mercoledì 28 ottobre 2009

Il padrone? Fa finta di non capire

Processo Thyssen, l'amministratore invoca «problemi di traduzione»

TORINO - Un giorno atteso, in Corte d'Assise, finito in un nulla di fatto. Se ne riparlerà il 4 novembre. Ieri, per la prima volta, è comparso in aula l'amministratore delegato della ThyssenKrupp, Harald Espenhahn, imputato di omicidio volontario. Avrebbe dovuto rispondere alle domande del Pubblico ministero. Così non è stato: insieme al consigliere delegato Gerald Priegnitz, l'altro dirigente tedesco imputato, si è avvalso della facoltà di non rispondere. «Non conosco adeguatamente l'italiano - ha detto Espenhahn - i giudici non mi hanno concesso il ricorso a un interprete e quindi non sono in grado di affrontare un interrogatorio che si preannuncia lungo, articolato e complesso». Era stato così nell'udienza preliminare e nelle prima parte del dibattimento, quando la difesa sollevò eccezioni per la mancata traduzione di parte degli atti in tedesco. Un'intervista al Tg1 dimostrò che l'a. d. era perfettamente in grado di esprimersi in italiano. Anche per questo, la Corte aveva negato il ricorso all'interprete. Ora la strategia della difesa torna a battere sulla vecchia questione. Irritati i parenti delle vittime, poco stupiti gli avvocati di parte civile e i pm. La procura se l'aspettava, perché se gli imputati avessero parlato fluentemente in italiano avrebbero sconfessato i loro stessi legali. La corte ha disposto che i due tedeschi vengano ascoltati con un interprete il 4 novembre, «per agevolarli e tutelare il diritto alla difesa». Se si presenteranno. I giudici hanno comunque confermato la loro decisione sulle richieste di nullità della difesa legate alla traduzione degli atti. I due alti dirigenti sono gli ultimi imputati in esame. Finora, la difesa ha cercato di attenuare le responsabilità dell'a.d. e negare l'omessa considerazione del rischio, su cui si base l'impianto dei pm. Insomma: andava tutto bene.

Da il manifesto del 28 ottobre

lunedì 19 ottobre 2009

Là dove c'era l'Olivetti


In mezzo alla campagna del canavese sta per nascere un enorme parco divertimenti con giostre acquatiche e supermercati. Se ne parla da undici anni, i finanziatori sono ancora misteriosi, ma «a dicembre arriveranno le ruspe»

