
Salvatore, 34 anni, voleva diventare capoturno, ma adesso in una fabbrica non ci entrerebbe più, «nemmeno per 5 mila euro al mese». E' in terapia psichiatrica per superare gli incubi che lo tormentano. Il tracollo totale lo ha avuto tempo fa, quando - in cassa integrazione - seguiva il corso di formazione stabilito dall'azienda. «La teoria mi piaceva, ma quando siamo scesi in officina e mi sono ritrovato con il grembiule, davanti ai macchinari con i miei ex compagni, tutto riportava a quella notte e mi sono sentito male». Un'ambulanza lo ha trasferito d'urgenza al pronto soccorso e i medici gli hanno aumentato la dose di psicofarmaci, che prendeva invece più saltuariamente. «Ho smesso di andare al corso e, nonostante i fogli della mutua, mi hanno bloccato la cassa. La mia ultima busta paga è stata di 26 euro». Ventisei euro. Sembra di non aver sentito bene - un avvocato di parte civile glielo fa ripetere - ma è proprio così. «E con una moglie e tre figli - sottolinea - non so come arrivare a fine mese».
Prima dell'incidente la sua vita era regolare «tra lavoro e famiglia». Era entrato nello stabilimento di corso Regina Margherita 400 nel 1997 e la sua mansione gli piaceva: era di quinto livello, un «leader», titolo interno che fa quasi sorridere, ma significava solo avere qualche responsabilità in più. «Non avevo un incarico preciso, dipendeva dalle necessità di reparto, potevo fare il gruista o il carrellista e se serviva anche dare una mano al capoturno». Pappalardo era stato pure in Germania, a Krefeld, in visita a una delle tanti sedi Thyssen: «La fabbrica era pulita e in ordine. Ogni settimana bloccavano l'impianto per pulirlo». Rimase talmente impressionato che tornato in Italia incominciò a proporre le stesse idee per Torino. Le riferì a Raffaelle Salerno, direttore dello stabilimento (uno dei sei imputati). «Ma non ebbi risposta». Anzi una volta, vedendo Salvatore con scopa e paletta lo rimproverò: «Non è ora di pulire, mi disse».
A Torino, si era già deciso di chiudere baracca. Sicurezza e manutenzione venivano sacrificate in nome della produzione. Dalle testimonianze degli operai emerge come il personale fosse scarso, la manutenzione assente, gli estintori spesso vuoti e il servizio di pulizia fornito da un'impresa esterna eliminato. Si ramazzavano le stanze se arrivava l'amministratore delegato. Questa situazione era tale dalla decisione di chiusura (giugno 2007), ma segnali e incuranze c'erano da ben prima, dal 2005. «Fino a quell'anno - ha spiegato un altro teste, Giovanni Pignalosa (ex rsu Fiom) - la manutenzione era programmata, poi si fece solo su richiesta. Anche le riunioni dell'antinfortunistica cominciarono a scemare». E poi ha aggiunto che, nei confronti delle nuove generazioni assunte con contratti atipici, esistevano pressioni psicologiche «affinché non schiacciassero il pulsante d'emergenza». I problemi bisognava risolverseli da soli, per evitare di bloccare la «sacralità» della produzione. Pignalosa ha anche ricordato la notte del rogo quando «un collega arrivò gridando che la linea 5 era scoppiata ed erano morti tutti» e si diresse verso l'incendio. «Rocco Marzo camminava sulle sue gambe ed era tutto ustionato, sembrava bollito. Mi chiese di avvisare la sua famiglia ma di non farli preoccupare». La seduta si è conclusa con la deposizione dell'ex capoturno manutenzione Caravelli. Rispondendo all'accusa, ha più volte contraddetto quanto aveva dichiarato dopo l'incidente, sostenendo ora che la manutenzione programmata continuava ad essere fatta. Per questo la pm Traverso ha chiesto di riascoltarlo il 17 marzo.
Processo Thyssen, nona udienza
Da il manifesto del 17/03/09
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