sabato 30 luglio 2011

Un deposito per ogni emergenza

A Saluggia rispunta la Sogin e parte il D2, il megacontenitore «temporaneo» delle scorie che aspira a diventare «permanente». Oltre 30mila metri cubi e 13 metri di altezza per una vita utile di 50 anni. A soli 12 milioni di euro

SALUGGIA - Quando era solo la capitale del fagiolo, Saluggia era conosciuta più che altro dai buongustai, ora che è diventata quella delle scorie radioattive - l'85% dell'eredità nucleare italiana è custodita qui (tra cui oltre 300 metri cubi liquidi a più alta radioattività) - la sua fama si è moltiplicata. Tristemente. I rifiuti sono tutti sistemati in una zona che più inadatta non potrebbe essere: la golena della Dora Baltea e vicino ai pozzi dell'acquedotto del Monferrato (a sostegno basterebbe citare per l'ennesima volta Carlo Rubbia che dopo l'alluvione del 2000 disse che si era sfiorata una «catastrofe planetaria»). In depositi «temporanei». Così, è sempre stato detto, senza convincere troppo i cittadini della piana vercellese. Ma adesso che la Sogin - la società incaricata del decommissioning - sta per avviare la costruzione di un nuovo mega deposito, D2, oltre 30 mila metri cubi e 13 metri d'altezza per una vita utile di 50 anni, lo spettro che questo diventi quello nazionale si fa più consistente. Nonostante le rassicurazioni di parte: «Ospiterà solo i rifiuti radioattivi già presenti nel sito e sarà demolito» ha rassicurato Sogin, dopo le proteste di ambientalisti e centrosinistra che considerano l'opera «spregiudicata e illegittima», concessa da una proroga dell'amministrazione di centrodestra del comune vercellese, in deroga al piano regolatore che vieta di costruire in quell'area.

Che senso ha spendere 12 milioni di euro per costruire un deposito temporaneo pronto per il 2014, nell'attesa della realizzazione del deposito nazionale che per legge (n. 368/2003 ancora vigente) doveva essere completato a fine 2008? L'Unione europea ha, tra l'altro, chiesto di disporre del deposito nazionale dal 2015 e Sogin lo ha previsto nel 2020. Le date, in questa storia, spiegano molto. «Invece di imporre la costruzione del deposito temporaneo - si chiede Gian Piero Godio di Legambiente -, perché non imporre, con le modalità di oggettività e di democraticità previste dalla legge, quella del deposito nazionale, che invece non è neppure stata avviata?».

L'autorizzazione al D2, in deroga alla normativa urbanistica, fu data a dicembre del 2005 dall'ex commissario Sogin, il generale Carlo Jean, in virtù di poteri speciali conferiti dall'«emergenza» dichiarata dal governo Berlusconi. Nonostante l'opera non sia stata costruita nei tempi previsti (inizio entro un anno e termine entro tre), nel 2009 la Sogin ha ottenuto dal comune di Saluggia una proroga di tre anni per l'«ultimazione» del progetto, seppure dal 31 dicembre 2006 fosse terminata lo stato di emergenza. La proroga è stata oggetto di un ricorso straordinario al capo dello stato di Rossana Vallino di Pro Natura, di interrogazioni parlamentari (Luigi Bobba e Roberto Della Seta, Pd, che si sono rivolti anche alla Commissione europea) e di una petizione promossa dal Pd locale - primo firmatario Paola Olivero, capogruppo dell'opposizione - che ha raccolto oltre 2500 adesioni: «Chi ha firmato la proroga per ultimare le opere connesse all'impianto Cemex, fra cui il D2, è un tecnico comunale, architetto Antonello Ravetto, che dichiara sul suo curriculum di essere consulente Sogin. Un lampante conflitto d'interessi» commenta Olivero. Recentemente, la Sogin ha comunicato l'avvio dei lavori del D2 per il 18 luglio (ma attualmente sono in sospeso per documentazione incompleta). Contrari il Parco del Po e cinque comuni limitrofi che contestano la legittimità delle decisioni di Saluggia e si dichiarano pronti «a opporsi con ogni mezzo consentito dalle leggi».

