Argentina, Venezuela o Belgio. Qualcuno è tornato. Come Enrico, che si fa chiamare il «sapiente», e dopo trent’anni a Bruxelles a fare il meccanico ha ripercorso le radici fino a casa, dove si è inventato ristoratore e ora gestisce la Buca di Baldabò, l’unica osteria del paese. L’arivarésco che aveva imparato da ragazzo non l’ha dimenticato. Ancora sa usare il gergo di mestiere che capivano solo i vichesi e fuori paese era un enigma.

Ma la segretezza non è la caratteristica principale di un gergo. «Il meccanismo all’origine – spiega Gaetano Berruto, sociolinguista all’Università di Torino – è il simbolo dell’identità di un gruppo, che crea confini netti con il resto della società. L’intento criptolalico, come lo chiamano gli esperti (ovvero: la segretezza) è una conseguenza di questa identità, intesa come differenziazione dagli altri». Il gergo «furbesco» diventa allora un’antilingua, un mezzo di opposizione al sistema culturale dominante (in questo caso l’italiano). Berruto cita lo studioso australiano Michael Halliday: «Riflette una sorta di controcultura, un’antisocietà, una società costruita all’interno di un’altra, ed esprime verbalmente l’opposizione alle norme e ai valori di quella corrente». A Vico era così. E quando si usciva con lo zarrone in spalla (la cassetta dei ferri), lo si parlava come stranieri. Per mettersi d’accordo sul da farsi, capire l’evolversi della situazione, talvolta fare la cresta al prezzo («perché si doveva pur mangiare», dicono non senza pudore), e anche per creare suggestione.

L’arivarésco, la loro «lingua», si imparava dai vecchi. Un lessico quotidiano, familiare. In paese, vi si faceva ricorso più per scherzo, o magari al ballo a palchetto per conquistare le ragazze, le ciautielle: «Così gli altri, i forestieri, non ci capivano», spiegano. Fuori era invece tutta un’altra storia. Si parlava di arcate o ponte, in poche parole di soldi. Dello sceppolo, ovvero del conto. E si provava a rimediare un pasto caldo in casa dai contadini: «Lo sgrano in tore», magari con contosta e triorfa, polenta e carne e un cùccamo di grasìa, un bicchier di vino.

Vita umile ma di passioni, quella del calderaio. Certo, chi faceva l’arivàro non era sempre ben visto. La considerazione sociale dei figurinai era più elevata, mentre gli stagnini erano lo scalino più basso. «Per noi era difficile anche trovare moglie», dice Stefano, gli occhiali grandi e lo sguardo timido. I magnani dovevano imparare ad arrangiarsi. Se parli però di moccosa, la cera della candela, nessuno tra i presenti ammette di averla mai usata. Ci tenevano ai clienti e ci tengono alla reputazione. Ma tutti sanno che qualcuno vi ricorreva: quando si accorgevano che la riparazione era riuscita male e alla prova dell’acqua non avrebbe tenuto, prendevano la moccosa e la strusciavano per chiudere la toppa. Risultato immediato, ma poco duraturo.

Quello di magnano era un lavoro maschile. Le donne la fatica la consumavano nei campi. Argia, che di anni ne ha 98, ne sa qualcosa: «Oltre alla terra, sono pure stata cuoca a Chicago per cinque anni». Ciò che sorprende in un borgo minuscolo come Vico è il fatto che non sia difficile sentir parlare gli anziani in francese, inglese o spagnolo. Nessuno è rimasto qui per tutta la vita. Ma non pensate sia un posto esclusivamente di vecchi. Qualche giovane lo trovi: Luisa è venuta a vivere qui da un pezzo e fa la cameriera all’osteria. E poi arriva qualche turista: norvegesi, in particolare. E Vico ha avuto persino una pagina su un magazine patinato di Oslo.

L’arivarésco, però, ormai lo parla solo chi ha vissuto la stagione dei magnani. Chi ha dai 50 anni su, insomma. Qualche curioso ne chiede al bar. Come di tutte le lingue si imparano per prime le brutte parole (chiarazza è la puttana, chiàino il piscio, canale il sedere; manico e tofèra indicano gli organi genitali dell’uomo e della donna). Poi le differenze sottili ma complicate: per esempio ipse è la gallina ma ipse storna è la cipolla. Infine restano impresse le locuzioni strane: fa’ lo pietro significa stai zitto; storno come lo pe’ de gatto vuol dire bruttissimo.

«Iecca il pecullo», butta l’asso, dice Claudio giocando a briscola. Il gergo è l’arma in più per i vichesi: a carte sono imbattibili. Ma da un po’ anche loro si accorgono che la «lingua» è a rischio. A custodirne la memoria, oltre agli abitanti, i brevi studi di Carlo Gabrielli Rosi, storico lucchese e partigiano, e poi la tesi di laurea di Renata Franchini. Prima di farsi suora, nel 1979, venne su a Vico e imparò il gergo dei magnani. Gli ambulanti del paiolo, che – muovendosi da una parte all’altra degli Appennini – avevano inventato un lessico pieno di fascino e mistero, con neologismi di fantasia e parole rubate ai dialetti rom o germanici. Lo capivano ad orecchio solo i calderai di Tramonti nel Friuli o quelli di Dipignano in Calabria. Geograficamente lontani ma, anche loro, come i vichesi, «ribelli della montagna».

*Lo stagnino non sta zitto

Da Diario di giugno

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