sabato 1 giugno 2013

Casale Monferrato, l'amianto non perdona

Processo Eternit, lunedì prossimo a Torino è attesa la sentenza di appello. Con la morte del barone belga Louis De Cartier, sul banco degli imputati rimane il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, condannato in primo grado a 16 anni


Ad aspettarli ci sarebbe stato ancora l'amianto. Superarono quel confine tra Italia e Jugoslavia che aveva pochi giorni e lasciarono il loro paese, Salona d'Isonzo, che stava cambiando il nome in Anhovo. Era da poco finita la guerra, quando il 3 marzo del 1947, Romana Blasotti, che quel giorno compiva 18 anni, e i suoi familiari partirono, con pochi averi, alla volta del Piemonte. Papà Ottavio lasciava il lavoro in una fabbrica di manufatti a base d'amianto. Arrivarono a Casale Monferrato e lì fu assunto all'Eternit. Non subito (era sempre comunque un profugo), dopo cinque mesi. Stesse modalità produttive, stesso veleno. Romana si sposò un anno dopo con il Mario (Pavesi): «Lo conobbi una domenica pomeriggio, non credevo guardasse proprio me. Invece, scattò qualcosa. Ancora adesso penso sia stata una persona a cui valeva la pena volere bene. Entrò anche lui all'Eternit nel 1958. E fu la sua fine».
Nel 1956 Bruno Pesce iniziava, a soli 14 anni, il lavoro da garsunin in un laboratorio orafo a Valenza. «Una delle prime cose che mi dissero fu “prendi quella lastra d'amianto e usala per saldare”. Sembrava cartone, grigiastro, era crisotilo pressato, meno pericoloso dell'amianto blu che si lavorava nello stabilimento di Casale, ma sempre cancerogeno. Certo, ai tempi non lo sapevo». A 22 anni era già sindacalista, Fiom. Nel 1969, Nicola Pondrano, una notte - mentre tornava dalla visita per il servizio di leva all'ospedale militare di Genova e prima di riprendere il cammino verso Vercelli, dove abitava - si fermò vicino allo stadio insieme a due amici: «A un certo punto veniamo abbagliati dai fanali di centinaia di biciclette. Operai. Girano l'angolo e vanno verso il Ronzone. Passano e lasciano per terra una scia bianca. Polvere, tanta polvere. Li seguiamo, pedalano in fretta, riusciamo solo a vedere una scritta, «Eternit». Poi, il buio riprende il sopravvento. Quelle scie bianche, senza comprendere cosa fossero, non lo dimenticherò più».
Romana, presidente dell'Afeva (l'associazione dei familiari), Bruno, coordinatore della vertenza amianto, a lungo segretario della Camera del lavoro di Casale, e Nicola, ex operaio Eternit, sindacalista e presidente del Fondo vittime amianto, sono i tre principali protagonisti di una lotta più che trentennale. Lunedì sarà il giorno della sentenza d'appello nei confronti della testa della multinazionale dell'amianto, al maxi processo di Torino che è seguito all'indagine del pool di Raffaele Guariniello: 3000 vittime fino al 2008 (2200 morti e 800 malati), tuttora in aumento (sono oltre 50 i casi annuali di mesotelioma solo a Casale). Con la recente morte di uno dei due imputati, il barone belga Louis De Cartier, che non ha mai sborsato un euro per risarcire le vittime (a rischio, infatti, i risarcimenti di 1500 parti civili sulle 2800 totali), sul banco degli imputati rimane il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, condannato in primo grado a 16 anni per disastro ambientale doloso permanente e per omissione volontaria di cautele antinfortunistiche.
Da Casale arriveranno, come a ogni udienza, i pullman carichi di familiari e attivisti. Pure da Cavagnolo, dove c'era uno dei quattro stabilimenti Eternit italiani, e molto probabilmente da Rubiera, che, in primo grado, aveva visto, come Bagnoli, prescritti i reati riferiti al proprio territorio. Ci saranno le Voci della memoria, una giovane associazione di Casale che con Luca e Diego e tanti altri ha messo in connessione storie di lavoro, di movimento, di lotta. Partendo dall'Eternit, una fabbrica in cui un tempo trovare lavoro era come entrare in banca: «Ti regalava pure il polverino, gli scarti per pavimentare i cortili. Altro veleno».