Se Sogin promette una «temporaneità», alcune contraddizioni svelano, secondo Paola Olivero, il contrario: «Per allontanare le scorie, è necessario che nella "filiera" vi sia anche il Waste Management Facility, ovvero l'impianto attraverso il quale i rifiuti dovrebbero essere ricondizionati e poi spediti al deposito nazionale. Ma, visto che non esiste neppure il progetto e l'autorizzazione dell'Ispra, l'affermazione che il D2 sarà smantellato dopo l'allontanamento dei rifiuti è una bufala». E ancora: «Sogin dichiara che metterà solo rifiuti di seconda categoria, mentre nel bando del 2010 parlava anche di rifiuti di terza categoria (a più alta radioattività, migliaia di anni di decadimento), per cui il deposito nazionale non è previsto. Significa che resteranno nel D2, nonostante nessuna ordinanza del generale Jean lo autorizzasse».

Uno dei paradossi di Saluggia è che non ha mai ospitato una centrale, quella di Trino si trova a 25 chilometri di distanza. Per risalire alle radici di questa pesante epopea, dobbiamo tornare al 1970. Quando, accanto al deposito Avogadro (dove sono custodite le barre destinate al riprocessamento francese) realizzato da Fiat a fine anni '50, entrò in funzione l'Eurex, l'impianto di riprocessamento dei combustibili nucleari, di proprietà dell'Enea ora in gestione alla Sogin. Arrivarono elementi di combustibile irraggiati e rifiuti radioattivi derivati. Provenienti non solo dalle quattro centrali italiane, ma anche dal Canada. Questo, spiega il difficile presente del comune vercellese. Godio, Legambiente, conclude: «Dopo il risultato del referendum, ha senso che a gestire la disattivazione siano gli stessi enti e persino le stesse persone che erano state scelte dal governo per rilanciare il nucleare? Nel frattempo, bisognerebbe sospendere almeno le attività nucleari non ancora avviate, come la realizzazione del mega deposito nell'incredibile sito nucleare di Saluggia».

Da il manifesto del 30 luglio

martedì 26 luglio 2011

No Tav: «Mafia e guerriglia non ci appartengono»

Strategie di pace in Val di Susa

Una sequenza spiega più di tanta retorica sugli scontri. E non è uno stralcio delle cosiddette scene di guerriglia, ma una panoramica dell'assemblea serale dei No Tav, dopo ore passate sotto i gas lacrimogeni. È la fotografia di un movimento vivo, plurale e determinato, un'immagine lontana dalle distorsioni mediatiche. Domenica, sono da poco passate le 21 e al campeggio nei pressi della centrale di Chiomonte sono stati spenti anche i fornelli. Prima della sbobba si deve discutere quello che è successo nelle ultime settimane. Elaborare una «strategia collettiva». Ha ancora senso l'assalto al cancello all'inizio della strada dell'Avanà per finire per la sesta volta gasati dai Cs? Pareri e voci si mescolano. «L'obiettivo non è quella cancellata precaria, ma è lassù» dice Alberto Perino indicando La Maddalena. «Là in alto, dove vorrebbero far partire i lavori e portare le trivelle». Una proposta: «Andiamo davanti alle recinzioni tutti nudi con la maschera di Berlusconi». E altri: «Dobbiamo durare anni, non sprecare le energie in una settimana, lavorare su più livelli». «Riportare il tema del Tav sul piano politico», quello suo naturale che non è l'ordine pubblico, ma per farlo devono andare via le «truppe d'occupazione». Così, potrà ricominciare il dialogo.