Con i numeri, a Ivrea, ci sapevano fare. D’altronde era la patria dei calcolatori e il primo personal computer, l’Olivetti P101, è nato proprio qui, in uno dei laboratori di via Jervis. Nel 1965, quando venne presentato alla fiera di New York, nessuno poteva immaginare la fine che avrebbe fatto, trent’anni dopo, la fabbrica di Adriano Olivetti. Risucchiata dalla bolla finanziaria e culturale in cui le certezze matematiche – i numeri, appunto – non contavano più nulla, sulle sue ceneri nacque Mediapolis: l’idea di un grande parco divertimenti ad Albiano, ai piedi della Serra d’Ivrea e del Castello di Masino (bene del Fai, il Fondo per l’ambiente italiano).
Fosse un calcolatore, Mediapolis non sarebbe proprio rigoroso. Una volta si è detto che il progetto avrebbe creato 148 occupati, quella dopo 1.200. Che avrebbe registrato un milione di visitatori all’anno, anzi no, dieci. Per non parlare dei soldi per realizzarlo: c’erano o mancavano, a seconda delle discussioni. Tanto, si sa, i numeri sono optional. E la libertà del racconto di politici e di imprenditori ha preso il posto della realtà delle virgole e dei logaritmi. Ai giorni nostri, il P101 sarebbe impazzito.
Nevio, Bruno e Agostino lavoravano tutti all’Olivetti. Ruoli diversi ma stessa casa madre, stesso tessuto sociale di relazioni create dalla fabbrica. Adesso li puoi incontrare, non tanto distante dalle officine di via Jervis, a casa di Mariangiola Carnevale, capo delegazione del Fai locale. Insieme fanno il punto, a undici anni di distanza, sulla lotta contro Mediapolis, una specie di Gardaland piemontese, dedicata alla comunicazione, con montagne russe e una pagoda cinese alta 40 metri. Nel 1998 qualcuno pensò che il lutto dell’Olivetti potesse essere elaborato abbinando divertimento e business. Bastava trovare 600mila metri quadrati, magari ai bordi della collina morenica più lunga d’Europa, 25 chilometri che abbandonano le Alpi e attraversano castelli, borghi, specchi d’acqua, boschi d’ontani e di querce. Un paesaggio ancora intatto. L’evasione dalla realtà, allora, sembrava la soluzione. Al contrario di Adriano Olivetti che cercava sempre il reale, anche nell’architettura: «Una fabbrica – racconta Nevio Verna di Legambiente – che per un gioco di specchi si guardava reciprocamente con la città». Undici anni fa non era più tempo di sofismi: i lavoratori dovevano essere liberati da questa prigione. I canavesani, o meglio gli eporediesi (gli abitanti di Ivrea) dovevano essere liberi di divertirsi. E cosa c’era di meglio di un lago artificiale piuttosto di quello vero di Viverone, lì vicino?
A casa di Mariangiola non è la solita riunione. Non è come ogni fine d’anno quando la società Mediapolis – la prima volta fu nel 2002 – annunciava l’apertura di un cantiere. Qualcosa formalmente è cambiato. Adesso c’è un accordo di programma tra privati e istituzioni: la Regione Piemonte, la Provincia di Torino, i Comuni di Albiano, Caravino, Ivrea e Vestigné. Tutto dovrebbe partire, latitano solo le banche. Ma la società, per bocca dell’amministratore delegato Sergio Porcellini, nega problemi di cassa: «A novembre vi diremo tutto. Comunque, i 150 milioni di euro per il primo lotto, quello per il parco outdoor, li abbiamo trovati». L’operazione è di 450 milioni, dei quali 395 per le opere private (6 milioni dal Patto Territoriale del Canavese); 5,5 milioni da soggetti pubblici (per lo più Regione) per l’urbanizzazione e le infrastrutture. Finora, però, lo scarso capitale impiegato appartiene a una società lussemburghese, i cui soci sono coperti da rigoroso anonimato. Allertati, gli ambientalisti – che sostengono la libertà di conoscere e di decidere – hanno criticato la «singolare disattenzione» delle amministrazioni pubbliche che hanno impegnato denaro a favore del progetto senza «aver chiarito la provenienza del capitale privato». Socialista, eporediese, tra i maggiori sostenitori di Mediapolis, l’assessore regionale al Commercio Luigi Ricca ribatte al telefono: «Noi abbiamo fatto tutto quello che dovevamo, abbiamo analizzato criticamente l’iniziativa, cercando di ridurne l’impatto. La ricerca dei capitali privati non è compito nostro».