Dello stabilimento di via Oggero, dove la pianura lascia spazio alla collina e la scritta rossa «Eternit» si vedeva da lontano, non c'è più nulla, se non la palazzina degli uffici, lasciata in piedi quasi come monito perché una tragedia simile non si ripeta. Nicola ci entrò per la prima volta l'11 settembre 1974. Nato il 12 giugno, lo stesso giorno – 28 anni dopo - di Mario Pavesi, ne raccoglierà il testimone da delegato sindacale. Comunista un po' anarchico, era un ragazzone che non stava zitto. «Sei venuto a morire anche tu?» gli disse un giorno, seduto su un sacco di amianto, uno dei facchini più anziani, Piero Marengo. Capì presto di non trovarsi in un posto normale. I manifesti da morto che ogni giorno vedeva ai cancelli della fabbrica, il rapporto con il prete operaio Bernardino Zanella – con cui aveva mappato i problemi dell'azienda - fecero crescere in Nicola una nuova consapevolezza. «Era venuto il momento di lottare contro la fabbrica della morte. Non si poteva più morire di lavoro». L'incontro con Bruno, nel 1979, diede il via alla vertenza amianto. Nel sollevare problemi ambientali, spesso tabù, furono un'avanguardia nel sindacato: Pesce alla Camera del Lavoro e Pondrano all'Inca Cgil, che andò a dirigere nel 1980, dove era consulente medico una giovane e tenace oncologa Daniela Degiovanni, tuttora figura cardine nella lotta. Iniziarono esposti, denunce, convegni, indagini epidemiologiche. La richiesta di giustizia, bonifica e ricerca. E la fabbrica chiuse nel 1986.
Ci vollero anni prima che Casale, nel suo letargo prettamente piemontese, si accorgesse della strage in corso. Romana divenne presidente dell'associazione dopo la morte del marito, per mesotelioma,ò nel 1983. Il primo, l'unico che aveva lavorato all'Eternit, dei cinque suoi familiari che la bestia (come a Casale chiamano questo tumore) le ha portato via: Libera, la sorella; Giorgio, il nipote; Anna, la cugina che viveva in Slovenia, e, infine, la figlia Maria Rosa. «È stata la più dura. Era triste, capitava che litigassimo. L'ultimo giorno ci siamo guardate negli occhi, i suoi erano grandi e belli, non ci siamo parlate, ma ci siamo dette tutto». Nonostante il dolore le abbia asciugato le lacrime, Romana lotta ogni giorno con una forza incredibile, perché ci sia giustizia. E perché «lunedì venga confermato il dolo».
«Non ci siamo mai persi d'animo – racconta Pesce - il processo di Torino ha una lunga storia. Bisogna tornare ai primi anni Duemila quando l'epidemiologo padovano, Enzo Merler, impegnato in un'indagine sugli immigrati in Svizzera ammalatisi una volta tornati in Italia (dopo aver lavorato nella fabbrica Eternit di Niederurnen), segnalò al pm Guariniello, un magistrato esperto, il caso di un torinese. A Casale, dove un processo dieci anni prima aveva portato magri risultati, si accese la speranza. Partì una mobilitazione che coinvolse anche le altre località dove risiedeva l'Eternit, come Cavagnolo, su cui ha competenza la Procura di Torino. Costruimmo un maxiesposto con un migliaio di nomi di ammalati e morti per l’amianto che depositammo in Procura nel 2004. Finalmente ci sarebbe stato un processo sul ruolo della multinazionale e in grado di considerare anche le vittime tra i cittadini».
Il 6 aprile 2009 è iniziata l'udienza preliminare. Pondrano è stato nel processo il teste principale dell'accusa. Il 13 febbraio del 2012 è arrivata la sentenza di primo grado per un disastro immane che, secondo l'accusa, è conseguenza cosciente della condotta imprenditoriale dei due imputati.

