domenica 17 aprile 2011

Perché è una sentenza storica

Parla Sergio Bonetto, l'avvocato di parte civile al processo ThyssenKrupp di Torino. Per la prima volta 48 operai si sono costituiti parte civile

TORINO - Il giorno dopo la sentenza le gam­be sono ancora molli. Segno della tensione accumulata in una giornata infinita e della paura (nessuno la nasconde) che la speranza di giustizia andasse in fumo. I parenti delle vittime della Thyssen si sono stretti e han­no pianto, insieme a quelli della stra­ge di Viareggio e dell'Eternit. Gli ex col­leghi hanno finalmente sorriso. Han­no tenuto duro in queste 88 udienze. Si sono costituiti parte civile, come operai e persone. «Non come sagome umane per lanciatori di coltelli come voleva far credere la difesa», dice Sergio Bonetto, avvocato di parte civile per i lavoratori dell'acciaieria. Una lun­ga esperienza alle spalle, Bonetto è anche legale delle vittime dell'amianto.

Quali sono gli elementi che rendono storica la sentenza della Thyssen? Prima di tutto, il riconoscimento del dolo eventuale per le morti sul la­voro. In genere, in questi casi, veniva sempre contemplato l'omicidio colpo­so. Una sanzione troppo generosa. La ThyssenKrupp avendo messo in con to che si verificasse quello che è successo ha deciso di correre il rischio e di far lavorare gli operai seppur non ci fosse la sicurezza necessaria. Ci sono le prove. Dopo un analogo incidente in Germania (l'incendio allo stabili­mento di Krefeld nel 2006) la casa ma­dre tedesca stanziò fondi per mettere al sicuro tutte le sedi della multinazio­nale. La Thyssen italiana, guidata da Harald Espenhahn, decise di non far­lo e posporre l'intervento dopo la di­smissione dello stabilimento torinese e il trasferimento della linea 5 a Temi. C'è poi un altro episodio decisivo: l’Axa, a queste condizioni, non avreb­be voluto assicurare lo stabilimento di corso Regina Margherita, lo ha fatto solo a patto di 100 milioni di franchi­gia. La Thyssen decise di correre il rischio per motivi di convenienza eco­nomica. Non si è trattato di una «col­pa» normale, ma di qualcosa di più. Non un omicidio in stile «coltello alla schiena», ma, comportando un'accettazione consapevole del rischio, di un omicidio volontario con dolo eventua­le (come già previsto negli incidenti stradali), reato per cui l'amministrato­re delegato è stato condannato a 16 anni e 6 mesi sei mesi di reclusione. Poi c'è un altro elemento di novità ed è merito degli operai.

Si riferisce ai lavoratori costituiti parte civile? Nei giorni in cui un ente dopo l'al­tro si costituiva, sembravano rimane­re fuori solo gli operai, che avevano corso il rischio direttamente. E hanno deciso di costituirsi parte civile singo­larmente. Uno a uno. All'inizio erano 120, poi il ricatto dell'azienda (incenti­vi) ha ridotto il numero a 48. La pre­senza degli operai esposti al rischio nel processo è un altro fatto mai visto prima e la Corte lo ha riconosciuto, con un risarcimento di 50 mila euro a testa. Li avevano come mandati in guerra, ma senza avvertirli. Uno dei le­gali della difesa, Franco Coppi, nella sua arringa, per confutare l'ipotesi di omicidio volontario, ha addirittura evocato l'esempio del lanciatore di col­telli. Ma i lavoratori non volevano fare le sagome.

Quali erano gli umori prima della sentenza? Dico la verità, avevo paura. Ero in una condizione che ribaltava quella fa­mosa frase di Gramsci: «Il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volon­tà». Certo, c'era la speranza di un cam­biamento epocale, ma anche il timore che gli operai scomparissero ancora una volta dalla storia.

A due anni di distanza dall'inizio, che processo è stato? Il lavoro delle Corte è stato molto ac­curato e professionale. E nella senten­za ha portato a sua volta elementi di novità, come il sequestro dell'impian­to fino al passaggio in giudicato. Se in­novativo è stato il processo, all'avan­guardia erano state le indagini prelimi­nari. Il pool di Guariniello le ha svolte come in una normale inchiesta crimi­nale e le perquisizioni sono state fondamentali.

Cosa potrà cambiare per la sicurez­za sui posti di lavoro e per l'infortuni­stica penale? Mi domando: se avessero saputo che rischiavano il carcere e pene seve­re gli imprenditori avrebbero accetta­to di correre il rischio? E non parlo so­lo della reclusione ma anche delle san­zioni economiche. Toccati nei loro af­fetti più cari, il portafoglio, datori e consiglieri di amministrazione saran­no d'ora in poi costretti a riflettere pri­ma di ogni decisione che riguardi la sicurezza dei lavoratori. E mi auguro, fi­nalmente, che si capovolga la gerar­chia delle decisioni.

Da il manifesto, 17 aprile

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