Per comprendere questa storia bisogna tornare indietro, ai tempi della lira. Anni di iter burocratici, accordi politici, ricorsi bocciati, altri ancora in ballo, valutazioni di impatto ambientale e scarso coinvolgimento della popolazione. Il progetto viene inserito nei Patti territoriali nel 1999, come rilancio del territorio. I Ds al governo di Ivrea sono da subito tra gli sponsor, accanto all’amministrazione regionale di centrodestra di Enzo Ghigo. Contrari, invece, Rifondazione, i Verdi e la sinistra Ds. Mediapolis veniva presentata come l’unica salvezza per il territorio, la manna dal cielo. E raccolse quasi un plebiscito tra le amministrazioni locali. «In pratica – taglia corto Bruno Dominjanni del Fai – ti dicevano che si doveva fare, lo vogliate o meno, anche in un’area esondabile, inedificabile o di importanza storico-naturalistica. Il parco a tema da subito è stato il paravento per una grossa speculazione di edilizia commerciale».
Sui giornali locali se ne parlò molto, su quelli nazionali quasi mai. Il movimento noTav era da venire e qui la mobilitazione rimaneva d’élite. Gli anni passano e cambiano i numeri: da un’offerta occupazionale prima contenuta a una esponenziale. Pure i contenuti variavano: tre centri di grande distribuzione e poi sport, scienza, Rockland (una megadiscoteca per 4.500 persone e un museo con le auto di Elvis), i Tivoli Gardens (grazie a una partnership con l’antico parco a tema di Copenaghen, che poi saltò) e, infine, la comunicazione: il mondo dei mass media. “Sarà un set televisivo, dove lo shopping diventerà un’esperienza emotiva e il consumo intrattenimento”, recita la presentazione del progetto. Un mix tra pedagogia, edonismo e libertà di consumare.
Anche il nome cambia: all’inizio era Millennium Canavese, poi si passa a Millennium Park e, qualche anno fa, visto che il millennio era passato da un pezzo, arriva Mediapolis. Il primo luogo scelto fu Pavone Canavese, periferia di Ivrea. «Ma si pensò – precisa Dominijanni – che avrebbe oscurato lo sviluppo commerciale della città». C’era l’area di Scarmagno, dove l’Olivetti aveva avuto sede quasi libera. No, meglio una zona non urbanizzata, agricola, costava meno. Più a sud, ce n’era una di proprietà di Multiservices, società di Pirelli che gestisce il vasto patrimonio immobiliare della ex Olivetti. E se nelle mappe regionali era considerata inedificabile, perché alluvionabile, si sarebbe fatta una variante. Così la Multiservices, in cambio di una partecipazione del 10 per cento al capitale, cedette l’area a Mediapolis che nel 2000 diventò spa, con presidente Gianni Zandano, già a capo dell’Istituto bancario San Paolo di Torino. «Quella di Guadalongo, a sudovest di Albiano, è una zona ricca di biodiversità, la falda acquifera è superficiale, l’assetto idrogeologico è molto delicato e più a valle ci sono i depositi nucleari di Saluggia. Una nuova canalizzazione li metterebbe a rischio». Uno dopo l’altro, sono i punti che elenca Agostino Petruzzelli di Legambiente. Ma dalla politica niente dubbi, si va avanti. Bisogna far posto, in mezzo all’anfiteatro morenico, a una Drop Tower, una torre a caduta libera, una Water Coaster (una giostra con paraboliche e finale in acqua), a dodici spettacoli giornalieri, ma anche a veri e propri studi televisivi, cinema 3d e 4d e a un albergo di 24 metri d’altezza. Nel 2005 gli ambientalisti perdono il ricorso, il Tar del Piemonte lo respinge: “Il parco a tema ha una valenza di utilità pubblica; quindi, come tale può essere edificato anche in aree considerate a rischio e non edificabili”.
L’assessore regionale Ricca però ci tiene a spiegare le sue buone ragioni: «Abbiamo fatto molto per la zona umida di Fontana Rovei e il suo canneto. Lì si voleva costruire il parcheggio, ma li abbiamo salvati. E poi non si può mettere in secondo piano il lato occupazionale». Se mai costruiranno la cittadella di Mediapolis, dal castello di Masino la si potrà vedere proprio davanti alla balconata. «Ma non è un problema di panorama», dice Marco Magnifico, direttore del Fai. «Vogliamo far capire che il parco verrà realizzato a vantaggio di pochi imprenditori, non certo della gente. È un modello vecchio e superato, con un deficit culturale anche rispetto alla Costituzione italiana, che nell’articolo 9 difende il paesaggio. Assurdo. Si crea uno spettacolo artificiale, fuori contesto, una specie di Las Vegas, quando uno spettacolo della natura ci sarebbe già: castagneti centenari, un lago morenico, borghi e castelli e pure il cavolo verza. Mettiamoli in rete, un insieme di biodiversità unico». Magnifico ha una sua idea su chi manovra dietro le quinte: «Poteri forti e invisibili a cui le amministrazioni, di destra o di sinistra, non possono dire di no». E racconta un aneddoto: «Chiedemmo aiuto all’avvocato Agnelli, non un potere debole. Lui andò da Ghigo. Ma il presidente della Regione, rammaricato, rispose picche. Non si poteva bloccare». Ma quali sono questi poteri? «Non mi faccia dire». Magnifico fa una pausa e ripete per due volte la radice del nome del progetto: «Media… Media… Vi dice qualcosa?». L’allusione è chiara, ma finora non è mai stato provato un legame con l’azienda di Silvio Berlusconi.