martedì 7 maggio 2013

Hanno ancora senso gli inviati di guerra?

Dopo la sparizione di Domenico Quirico in Siria, ne parliamo con Mimmo Càndito, il decano dei reporter

Se il giornalista contemporaneo può essere comunemente ritratto seduto al desk, Mimmo Càndito, ancorato a fili e cavi, non c’è mai voluto stare. Per raccontare soprattutto la guerra e raccogliere le storie di uomini, donne e bambini devastati dal conflitto. Perché prima dei rischi delle pallottole, per il buon reporter viene quell’empatia profonda con le sofferenze dei popoli di cui parlava Ryszard Kapuscinski. Inviato speciale, commentatore di politica internazionale e corrispondente di guerra de La Stampa, Càndito, classe 1941, ha una esperienza quarantennale da reporter e ha attraversato le ultime crisi più drammatiche della storia del mondo. Dall’Afghanistan all’Iraq, dal Kosovo alla Libia.


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Da Linkiesta del 6 maggio

domenica 5 maggio 2013

Schwazer, la condanna di dover essere felici e vincenti

A colloquio con Michele Didoni, l’ex allenatore del marciatore: «Ho perdonato Alex. Metabolizzare è difficile, comprendere si deve. Vorrei ricontattarlo»

E un giorno succede che il ritratto della felicità finisca. Bionda lei, biondo lui, belli. E vincenti. Bravi ragazzi, con al collo luccicanti medaglie, qualche copertina patinata nel palmarès, spot pubblicitari per entrambi e discrezione nel raccontarsi. Finisce per colpa di lui. E, gli amanti dell’agiografia manichea, lo spediscono nell’altro campo, quello dei cattivi, perché spesso nella semplificazione mediatica non c’è spazio per le sfumature o per la complessità.

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Da Linkiesta del 5 maggio

mercoledì 1 maggio 2013

Italia disoccupata, ha ancora senso il Primo maggio?

Festa dei lavoratori. Intervista al sociologo Luciano Gallino: «Sui precari i sindacati poco efficaci. Ma il capitalismo si fa autogol con la riduzione dei salari»
 
Adriano Olivetti pensava che la fabbrica dovesse diffondere intorno a sé bellezza. Luciano Gallino, classe 1927, uno dei più autorevoli sociologi italiani, ha iniziato la sua formazione proprio nella storica azienda di Ivrea, studiando i processi economici, l’impresa, il lavoro e gli operai. Condivideva l’utopia di Olivetti e quel modo di pensare che ora sembra così lontano. In seguito, Gallino ha continuato ad analizzare – all’Università (è professore emerito a Torino), su giornali e riviste, attraverso convegni e saggi – l’evoluzione del mercato del lavoro, sottolineandone le distorsioni, le disuguaglianze nella globalizzazione, la crisi, e proponendo soluzioni. Il suo ultimo libro, La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, 2012, 222 pp., 12 euro), indaga come questa, negli ultimi decenni, venga esercitata – rispetto a quella classica – dall’alto al basso; da parte dei vincitori a danno dei perdenti; a scapito, quindi della classe operaia ma anche delle classi medie. Oggi, il lavoro sembra svanire, tra cassa integrazione, licenziamenti e imprese in difficoltà. E questo Primo maggio, non appare una festa come le altre.

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Da Linkiesta del 1 maggio

giovedì 25 aprile 2013

Il partigiano, 98 anni: «Giovani, ribellarsi è giusto»

25 Aprile, Festa della Liberazione. Intervista a Massimo Ottolenghi del Partito d’Azione. «Speravo che l’indignazione portasse a ripulire le istituzioni dalle caste, non a distruggerle»

Scuote i fogli sopra una scrivania piena di libri. Sospira. «Sono un ragazzo del 1915, un vecchio testardo, figlio del secolo della pianificazione della morte e della desertificazione di tutti i valori. Sono stato e resto un resistente, un democratico in servizio permanente. I partigiani? Non siamo degni di ricordali. E se mi chiedete perché, ve lo spiego. Perché si è pensato a ricostruire il benessere e non gli uomini, si è perdonato tutto. Non si è epurato, si è lasciato che le istituzioni venissero occupate dai partiti, colonizzate dalle caste e dalle mafie. Si è concepita la politica come una carriera, il lavoro come una merce e si è umiliata la Costituzione. Si è, infine, fatto sprezzo e gioco della giustizia, esautorandola e mettendola alla berlina».


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Da Linkiesta del 25 aprile


domenica 31 marzo 2013

Non siate ingenui, internet non sarà mai la democrazia

Internet & potere: le idee di Evgeny Morozov: "La rete non è neutrale. Un algoritmo non risolve le ingiustizie. Il web ottimismo fa comodo ai forti"

