venerdì 22 febbraio 2008

Nascosti nei boschi

foto di Costanza BonoORMEA - E così fuggirono nei boschi. Dalla civiltà, dalla madre, dalle botte del padrone. Erano i primi anni ‘80 quando Renzo Pelazza, all’epoca trent’anni, e il fratello minore Franco, abbandonarono Ormea, un borgo di duemila anime sulle Alpi Liguri (provincia di Cuneo), per rifugiarsi in montagna. Al riparo da quel mondo crudele, che li aveva emarginati. I “fratelli cinghiali”, così chiamati in paese per il loro aspetto “selvatico”, si diedero alla macchia.


Non ne potevano più della gente che li scherniva, della madre che li ignorava e del capo che li picchiava. Uno lavorava nei campi, l’altro in ferrovia, decisero di vendere la cascina e di scomparire. Vivranno come “uomini primitivi” nella boscaglia, tra casolari e grotte, nutrendosi dei frutti della natura, della caccia o grazie a piccoli furti. «Ma danni non ne hanno mai fatti», precisa subito Giorgio Ferraris, per quasi vent’anni sindaco di Ormea e ora consigliere regionale del Pd, che racconta: «Renzo e Franco hanno deciso di vivere senza un domicilio fisso. Muovendosi tra le montagne: d’inverno sul versante ligure e d’estate in Piemonte a più alte quote, dormendo nelle borgate abbandonate».

La loro è una storia quasi dell’800: inesistenti per l’anagrafe ma non per i boschi dove si aggiravano con barbe lunghe e occhio furtivo. E' una vicenda che si presta alla leggenda e, in parte, così è stato. Nel 1993 la mamma Ida che viveva in una casa di riposo a Pieve di Teco in Liguria si ammalò e chiese di rivederli. «Ne parlarono prima i giornali locali ed è proprio da quelle pagine che ne venimmo a conoscenza» spiega Vittoria Polato, giornalista di “Chi l’ha visto”, la trasmissone di Raitre che si è occupata più volte del caso. In tutto il territorio di Ormea furono disseminati volantini con i volti dei “cinghiali”, pure il Comune si impegnò nella ricerca: «Preparammo l’appello: “Renzo, Franco, vostra madre non sta bene, vuole vedervi. Nessuno vi farà del male”» ricorda Ferraris. “Chi l’ha visto” affittò un piccolo aereo con appeso uno striscione. A novembre i fratelli ricomparvero. Ormai sospettosi del genere umano, non si sarebbero fatti più vedere se non fossero entrati in contatto con una persona di fiducia. Arrivarono al ricovero, pian piano come giganti buoni, e incontrarono finalmente la mamma.

Dopo poco tempo, tornarono in montagna, ma questa volta senza perdere di vista né i paesi, né la mamma, che morì nel 2004. Da quel giorno non sono più scomparsi. Anziani (58 e 55 anni) si sono riavvicinati a quella che chiamiamo civiltà e ora vivono in un container abbandonato nel comune di Armo. Lavorano nei campi aiutando i contadini, sono meno diffidenti di una volta ma non del tutto. Sono pur sempre i fratelli cinghiali, i briganti d’Ormea, quelli che hanno vissuto come nomadi, senza un tetto, e che i misteri della natura sicuramente conoscono più di noi.

giovedì 21 febbraio 2008

La parola al muto

TORINO - Al buio, a stretto contatto con i materiali. Altro che cinema in sala, in poltrona. Quando si tratta di restauro cinematografico il rapporto si fa stretto. Ma la mente deve sempre spaziare. E’ una storia di passioni, talvolta infiammabili. Quella per il nitrato innanzitutto, con cui venivano costruite un tempo le pellicole: “C’è il fascino del proibito, è un mito per gli archivisti; essendo un materiale delicato a cui pochi hanno accesso”, racconta Stella Dagna, ricercatrice del Museo Nazionale del cinema di Torino.

Nell’ultimo decennio il Museo, che vanta una cineteca di oltre 16 mila copie, ha rilanciato l’attività di restauro. Ventiquattro opere recuperate, da Cabiria alla serie Maciste, che si inseriscono in un più ampio progetto di valorizzazione del cinema muto, in particolare torinese. E poi la sperimentazione di un nuovo modo di comunicare, attraverso festival, progetti didattici, proiezioni in spazi storici della città e sonorizzazioni dal vivo, anche eterodosse, per esempio con gruppi indie rock. E le sale sembrano riempirsi.

Alla base c’è una nuovo approccio teorico che “propone l’attenzione filologica degli interventi come garanzia e incentivo per una maggiore fruibilità e un piacere della visione” sottolinea Claudia Gianetto responsabile dei progetti di restauro cinematografici. L’ultimo lavoro Jone del 1913 verrà presentato in anteprima il 16 aprile al 64° convegno internazionale della Fiaf (Federazione internazionale degli archivi di film) di Parigi.

In via Sospello, dove ha sede la Cineteca, la pratica del restauro è caratterizzata da un complesso lavoro di ricerca e preparazione svolto prima della stampa della copia. Il fondo del Museo, uno degli archivi cartacei e fotografici più importanti d’Italia, è una fonte preziosissima in questa fase. “Lavoriamo sui materiali extrafilmici – spiega Stella Dagna -, analizzando fonti d’epoca diverse e complementari: dalla sceneggiatura all’indicazione dei colori originari fino ai fogli di montaggio. Ricerchiamo i testi delle didascalie italiane, risaliamo allo stile della cornice e ai caratteri delle lettere, individuiamo lacune ed errori di montaggio”. Ecco alcune delle ‘magie’ rese possibili da una ricerca approfondita sulle fonti. “Il punto di riferimento è ovviamente, quando possibile, la copia del film presentata al pubblico per la prima volta sul mercato nazionale. Questo metodo di lavoro ci ha permesso di costruire una prassi di riferimento che potrà essere d’aiuto in futuro” aggiunge Gianetto. Tutto questo non sarebbe possibile senza una continuativa collaborazione con cineteche italiane e straniere e laboratori come “L’Immagine ritrovata” di Bologna

I primi restauri del Museo si sono concentrati sui titoli dell’Itala, che insieme all’Ambrosio era la casa produzione più importante. Nella scelta dei titoli si è cercato di rappresentare generi diversi: il comico con La paura degli aeromobili nemici (1915) e il film storico con La caduta di Troia (1911). Nel 2006 il Museo ha portato a compimento il suo più grande progetto: Cabiria il kolossal di Giovanni Pastrone, sia nella versione muta del 1915 sia in quella sonora del 1931. Subito dopo è partito un progetto pluriennale per il restauro dei film interpretati dall’attore Bartolomeo Pagano nei panni di Maciste.

Molte opere, per esempio una buona parte dei sedici titoli proposti l’anno scorso, sono state presentate al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, che insieme alle Giornate del cinema muto di Pordenone, rappresenta il massimo evento del settore in Italia. ”Accanto ai progetti sul cinema muto torinese, c’è un interesse per il cinema a tutto tondo, a breve dovrebbero partire anche nuovi progetti per il restauro di film sonori”, sottolinea Claudia Gianetto “con un’attenzione particolare dedicata alle opere realizzate negli anni Settanta da grandi autori del cinema italiano come Francesco Rosi e Marco Ferreri.”

Il buon restauratore deve sapere un po’ di tutto: dalla storia al cinema e alla chimica. “Deve studiare il costume, la politica e la mentalità di un’epoca. E poi deve avere una buona vista, il lavoro è infatti certosino” precisa Dagna.