lunedì 20 luglio 2009
Shoegaze 2. Sporchi ritorni
Vent’anni dopo è ancora bassa fedeltà. Nu-gaze, shitgaze o no-fi. Boh. Chi meglio rimastica, inventa. Breve e inconsapevole viaggio tra le melodie rumorose della nuova scena indie d’oltreoceano
Che la storia sia ciclica o meno, meglio non disputare. Ma nella storia del costume i ritorni sono innegabili. E tra le prime a essere filtrata c’è l’arte rock. Anche nei meandri più sotterranei. Banalità? Forse. Però, passano i vent’anni e alcune sonorità, o quanto meno un modo d’approccio, riappaiono automaticamente in superficie. Così è sempre stato, per estremizzare: nulla si inventa e nulla si distrugge (qualcosa si scopre?). E adesso, quasi a cavallo tra primo e secondo decennio del XXI secolo, a ritornare è il lo-fi, che l’aveva fatta da padrone nei primi anni Novanta (Pavement e derivazioni varie). Già all’epoca scelta più estetica che etica (a differenza del pre-sixties, dove la bassa fedeltà era più necessità che vezzo). Quindi: dissonanze, obliquità melodiche miste ruvidità punk, voce filtrata, chitarra gracchiante (acustica o elettrica) e batteria sincopata. Un mix che nella cameretta, ormai non più slacker, non ti fa stare fermo. