mercoledì 4 marzo 2009

Rosario lo diceva: «Se c'è un incendio, qui moriamo tutti»

TORINO - Il dopo è tragico per tutti. Chi non riesce più a stare al buio, chi si sente irascibile come non mai, chi non prova più gioia, nemmeno di essere mamma di due gemelline. E chi vorrebbe solo che suo figlio ritornasse a casa e riaprisse la porta con le chiavi. Sesta udienza del processo Thyssen, di nuovo drammatica. E’ stata la volta delle testimonianze dei familiari. Ma anche di uno degli operai che per primo soccorse i feriti.

«L'unica cosa che vorrei è avere indietro mio figlio. Voglio sapere perché è morto». Sono le parole di Grazia Cascino, ripetute più volte con la voce rotta dal pianto, rispondendo alle domande degli avvocati. E’ la mamma di Rosario Rodinò, uno dei sette operai uccisi nel rogo. «Eravamo orgogliosi che fosse andato a lavorare in quella fabbrica, la fabbrica d’oro come la chiamava suo papà, che lì ha lavorato 40 anni. Adesso ci sentiamo in colpa per averlo mandato alla Thyssen, a casa non viviamo più, quasi non ci sopportiamo». Ha firmato, come gli altri familiari, l’accordo di risarcimento con l’azienda. «Ma l'unica cosa che voglio è che mi ridiate mio figlio. Aspetto sempre che torni».

Rosario parlava della fabbrica: «Nell'ultima settimana – ha spiegato la madre - diceva che se fosse scoppiato qualcosa non si sarebbe salvato nessuno. E lui non si è salvato». Concetta, la sorella, ha aggiunto: «Se avesse visto qualcuno in difficoltà si sarebbe subito buttato per aiutarlo. Era fatto così mio fratello». Ha poi testimoniato l’altra sorella di Rosario, Laura Rodinò: «Ero all'ottavo mese di gravidanza, aspettavo due gemelle e quando sono entrata in sala parto mi sono imposta di non soffrire, di non gridare perché mio fratello era bruciato vivo, aveva sofferto molto di più. Mi hanno pure tolto la gioia del diventare mamma». Le parole di Laura sono anche di rabbia, la tragedia ha influenzato i rapporti con il marito: «Prima ci divertivamo insieme, adesso non ho più voglia di fare niente. Sono scontrosa, arrabbiata, cattiva». E poi, girandosi verso l’avvocato della Thyssen Ezio Audisio: «Non mi sento, però, più cattiva degli assassini di mio fratello».

Hanno testimoniato altri parenti. Ed emerge, tra l’altro, come nelle famiglie fossero diversi i dipendenti dell’acciaieria. Magari lo erano stati quando alla sicurezza si badava di più. E le parole di Fabio Simonetta - che la notte tra il 5 e il 6 dicembre lavorava alla linea 4 - descrivono bene le condizioni dello stabilimento: «Gli incendi erano quotidiani e dal settembre 2007 la manutenzione non si effettuava più». E la linea 5? «Era sporca con tante chiazze d'olio e carta. Quando doveva arrivare l’Asl venivamo avvertiti e ci mettevamo a pulire». Simonetta è stato uno dei soccorritori: «Le fiamme toccavano il soffitto – racconta - e si sentiva odore di carne bruciata. Ho visto Roberto Scola e Angelo Laurino in uno stato orribile. Scola urlava “portatemi via”. Cercai anche di spegnere l'incendio: afferrai la manichetta di un idrante ma si staccò». Dopo la tragedia soffre di «attacchi d'ansia, paura del buio e sensi di colpa per non aver potuto fare di più». La seduta è stata aggiornata al 3 marzo.

Processo Thyssen, sesta udienza
Da il manifesto del 4 marzo

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