La Val di Susa è pronta a spiegare democraticamente le ragioni del No. Non vorrebbe più rivedere un volto insanguinato come quello di A., attivista che, mentre cercava di documentare con la macchina fotografica la repressione delle forze dell'ordine, è stato colpito in pieno volto da un lacrimogeno. Portato d'urgenza all'ospedale di Susa è stato ricoverato in prognosi riservata, ha subito diverse fratture facciali, lacerazioni a palato e gengiva. Dal letto del pronto soccorso denuncia: «È vergognoso che un tutore dell'ordine, un carabiniere, spari ad altezza uomo. Poteva andarmi peggio se non avessi avuto la mascherina antigas». Domenica, è stata un'altra giornata di tensione (l'assedio al cantiere e tanti lacrimogeni in risposta, piovuti fino al campeggio), iniziata in realtà in allegria con il raduno di trecento alpini no Tav contrari all'utilizzo dei militari della Taurinense a presidiare il fortino militare. Poi, erano seguiti gli interventi commossi della madre di Carlo Giuliani, Haidi («Il g8 di Genova oggi è qui, dove stanno violando tutto») e del papà Giuliano («Penso che ci siano forze dell'ordine che non condividono le porcherie di altri, ma devono prendere le distanze, denunciarli»).

Successivamente, il cielo limpido del Rocciamelone si è coperto di nebbia ed è stata «battaglia». Intossicati tra i No Tav, cinque feriti tra i carabinieri a detta della Questura, che ha sostenuto di aver interrotto le operazioni per la presenza di due bambini «tra gli antagonisti che scardinavano il cancello». La brutta allusione che li avessero usati come scudi umani è stata rigettata con sdegno dal movimento. Come quella insopportabile che i No Tav c'entrassero con il raid vandalico - un furgone dato alle fiamme - subito due notti fa dalla ditta Italcoge di Susa, una delle aziende che lavorano nel cantiere della Maddalena. Forte la condanna dei No Tav: «È stato un atto di chiaro stampo mafioso che non appartiene né alla nostra metodologia né al nostro dna». Secondo i No Tav, ha detto Perino, «è in corso un disegno torbido volto a criminalizzare il movimento». Per sostenere la tesi dell'attentato di stampo mafioso, ha raccontato che «due anni fa la Italcoge aveva l'appalto di lavori sull'autostrada Salerno-Reggio e si era trovata mezzi bruciati dopo aver denunciato la richiesta di pizzo su alcune fatture». Tesi indirettamente confermata dalle preoccupazioni di Pisanu e Cota sul rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata nei cantieri Tav.

Da il manifesto del 26 luglio

sabato 9 luglio 2011

Sintonie ad alta velocità

Tav, a Torino arriva Aubry, segretaria del Psf: «In Francia nessun problema». Bersani gongola

TORINO - Tra una piattaforma europea «per cacciare le destre» da una parte e le primarie, in tempi più o meno stretti, dall'altra, non si poteva non parlare di Tav. Così è stato, con inevitabili convergenze, nell'incontro a Torino tra il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, e quello del Psf, Martine Aubry, candidata alle primarie per le presidenziali francesi. Sorrisi e sintonie - sotto lo sguardo compiaciuto del padrone di casa, Piero Fassino - distanti dalla fiaccolata per il «bene comune» che poche ore dopo avrebbe invaso la città della Mole.

La Torino-Lione rimane opera irrinunciabile e strategica. Insomma, il Pd tira dritto e incassa l'appoggio dei socialisti francesi. Se nella base del partito o in valle ci sono perplessità, rimangono non senza disappunto minoritarie. «Il problema è, più che come si realizza una ferrovia, come funziona una democrazia. Una decisione democratica può essere contestata, non impedita. Bisogna lavorare all'interno di quella scelta. Non esiste nessuna possibilità di accettare o giustificare atti violenti», taglia corto il segretario del Pd. Che aggiunge: «Vi ricordo che parliamo di una ferrovia, non di un bombardiere».

I due leader, Aubry e Bersani, sono entrambi all'opposizione nei rispettivi paesi, ma con l'ambizione di guidarne presto i governi. La strada non sarà in discesa. La prima, attualmente favorita per il successo alle primarie, ha la grana interna, il caso Strauss-Kahn («Lasciatelo respirare non strumentalizzate la situazione, adesso ha il processo in Usa poi deciderà se rientrare in politica»), il secondo ne ha diverse, a partire dal governo Berlusconi, sul cui stato di salute si dice allarmato: «L'Italia rischia e l'esecutivo è nel marasma». Da Torino, pianificano la «riscossa». Allo studio tra Pd e Psf ci sarebbe, infatti, una bozza programmatica, che vedrà la luce in autunno e che sarà la base della lunga campagna elettorale che impegnerà il centrosinistra di diversi paesi, dalla Francia, alla Spagna, dalla Germania alla Polonia. Una piattaforma che parlerà anche di infrastrutture e collegamenti europei. Quindi, pure del Tav.