L’amministratore delegato Sergio Porcellini è stufo delle polemiche e prevede di inaugurare Mediapolis alla fine del 2012: «Ho sentito tante balle, ma come diceva Goebbels a dirle cento volte diventano vere. Sull’impatto ambientale esiste una valutazione positiva di tecnici provinciali e regionali ». Ora che gli «ostacoli burocratici» sono superati spera di aprire il cantiere al più presto: «A dicembre entreranno le ruspe». Meno ottimista sui tempi il sindaco (di centrosinistra) di Albiano, Gildo Marcelli, fin dall’inizio un sostenitore del progetto: «Mancano ancora i permessi, ma in primavera si partirà. Così potrò dare risposta alle domande di lavoro che giornalmente arrivano nel mio ufficio». Porcellini smorza le voci sulla mancanza di capitali privati: «Il project financing è ormai chiuso. Cento milioni saranno di capitale a debito, dalle banche, e 50 milioni di capitale a rischio». I nomi dei privati? «A novembre». E la società di anonimi in Lussemburgo? «C’è. Presto diremo la verità». Quando vedrà la prima pietra, l’assessore Ricca tirerà un sospiro di sollievo: «Sarà una spinta al rilancio del territorio e diventerà una vetrina per le nostre eccellenze».
Mariangiola Carnevale è una persona pacata, ma a un certo punto non si trattiene: «Non è possibile che, dopo dieci anni, le istituzioni non valutino se il progetto ha ancora un senso». Ci sarebbero alternative? «Due anni fa – spiega Verna – è spuntato a Borgofranco un piano dell’azienda Silfab, che lavorerebbe il silicio policristallino per il fotovoltaico: 350 posti previsti. L’impatto ambientale non sarebbe trascurabile, ma riguarderebbe un’area già industriale, a differenza di Mediapolis. Tutte le fasi dei permessi sono state superate, ma in questo caso le istituzioni non hanno investito un euro». Sui numeri dell’occupazione si domandano: «In una situazione di crisi, i sacrifici territoriali sono giustificati dal fatto che l’iniziativa creerebbe un migliaio di posti di lavoro al costo, fatti
due calcoli, di 500mila euro l’uno?».
A Ivrea, è facile sentire ancora parlare con fiducia di impresa. D’altronde il secolo olivettiano si poneva il tema di una convivenza equilibrata tra industria, cultura e paesaggio. Marco Revelli, sociologo, a fine anni Novanta si era interessato di Mediapolis: «E già all’epoca, mi sembrava un progetto molto datato. Frutto di un’interpretazione stracciona, all’italiana. Dalla meccanica della macchina per scrivere all’immagine. Nemmeno ai servizi. Il produttore diventa spettatore e non più figura sociale in grado di dare qualità; la negazione delle relazioni, anche umane, che l’Olivetti aveva creato». Secondo il sociologo, è a rischio il tessuto di una ex città operaia dove i sobborghi con i palazzoni non esistono e dove campagna e città sono complementari, non rivali. «Mentre Adriano Olivetti aveva espresso una diversità, adesso ritornadi riflesso un cattivo fordismo. E non se ne calcola l’impatto, nella speranza irrazionale che i flussi turistici siano inesauribili. Anche i 1.200 posti di lavoro, soggetti a flussi stagionali, sono teorici. Alla fine, mi chiedo, il conto economico tra costi e benefici regge?». Per Revelli tutto è riconducibile alla «bolla culturale» in cui si è vissuti nel quindicennio scorso. Dove l’ordine della retorica permette di dire tutto e il contrario di tutto: parlare di sostenibilità economica e progettare un’opera insostenibile. «Liberi di cementificare, liberi di raccontare».

Da Diario di ottobre
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giovedì 15 ottobre 2009

Il borgo che non c'è più

Gli ultimi ad averlo abitato ufficialmente furono degli immigrati albanesi. Ora di Brusaschetto Nuovo, un gruppo di case popolari nell'alessandrino abbuttute pochi mesi fa dalle ruspe, non è rimasto nulla. Ma non è morta la storia di chi vi ha vissuto

Quelli di Brusaschetto non l’hanno mai amato, si sono sempre rifiutati di andarci ad abitare. Un reticolo di strade squadrate, come una prigione a cielo aperto, alloggi da 60 metri quadrati, uno sopra l’altro, costruiti sotto la collina e a due passi dal Po. E dove li mettevano i covoni e gli attrezzi di campagna? In quei minuscoli ripostigli pronti per essere alluvionati?
Così quelle quindici palazzine, con chiesa annessa, nacquero già come corpo estraneo. Accanto alla strada, quasi non fossero di nessuno. Hanno vissuto la loro storia travagliata di emarginazione, sofferenza e anche morte, e ora che le hanno abbattute nessuno le rimpiange. Forse solo i clandestini, i cinghiali o i satanisti che sono stati i loro ultimi abitanti.
Brusaschetto Nuovo fu costruito alla fine degli anni Cinquanta perché il paese di sopra, in cima alla collina, stava franando a causa delle escavazioni intensive nella miniera, o meglio nella cava di marna da cemento, portate avanti da imprenditori come Buzzi e Cementi Victoria. In queste case sarebbero dovuti andare a vivere gli abitanti del vecchio paese, visto che le crepe nelle loro abitazioni si allargavano a vista d’occhio.
Ma così non è mai stato. Ci andò invece gente venuta da fuori per lavorare: gli operai della centrale nucleare di Trino Vercellese, proprio di fronte al di là del Po, e poi, negli anni Novanta, i migranti albanesi. Ma non era proprio l’America.
Quelle terre meritavano una nuova vita. Almeno, questo hanno pensato l’amministrazione di Camino, il comune di cui Brusaschetto è frazione, e il Parco del Po, che qui ne disegna i confini. Il 19 gennaio 2009 è iniziata la demolizione dell’intero borgo, con l’obiettivo di riqualificare l’area e includerla in un progetto di naturalizzazione entro il 2013.