Un algoritmo salverà il mondo? Internet è libertà, rivoluzione e democrazia? La rete spazzerà via criminalità e corruzione politica? Aprirà i palazzi del potere come una scatoletta di tonno? Secondo Evgeny Morozov sono ingenuità. È da alcuni anni che il giovane (1984) sociologo e giornalista bielorusso ribalta i più assodati luoghi comuni del cyber-ottimismo, minando il mito che Internet sia di per sé una forza per il cambiamento sociale, che elevi l’istruzione, salvi l’economia o rovesci un dittatore.
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Da Linkiesta del 31 marzo

domenica 24 marzo 2013

Così la Valle si scopre di lotta e di governo

Il defender bianco attende fuori dal cancello della strada dell’Avanà. Dentro ci sono stipati, stretti stretti, alcuni parlamentari del M5s, insieme ai collaboratori. Saranno gli ultimi a superare i cancelli del cantiere della Maddalena, quelli di Sel sono più avanti, con altri grillini, nei due pullman appena transitati.
Un giovane – trent’anni scarsi, la spilletta con scritto «A sara dura» e un inconfondibile accento del sud – tira giù il finestrino, allunga la mano e stringe quella di Marisa Meyer, le dice «lei è come Ghandi». Marisa, pensionata valsusina di 68 anni, lo scorso anno si incatenò per tre ore ai cancelli. «Io, lì dentro non entro, non voglio vedere lo sfacelo – sottolinea – ma è giusto che lo facciano questi parlamentari». E, così, il misterioso cantiere del tunnel esplorativo, circondato dal filo spinato, è stato svelato: «Resta una vergogna. Tutta questa militarizzazione non ha senso. Non è un cantiere, è un fortino» tuona Alberto Perino, leader storico della lotta, che li ha accompagnati.
Nel pomeriggio, una folla davvero oceanica, decine di migliaia di persone (ottantamila per gli organizzatori), invade, sotto la pioggia battente, le strade della Val di Susa, da Susa a Bussoleno. Famiglie con bambini – alcuni travestiti da trenini – ragazzi e pensionati, una marcia eterogenea e lunghissima, aperta dallo striscione «Difendi il tuo futuro». Ambientalisti, Fiom e sindacati di base, centri sociali, bandiere dei partiti di sinistra e tantissime spille a Cinque Stelle appuntate sulle giacche. «Una manifestazione che chiede cambiamento, nessun governo può andare contro questo popolo anzi ne deve raccogliere la spinta» sintetizza Giorgio Airaudo, uno dei dodici parlamentari di Sel in visita alla Maddalena; i deputati e senatori del M5S sono, invece, sessanta, capitanati da Vito Crimi, capogruppo al Senato, che lancia la «richiesta di una commissione d’inchiesta» sulla Tav. «Sempre più certi che possa venire bloccato» aggiunge il senatore valsusino Marco Scibona. «Spesa insopportabile» concorda Sel.
I parlamentari sono scesi fino a quei 40 metri scavati nella roccia, verso quella che considerano un’inutile devastazione. Tecnici del movimento hanno messo in difficoltà quelli di Lyon Turin Ferroviaire (Ltf), ancora sprovvisti del progetto esecutivo. Alberto Airola, senatore torinese del M5S, si è avvicinato ai poliziotti che difendono il sito: «Siamo qui anche per liberare voi». Oltre a Perino, presenti alla visita al cantiere gli esponenti No Tav Luca Abbà e Lele Rizzo, che, a fine manifestazione, ha descritto «il fortino come un set cinematografico dove i ruoli non si riconoscono», aggiungendo: «Abbiamo preso le misure per smontarlo». Alla Maddalena è arrivato solitario anche Stefano Esposito, senatore Pd ultrà Sì Tav, che ha lanciato una provocazione ai grillini: «Se votate la fiducia al governo, blocchiamo la Tav». Dura risposta di Ivan Della Valle, M5S: «Non facciamo inciuci con chi ha rovinato il Paese negli ultimi 20 anni».
Poche ore dopo, un fiume festoso di ombrelli e striscioni ha travolto ogni polemica raccontando il movimento nel suo aspetto più popolare e trasversale. «Una manifestazione così grossa non l’avevo mai vista» ha detto Perino. Solo una contestazione a Crimi, da parte di militanti Usb al grido: «Siamo tutti antifascisti». Dietro alle mamme e ai bambini, i gonfaloni di comuni piemontesi, di Napoli e di Corciano (Viterbo), qualche politico o sindacalista fuori dal Parlamento (Ferrero e Cremaschi), i No Tav francesi e quelli contro il Terzo Valico, i No Muos e i sindaci avvolti dal tricolore: «All’Italia non serve un grande cantiere per un’opera inutile – è il commento di Nilo Durbiano, sindaco di Venaus – ma tante piccole opere».

Da il manifesto del 24 marzo