Tocca alla Aubry - sindaco di Lille (città gemellata con Torino) oltre che segretario del Psf - dire la sua sull'argomento che più scotta, sottolineando le differenze d'Oltralpe: «In Francia tutta la sinistra è stata unanime nel sostenere il progetto della Torino-Lione. Sono molto dispiaciuta per gli eventi italiani e come Bersani dico che dal momento in cui la democrazia si è pronunciata non c'è nessuna giustificazione alla violenza. È un collegamento molto atteso da anni sia dall'Italia sia dalla Francia - ha sottolineato - È indispensabile per costruire un modello nuovo di sviluppo dell'Europa e per raggiungere uno sviluppo sostenibile». E a proposito delle polemiche sugli scontri che si sono svolti alla ultima, oceanica, manifestazione dei no Tav, ha detto: «Non c'è nessuna giustificazione alla violenza bisogna solo cercare di rassicurare chi ha
dei dubbi». Rimangono, invece, inevase le denunce contro gli abusi delle forze dell'ordine sollevate dagli avvocati del movimento.

Poi, Bersani - nell'ampio capitolo di politica interna - si sfoga: «Tra il marasma evidente nel governo e una manovra che dà un colpo enorme al sociale e lascia interrogativi sulle reali prospettive di stabilità, credo che l'Italia in queste ore corra qualche rischio. Sono seriamente preoccupato. Silvio Berlusconi invece di rilasciare interviste sui suoi disegni futuri (nel 2013 Alfano al governo e Letta al Colle, ndr) dovrebbe dire una parola seria, oppure andarsene. Non so più come dirlo: andare avanti così diventa pericoloso per il Paese. Se l'esecutivo non è in grado di governo deve andarsene». Un'ultima battuta sulla proposta di abolire le province,
riportata in auge da Idv e Fli: «Serietà, riduzione dei costi della politica, semplificazione istituzionale, sì, ma nessuna demagogia generica - spiega Bersani - perché altrimenti chiudiamo anche il parlamento e il Quirinale perché costano».

L'«altra sinistra», in serata, si è ritrovata in piazza con i no Tav, sindacati e tanti cittadini. Una felice risposta alla recente uscita del ministro dell'Interno Roberto Maroni: «In Val di Susa abbiamo visto una nuova forma di spontaneismo armato». Vincono le fiaccole, nonostante la pioggia.

Da il manifesto del 9 luglio

venerdì 8 luglio 2011

«Agenti fuori dalle regole»

Sgombero illegittimo, lacrimogeni, botte. La parola agli avvocati del movimento Convalidati gli arresti per i quattro attivisti, incesnurati, ora detenuti nel carcere delle Vallette

TORINO - È anche una questione di cronologia. Lo sostiene il pool di avvocati che segue il movimento No Tav e sta cercando di ricostruire con testimonianze, documenti e filmati, le violenze di domenica a Chiomonte. Un nutrito gruppo di civilisti e penalisti prepara ricorsi e denunce. Ma restiamo ai fatti. «Il 27 giugno, il presidio è stato sgomberato con un'ordinanza illegittima; il 3 luglio, le forze dell'ordine hanno respinto i manifestanti con metodi non congrui, fuori dalle regole d'ingaggio, lanciando sassi e bottiglie, sparando lacrimogeni ad altezza uomo e dal viadotto. Tutto questo dopo una mobilitazione popolare molto ampia, dieci volte tanto i numeri della Questura» spiega Claudio Novaro, che precisa: «Noi c'eravamo e abbiamo visto». I legali ribaltano la versione della Digos, i ruoli di aggressori e aggrediti e sottolineano la scansione degli avvenimenti. «Già, il lunedì precedente, le forze dell'ordine avevano "gasato" i manifestanti con il lancio di svariati lacrimogeni».