Un paese di minatori
Le colline del Basso Monferrato nascondevano un tesoro. Un materiale povero, che avrebbe rappresentato però l’oro della modernizzazione architettonica del ventesimo secolo: la marna. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nella zona compresa tra Camino e Brusaschetto, un gruppo di lungimiranti imprenditori diede via all’attività estrattiva. E la vita cambiò, nelle forme del paesaggio e nel quotidiano della gente. I contadini divennero minatori, abbandonati campi e risaie si ritrovarono immersi nella rete di gallerie che anno dopo anno sempre di più penetrarono sotto la collina. E presto quasi tutte le famiglie di Brusaschetto si ritrovarono ad avere almeno un componente assunto nelle ditte estrattive, tra i rischi del grisou e un lavoro che logorava il fisico.
Ma non solo le nocche o la schiena, anche il corpo della collina mutava. Le sue sembianze si arricchivano di ponti e rotaie per il trasporto dei materiali, e l’intensità dell’estrazione la rendeva più vuota e più fragile.
Sulle case iniziarono a vedersi le crepe già negli anni Trenta, come rilevano gli studi del Servizio Geologico d’Italia. Talvolta sembrava arrivasse il terremoto, perché la terra vibrava. Invece erano piccole frane. La paura aumentava e il problema giunse fino a Roma, alle aule del Parlamento. Furono i deputati originari della zona a interessarsene, con interpellanze e richiesta al Ministero dei Lavori Pubblici. Prima Walter Audisio, comunista, poi Paolo Angelino, socialista, quindi Giuseppe Brusasca, democristiano e nato proprio a due passi, a Gabiano. Dal 1951 al 1957 fu un susseguirsi di sollecitazioni.
“Alcune case stanno crollando, altre sono lesionate” tuonava Walter Audisio in una seduta della Camera del 1° febbraio del 1956, citando le parole del parroco di Brusaschetto: “Alcune abitazioni sono già state evacuate e le vite sono in pericolo. Il campanile della chiesa è inclinato di 40 centimetri verso la canonica e la chiesa stessa. Ora siamo in ansiosa attesa, sperando, finalmente, comprensione ed umanità per un pronto, efficace e massiccio intervento governativo, prima che sia troppo tardi”. Rispondendo ad Angelino, il 28 febbraio di quello stesso anno, il sottosegretario di Stato per i Lavori pubblici Giuseppe Caron spiegava: “Dagli accertamenti è risultato che il dissesto statico è dovuto al cedimento di vecchie gallerie al di sotto e in prossimità dell’abitato, ricavate prima del 1927 per l’escavazione di marna di cemento. Al fine di dare alloggio alle famiglie che hanno avuto la casa danneggiata è stata disposta l’assegnazione all’Istituto Case Popolari di Alessandria di 100 milioni di lire per la costruzione di un primo lotto di alloggi”.
Questo fu l’inizio di Brusaschetto Nuovo. Ma passarono ancora due anni prima dell’avvio dei lavori, come testimonia l’allarme lanciato dall’onorevole Brusasca nell’ottobre del 1957: “Il Ministero ha fatto stanziamenti e disposto progetti per la costruzione di nuove case in un sito sicuro, ma le pratiche sono talmente lente che ci avviciniamo all’inverno e le opere sono ancora da eseguirsi”. Eppure, nonostante le richieste di aiuto dalla popolazione ripetute negli anni, la paura e l’incertezza che minavano la quotidianità, una volta terminati i lavori nel 1958 quelle case rimasero vuote.