Era il giorno in cui l'ordinanza del Prefetto entrava in vigore, ma sarebbe stata notificata al presidente della comunità montana, Sandro Plano, solo dopo l'operazione («tra l'altro, uno sgombero senza megafono come invece vorrebbe la procedura» sottolinea Stefano Bertone). I legali avevano diffidato il Prefetto dall'intervento e sono ricorsi al Tar del Piemonte. «L'ordinanza è illegittima anche perché riguarda l'area del piazzale della Maddalena che non è interessata dal cantiere. Inoltre, impedisce il passaggio ai proprietari dei terreni e ai viticoltori».
Ed è ancora questione di cronologia se si va alle radici del problema, alla realizzazione di un'opera legittima o meno. Non lo è per il legal team. «Si parla del tunnel di base - spiega - ma non è stata indetta una gara d'appalto». Il 13 luglio, il Tar del Lazio deciderà - dopo aver valutato il ricorso dei sindaci delle valli di Susa e Sangone contro la procedura per l'apertura dei cantieri - se sospendere la delibera del Cipe del 18 novembre 2010 che ha approvato il progetto definitivo del cunicolo esplorativo de La Maddalena.

Tornando agli scontri di domenica scorsa che hanno infiammato le prime pagine, mentre i manifestanti facevano ancora le spese con i postumi delle cariche, l'avvocato Bertone aggiunge: «Il lacrimogeni con gas Cs sono cancerogeni. Se lanciati contro le persone possono uccidere, intossicare, provocare lesioni permanenti e cecità parziale». Sulle violenze il pool sta raccogliendo molto materiale (ha aperto anche una e-mail: segnalazionichiomontenotav@gmail.com ) e preparando denunce, per lesioni e danneggiamento, contro ignoti: «Visto che non sarà possibile individuare chi materialmente ha tirato pietre o danneggiato le tende, vorremmo fosse almeno individuato chi ha diretto le operazioni, al di là dei singoli episodi».

Ieri, il gip di Torino Federica Bompieri ha convalidato gli arresti per i quattro attivisti, ora detenuti nel carcere delle Vallette: Marta Bifani, 32 anni, di Parma, Salvatore Soru, 31 anni, di Maranello, Roberto Nadalini, 32 anni, di Modena, e Gianluca Ferrari, 33 anni di Marghera. «Il giudice non ha tenuto conto delle argomentazioni che abbiamo esposto durante l'udienza - ha spiegato Novaro - né del fatto che tre dei quattro arrestati sono incensurati». Intanto, se i fondi comunitari assegnati alla Torino-Lione subiranno un'ulteriore sforbiciata a causa dei ritardi nei lavori (a dirlo è il commissario europeo ai Trasporti, Siim Kallas), a Torino è tutto pronto per la fiaccolata per «il bene comune», promossa da intellettuali e sindacalisti, con partenza questa sera, alle 21, da piazza Arbarello.

Da il manifesto del 8 luglio

mercoledì 6 luglio 2011

Digos, la difesa: volevano uccidere

Come a Genova «Quelle molotov esposte con la nostra bandiera sono un déjà-vu che ci riporta alle menzogne degli agenti dopo l'assalto alla Diaz» replicano i manifestanti

TORINO - Con gli occhi non si può stare dappertutto. Ma è importante salvare, fotografare. Quando le diverse versioni non combaciano e le distanze diventano siderali, racconti e immagini possono sbrogliare i nodi della matassa. Lunedì erano stati i No Tav a spiegare come si erano svolti i fatti. Ieri, è toccato alla Digos, che sta concentrando le indagini «su circa 300 violenti» protagonisti degli scontri in Val di Susa. «Preciso che non stiamo parlando di appartenenti al movimento No Tav ma di quelli che possiamo definire black block» ha spiegato il capo della Digos di Torino, Giuseppe Petronzi. Una versione che il movimento rigetta totalmente: «Basta con queste leggende». La polizia ha mostrato il materiale che sarebbe stato sequestrato nei boschi di Ramats: estintori, roncole, molotov fatte con bottiglie di birra, maschere antigas, bottigliette con ammoniaca «sostanza che - ha precisato Petronzi - riesce a oltrepassare le protezioni degli agenti». Anche un mortaio artigianale con cui sono stati sparati dei fuochi d'artificio, secondo gli inquirenti ritengono il segnale d'attacco per i violenti nascosti nei boschi.