La vita comunque
Alla fine degli anni Cinquanta le miniere chiusero. E il paese in cima alla collina poco a poco si spopolò. Dai quasi 800 abitanti del 1921 si passò ai 195 del 1961. Proprio l’anno in cui a Trino Vercellese, al di là del fiume, iniziarono i lavori per la costruzione della centrale nucleare “Enrico Fermi”. E un lampo di vita arrivò anche a Brusaschetto Nuovo. Nessun contadino si decise a scendere in basso, la gente venne da fuori. Gli operai della centrale abitarono le case popolari per alcuni anni. E successivamente qualcuno continuò a vivere in questo reticolato di abitazioni tutte uguali, gialle con il tetto rosso, con un’alta chiesa di mattoni a fianco. Lo testimoniano i numeri dei censimenti: 80 persone nel 1971, 88 nel 1981 e 54 nel 1991.
Di questi uomini e di queste donne non rimane però niente nella memoria popolare. È come se coloro che vivevano da generazioni sulla collina avessero rinnegato quell’asettico villaggio, costruito per soccorrerli dalla frana, ma considerato fin dal primo momento un corpo estraneo. Eppure, nonostante tutto, la vita c’era. Travagliata, come dappertutto, forse solo un po’ più difficile. Muri quasi di cartone, non un negozio né un parco per i bambini. Si parla anche di un fatto di sangue, un giallo all’inizio degli anni Ottanta. Il Po era così vicino che le alluvioni non davano tregua, quelle del 1994 e nel 2000 sono solo le più note.
Negli anni Novanta arrivarono gli albanesi, sfollati in questo borgo. Il ritmo delle emigrazioni segnò il tempo fino al 2000, quando il Comune decise di murare gli ingressi e le finestre degli stabili. Eppure il tanto denigrato paese continuava ad essere un desiderio, o forse riparo, per qualcuno. Poveri, disadattati e clandestini che nel tempo hanno sfondato i mattoni e occupato quegli spazi, lasciandosi alle spalle pure i segni di un incendio. E di notte, anche se nessuno ha mai potuto dare un nome agli autori, comparivano scritte sataniste e murales grotteschi con protagonisti la centrale e l’ambiente contaminato di questo territorio. Ma anche un grande disegno in stile western che si dipanava su due case adiacenti, e una serie di scritte ammonitrici: “Mai più così. Viva il Po” e “Noi siamo vivi”.

Le ceneri del borgo
Quello di Brusaschetto Nuovo stava iniziando a diventare un problema. Più che altro per il degrado, la desolazione e lo stato di abbandono di strade e case. Fu anche cintata come zona pericolante. Fino a quando, nel 2008, maturò la convinzione che l’unica strada percorribile fosse abbattere il complesso edilizio e ricominciare da capo. Attori della svolta, il Comune di Camino e il Parco Fluviale del Po tratto vercellese-alessandrino, promotori di un intervento di riqualificazione.
Il progetto è stato presentato alla popolazione durante un’assemblea molto partecipata la sera del 15 gennaio 2009. “È un traguardo che vedevamo molto lontano, finalmente ce l’abbiamo fatta”, ha introdotto soddisfatto il sindaco Sergio Guttero, quasi a fine mandato. “L’idea, ha aggiunto il presidente del Parco del Po Ettore Broveglio, è di riqualificare un’area utilizzando i proventi dell’attività estrattiva. Ripristinando la situazione ambientale di oltre cent’anni fa”. La concessione ha una durata di cinque anni a partire dal settembre 2008. “Progressivamente, ha concluso Nemesio Ala, consulente della ditta Nord Scavi incaricata della demolizione e della riqualificazione, costruiremo habitat, ecosistemi e particolari isole per la fauna. Insomma, un luogo da un lato bello, dall’altro ricco di vita e biodiversità”.
La mattina del 19 gennaio la neve copriva ancora i tetti delle case. La Giunta comunale e i politici della provincia si erano radunati al gran completo per assistere a quello che nella zona stava diventando un vero e proprio evento. Fascia tricolore, taglio del nastro e via alla ruspe. In pochi giorni Brusaschetto non ci sarebbe più stato: spazzato via dal paesaggio come già lo era stato dalla memoria degli abitanti. La prima casa e poi le altre. Mano a mano che i muri e le stanze venivano sventrati emergevano i dettagli di una vita recente. Una parete dipinta di verde, fotografi e, una copia di Topolino, poltrone, brandine, coperte, addirittura vestiti. Come a dire: fino all’ultimo la vita c’era. E, se ti spostavi vicino alla chiesa, potevi vedere al centro della navata un’inquietante sedia a rotelle forse utilizzata per qualche strano rito. Anch’essa spazzata via dalle ruspe.