«Quelle molotov sul tavolo con la bandiera No Tav sono una triste immagine, un déjà-vu che ci riporta indietro di 10 anni, alla conferenza stampa dopo l'assalto alla Diaz» controbatte Francesco Richetto, No Tav: «Non abbiamo visto né bombe né fuochi, abbiamo invece raccolto immagini che testimoniano la violenza delle forze dell'ordine, i lacrimogeni lanciati ad altezza uomo o dal viadotto contro le telecamere di documentaristi. Poi, le pietre contro i manifestanti e la gente gasata dal pericolosissimo Cs (orto-clorobenziliden-malononitrile, ndr)».

«Noi - ha detto, invece, Petronzi - riteniamo di avere operato secondo le regole d'ingaggio, servendoci in maniera appropriata solo del normale materiale in dotazione. Inoltre, non sono stati sparati proiettili di gomma». E a proposito del lancio di oggetti dal viadotto dell'autostrada da parte dei poliziotti (video lo testimoniano) ha replicato che si trattava di «lacrimogeni a mano», gettati per disperdere chi si avvicinava alle recinzioni del cantiere.

La situazione è calda anche nei sindacati di polizia a cui abbiamo provato a chiedere come e se possono essere giustificati, nella gestione della piazza, «spari ad altezza uomo» e il rincorso a gas nocivi. Il Coisp (Coordinamento per l'indipendenza sindacale delle forze di polizia) ha ipotizzato addirittura il tentato omicidio degli agenti: «Volevano ucciderci. Molotov, bombe d'ammoniaca sono armi per ammazzare a differenza dei manganelli». Per il segretario torinese Giuseppe Campisi «le regole d'ingaggio impongono, se la distanza lo permette, che il lancio del lacrimogeno formi una parabola. Ma se manca la distanza le condizioni cambiano, in extrema ratio si può sparare ad altezza uomo. Comunque non mi risulta si siano verificati casi simili».

Sui gas lacrimogeni Cs? «Chiedete al Viminale che ce li dà in dotazione. Non ci risulta, però, siano così nocivi». Poi, aggiunge: «Spira un'aria pesante, qualcuno vuole il morto». La Silp Cgil con il segretario generale Claudio Giardullo condanna «le violenze preordinate» dei manifestanti: «Riteniamo che le forze dell'ordine si siano mantenute complessivamente all'interno delle regole. Per quanto riguarda i lacrimogeni Cs da tempo chiediamo che non vengano usati perché nocivi». Secondo il Sap (Sindacato autonomo di polizia) non sono stati sparati lacrimogeni ad altezza uomo e sui gas Cs il segretario Nicola Tanzi non accetta polemiche: «I mezzi a disposizione delle forze di polizia sono decisi per decreto. Non spetta a noi suggerirne la qualità».

Il dibattito sulla pericolosità del gas Cs ha almeno 10 anni. È messo al bando dalla convenzione mondiale sulle armi chimiche, ma solo in tempo di guerra. Uno dei primi a sollevarlo in polizia fu Gigi Notari, della sinistra Siulp, anche con posizioni scomode: «Ne discutemmo dopo Genova, insieme ai legali del Social forum in seguito alla denuncia di manifestanti che accusavano danni alla vista». Non accetta l'attuale militarizzazione della polizia: «Molto dipende da chi ha la responsabilità della piazza, dai dirigenti. Un ruolo che richiede pazienza e autorevolezza. Brutto segnale che in Italia tutto diventi un problema di polizia».