La rinascita
Le case ora non ci sono più, le macerie nemmeno. Dove un tempo sorgeva Brusaschetto Nuovo si incomincia a vedere un laghetto. Ma gli scavi andranno avanti ancora per molto e l’ambiente si modificherà ulteriormente. I camion che trasportano via la terra proseguiranno il loro lavoro e qualche disagio turberà il quieto vivere degli abitanti, costretti ad usare una strada battuta vicina al fiume Po in vista della realizzazione di quella nuova ai piedi della collina. Era proprio questo che più li preoccupava durante l’assemblea di gennaio. “Ce la farete prima dell’inverno?” si domandavano.
“Il progetto interessa circa 40 ettari di golena, di cui solo una piccola parte era occupata dagli edifici. Per rendere l’idea, pari a 40 campi di calcio, il doppio della superficie complessiva del parco del castello di Camino”, spiega Maria Teresa Bergoglio, responsabile del settore edilizio e urbanistico del Parco. E anche i cinghiali vogliono la loro parte. Sono infatti previsti attraversamenti per la fauna selvatica, che negli ultimi anni si era ricavata la sua strada a due passi dalle case. “Al termine dell’intervento, conclude Bergoglio, il progetto prevede circa metà superficie dedicata a bosco e radura, l’altra parte suddivisa tra aree umide e specchi d’acqua con profondità massima di 3,5 metri sotto falda, poco meno della quota del fondo alveo del Po”.
Così, il volto del futuro sarà come quello del passato e i cinquant’anni di Brusaschetto Nuovo non saranno mai esistiti. Non per tutti. C’è chi ce li ha ancora negli occhi, nelle mattine di rugiada o nei pomeriggi assolati, magari al ritorno dal lavoro. Perché, incastrata tra i colli e il Po, c’era una zona grigia che era stata per anni la vita di qualcuno.

Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
Da PiemonteMese di ottobre

venerdì 9 ottobre 2009

Operai in cerca di rappresentanza, opposizione afona

TORINO - «Di lavoro si interessano solo in campagna elettorale, quando gli conviene... Se vanno al governo non hanno poi il coraggio delle decisioni... I politici non rappresentano nessuno, vengano a lavorare a Mirafiori se vogliono capire la realtà... La verità è che il primo a voler cambiare l'articolo 18 fu D'Alema... Il Pci è morto e il sindacato ha le metastasi». E' la radiografia di una comunicazione interrotta, quella tra politica e operai: il risultato di una ricerca realizzata tra Torino, Roma e Taranto da due studiosi, Francesco Garibaldo ed Emilio Rebecchi. Ne esce il racconto di uno stato d'abbandono. «Di uno spaesamento», dice Nichi Vendola.

Il rapporto è stato presentato ieri nella sala del palazzo dell'Atc di Torino, in un dibattito con Vendola e Luciano Gallino. «All'inizio dell'anno avevamo lanciato l'idea dell'inchiesta - spiega Titti Di Salvo - come Sinistra democratica, ora è patrimonio di Sinistra e libertà. La base da cui partire per interrogarci». Le testimonianze raccolte potrebbe essere scambiate per qualunquismo. Niente di più sbagliato, sono espressione di un vuoto. Anche di un problema di democrazia, di rappresentanza.

La ricerca ha coinvolto 60 lavoratori, uomini e donne, giovani e anziani, iscritti o meno al sindacato, provenienti da realtà diverse. Al centro, il rapporto tra lavoro e partiti. Non solo quelli di sinistra, ma è su quest'ultimi che si è concentrata la critica. E la proposta. «La sinistra - si legge - è un bicchiere frantumato, io in quel bicchiere ci bevevo. Con i frammenti non me ne faccio niente, posso metterli un sacchetto. E ricordarmi com'era bello il bicchiere». Agli operai è stata posta una domanda: come i partiti hanno risposto alla crisi e quale partito si vorrebbe per difendere gli interessi di chi lavora? La risposta è stata diversa a seconda del luogo: «A Torino - spiega Garibaldo - si vorrebbe un partito socialdemocratico. A Roma il ritorno del Pci, un partito popolare e di massa. A Taranto manca addirittura l'idea di una rappresentanza politica classica, si propone una lobby di lavoratori».

C'è sdegno e sconforto nei confronti della politica. Ci si rivolge ai politici di sinistra come si sarebbe fatto un tempo con i liberali o i democristiani («Non avete mai lavorato»). Li accusano di «consumismo e privilegi». Di essere corresponsabili della crisi («il pacchetto Treu»). Allo stesso tempo, però, rimane una richiesta di rappresentanza a una sinistra che non c'è più. Per alcuni è forte il mito del Pci («il disastro è iniziato con l'89»), per altri c'è l'esigenza di un partito nuovo che «si schieri con i lavoratori e scontenti la signora Marcegaglia». Il sindacato viene invece difeso: «La Cgil e la Fiom sono le uniche rimaste a parlare con noi».