Da il manifesto del 6 luglio

martedì 5 luglio 2011

«Colpito con una spranga, umiliato con l'urina e lasciato sanguinare»


La storia di Fabiano, 29 anni, pestato dalle forze dell'ordine


TORINO - Bolzaneto è un mostro che ritorna. Succede quando i peggiori incubi diventano realtà. Non c'è pietà se sanguini. Anzi, ti gettano urina addosso e ti spaccano il naso con un tubo d'acciaio. E se gridi «basta» si accaniscono ancora di più. Loro sono gli uomini in divisa, i tutori dell'ordine. Lui, quello dell'incubo, è Fabiano Di Berardino, 29 anni bolognese, militante del Tpo e attivista della rete Global Project. Domenica si trovava a manifestare in Val di Susa, è stato massacrato di botte dalle forze dell'ordine ed è attualmente ricoverato al Cto di Torino con fratture a radio e ulna, setto nasale e lividi in tutto il corpo. «Adesso sto meglio» dice con un sorriso che fatica ad aprirsi a causa degli ematomi. «Ero vicino a una recinzione mentre cercavamo di riprenderci la Maddalena. Era un'azione simbolica, ma ci hanno aggredito con violenza. Mi hanno colpito con un lacrimogeno, quando mi hanno preso mi hanno pestato in dieci. Si accanivano senza pietà.

Poi, prima di portarmi nel deposito dei gas lacrimogeni e mettermi su una barella, mi hanno sputato in faccia, colpito nei testicoli e continuato a picchiare fino a quando non è arrivato un medico militare. Appena si è girato sono stato colpito sul naso con un tubo di ferro. Mi hanno detto che mi avrebbero ammazzato. Sulla barella hanno continuato a pestarmi. Un agente della Digos li ha invitati a smettere perché c'erano le telecamere. Poi, un dirigente di polizia si è avvicinato e ha fatto spostare la mia barella al sole dicendo che non meritavo di essere soccorso e che dovevo pagare per aver tirato le pietre. E che non mi avrebbe mai portato al pronto soccorso ma direttamente in Questura, dove mi sarebbe aspettato il peggio».

Un ragazzo di nome Davide, volontario della Croce Rossa, si accorge di Fabiano. Lo vede che sta male e perde molto sangue. È lui il suo salvatore. Lo fa portare all'ospedale di Susa, poi con l'elicottero, viste le gravi condizioni, al Cto di Torino. Il racconto di Fabiano è lucido. Non dimentica. Ricorda i particolari, pure gli altri manifestanti pestati. In particolare Gianluca Ferrari, un ragazzo di Padova, ferito e portato in carcere: «Stava malissimo» (i legali chiedono di poterlo incontrare, visto che non hanno più notizie). Di Berardino fa una considerazione, che rimanda a 10 anni fa: «È stato come a Genova, si voleva fare male e spaventare la gente, affinché non scenda più in piazza. Non si può massacrare una persona che chiede pietà, come ho fatto io, perché pensavo di morire. Perdevo litri di sangue e mi hanno lasciato sotto il sole per tre ore. La cosa più umiliante è stato un bicchiere di urina lanciatomi addosso. Questa è la polizia democratica di Maroni».

A fianco del giovane c'è Patrizio Del Bello, collaboratore dell'avvocato Simone Sabatini del foro di Bologna: «Stiamo raccogliendo le informazioni per valutare cosa fare. Dare un colpo con una mazza di ferro è quasi un tentato omicidio. Denunceremo quello che è accaduto perché non si verifichino più cose del genere in Italia, dove il reparto mobile, la celere, sfugge alle regole democratiche. Questo è il trattamento che ricevono ogni giorno immigrati e tossicodipendenti che non hanno possibilità di denunciare».

Da il manifesto del 5 luglio

Il VIDEO per Repubblica.it

La Val di Susa non ci sta

Il giorno dopo gli scontri di Chiomonte, la tensione rimane altissima e la versione del movimento No Tav non combacia con la vulgata mainstream. «Eravamo 60mila non 6 o 7 mila, qui black bloc non se ne sono visti, hanno sparato ad altezza d'uomo, ci siamo difesi con la resistenza popolare»

CHIOMONTE - La valle non ci sta. Non ci sta a passare per violenta. «Violenti sono loro, i poliziotti» dicono i No Tav. «I black bloc? Sono una balla inventata dai media. La gente si è difesa come ha potuto dai lacrimogeni proibiti e dai manganelli delle forze dell'ordine. Ci hanno gasato per ore. Sparavano da tutte le parti, dall'alto e ad altezza uomo, pure proiettili di gomma».
Il giorno dopo gli scontri di Chiomonte, la tensione rimane alta. Il movimento si è riunito sotto la tenda del nuovo presidio, all'inizio della Maddalena, poco prima della «zona rossa», per raccontare la propria versione di quello che è accaduto domenica. Non combacia con la vulgata mainstream, a partire dalle cifre: «Erano 60 mila i manifestanti e non 6 o 7 mila come vorrebbe la Questura». Tocca a Maurizio Piccione dei comitati rompere il ghiaccio: «Non c'erano black bloc stranieri, ma solo persone, in grandissima parte della Valle di Susa, che si erano equipaggiati con caschetti e maschere antigas per difendersi dopo quello che era successo lunedì scorso, quando i limoni erano stati una lezione di vita. Tutti a mani pulite. Giovani e vecchi».

«L'obiettivo era assediare il cantiere non occuparlo, passando dai sentieri di Giaglione - racconta ancora Piccione - chi è venuto era attrezzato per farlo. Abbiamo ripreso la baita, simbolo del nostro vecchio presidio, e scoperto che si trova fuori dalla recinzione che protegge i blindati e non i lavori, che non sono nemmeno iniziati, come ci vogliono far credere. Ci siamo avvicinati alle reti, ma ci hanno aggredito a colpi di lacrimogeni, pietre e getti di idranti. Noi ci siamo difesi come abbiamo potuto, non ci è rimasto altro da fare che continuare a difenderci». La baita presidio è diventata un'infermeria: 223 feriti, dicono i manifestanti. Per Lele Rizzo, uno dei portavoce No Tav, «è stato compiuto uno dei passaggi più alti della storia politica italiana. Il nostro modo di agire è quello della resistenza popolare. Si è inventato lo spauracchio dei black bloc perchè non ci si arrende all'idea di un'intera valle che vuole resistere».

Sulle future iniziative, risponde: «Ci riuniremo in assemblea, come sempre». Interviene Davide Bono, consigliere del Movimento cinque stelle: «Se indossare un casco e una maschera antigas per proteggersi significa essere black bloc, allora anch'io lo sono. Voglio ricordare che il movimento No Tav è pacifico e non violento, a differenza di quello che dice la classe politica, di destra e di sinistra, e anche il presidente Napolitano. Certo, ci sono stati manifestanti che hanno lanciate pietre. Avrei voluto fare resistenza non-violenta ghandiana, ma mi chiedo: Ghandi cosa avrebbe fatto davanti ai lacrimogeni Cs? Si sarebbe alzato e sarebbe scappato o sarebbe rimasto a soffocare come i topi?».

Alcuni documentaristi, tra cui Manolo Luppichini, hanno ripreso le cariche ad altezza uomo, gli spari dall'alto, i lanci di pietre da parte degli uomini in divisa. È una testimonianza forte, al presidio non c'è stupore, più rabbia: «Li abbiamo visti con i nostri occhi» dice una signora sui settanta. I valsusini sono esasperati dalla militarizzazione del loro territori, le lori voci sono spesso concitate e talvolta i rapporti con i giornalisti sfociano nel nervosismo.
Ma c'è chi prova a mantenere la calma. Tutti concordano nel dire che «non possiamo e non vogliamo cedere», sintetizza Nicoletta Dosio, esponente storica. Intanto, dal 10 al 30 luglio verrà allestito un campeggio internazionale a cento metri dal blocco della diga. Ieri, il silenzio pomeridiano è stato interrotto da un'esplosione che ha distrutto un camper abbandonato sotto il viadotto dell'autostrada del Frejus. Era dei No Tav. «L'hanno incendiato gli operai dell'Italcoge (la ditta incaricata dei lavori preliminari per il cantiere della Maddalena, ndr), protetti dalla polizia», è l'accusa lanciata da Francesco Richetto. Assente giustificato Alberto Perino: è stato ascoltato come persona informata dalla Procura di Torino sul recupero di «nuove lettere anonime» che gli sono state indirizzate. Ha lasciato il Palazzo di giustizia senza rilasciare dichiarazioni.

Da il manifesto del 5 luglio