Per Luciano Gallino, la ricerca indica cosa dovrebbe fare un partito di sinistra. «Negli ultimi 20 anni sono andati a pezzi vari tipi di unità: quella di tetto, di padrone e di rapporti di lavoro. Compito della sinistra è ridurre il frastagliamento, per esempio con una legge che stabilisca un solo contratto per il lavoro dipendente». Il discorso si fa politico: «Ci deve essere un partito, non in eterna formazione, che osi pronunciare la parola redistribuzione del reddito e si batta per dare specifiche sicurezze di occupazione e pensionamento». A Nichi Vendola tocca l'ultimo intervento. «Nel variegato universo della sinistra siamo stati tutti sconfitti. Bisogna partire dalle esigenze dell'oggi e dalla prospettiva sul domani. Nelle ricerca, la politica appare come uno sfottò nei confronti dei ritmi della fabbrica. Dobbiamo connettere l'attuale crisi democratica con la crisi sociale. L'aggressione alla Corte costituzionale con la drammatica condizione operaia. Se non troviamo questa connessione è finita». La sfida, per tutti, è trovare i modi per ricostruire il rapporto spezzato.

Da il manifesto del 9 ottobre

giovedì 8 ottobre 2009

Thyssen, in aula il dirigente per la sicurezza: «Era tutto a posto»

TORINO - Andava tutto bene, era tutto in regola. «Non è vero che i reparti fossero pieni di olio e carta sparsa». È solo la parodia della realtà. Per chi fosse venuto ieri per la prima volta in Corte d'Assise, senza saper nulla del processo Thyssen, quello fatto da Cosimo Cafueri, responsabile della sicurezza all'epoca del rogo, sarà sembrato il ritratto di una fabbrica normale. Non quello di uno stabilimento che giocava a dadi col destino, come invece risulta dalle decine di testimonianze finora raccolte. Una fotografia che il primo dei sei imputati non accetta, anzi capovolge. Quasi stupito quando il procuratore Raffaele Guariniello gli chiede come facesse a gestire una situazione così: «Non ha mai pensato di dimettersi?». Cafueri fa una pausa: «Così, in che senso?». Guariniello, come se dovesse precisare qualcosa di scontato, risponde: «A rischio». Per il responsabile sicurezza «le condizioni di lavoro non erano tali da prevedere quello che è accaduto». E sul piano della sicurezza «la situazione non era diversa dagli anni precedenti».

Cafueri entrò in Thyssen nel 1974, a 18 anni, come operaio. Una carriera tutta interna la sua. Nel 1995 assume la responsabilità sulla sicurezza nello stabilimento di Torino e nel 1999 quella sull'impianto trattamento acque. Parla davanti a un'aula gremita e si difende dall'accusa di non avere segnalato ai vertici societari l'esigenza di adottare misure preventive contro gli incendi: «Non mi risultavano gravi carenze. A ottobre gli ispettori non riscontrarono anomalie». In verità, prescrissero misure di sicurezza che l'azienda non adottò. «Se tutto andava così bene - chiede il pm Francesca Traverso - perché il giorno dopo l'incendio chiamò una ditta esterna per sistemare gli estintori?». Il tentativo fu bloccato dagli agenti di polizia. «Telefonai solo per avere la documentazione richiesta dagli ispettori della Asl».

Secondo Cafueri, accusato di omicidio con colpa cosciente, seppure diminuissero progressivamente le professionalità, non c'erano problemi di sicurezza. E non era strano che Rocco Marzo, una delle vittime («un mio amico» ribadisce più volte l'imputato), un lavoratore esperto ma senza un corso antincendio alle spalle, fosse stato nominato qualche giorno prima capoturno addetto alle emergenze: «La gestione della formazione era totale responsabilità di chi gestiva il personale. Il mio compito era proporre programmi formativi». Un concetto che ci tiene a ripetere: le responsabilità erano d'altri. «Non avevo il compito di sorvegliare, né di gestire le pulizie». A Torino chi decideva era Raffaele Salerno, capo dello stabilimento, suo diretto superiore; sarà interrogato mercoledì prossimo. Successivamente verrà ascoltato l'amministratore delegato Harald Espenhahn, sul quale pende l'accusa più grave, omicidio volontario con dolo eventuale.

Sul disordine che regnava nell'azienda, per Cafueri, in aula sono state raccontate falsità. «Qualcuno ci ha messo del suo». Si sente un brusio tra i parenti delle vittime. «Non volevo eroi ma gente con la testa. E nell'ultimo periodo gli operai avevano la testa da altre parti». Precisiamo: avrebbero perso il lavoro da lì a poco. Infine, ancora un sassolino su uno dei nodi centrali del processo: «Il personale sapeva benissimo che avrebbe dovuto usare il pulsante di emergenza». Ammette, però, che il piano d'emergenza quella notte non abbia funzionato. Ma forse non era tutto imprevedibile come ce lo racconta.

Da il manifesto del 7 ottobre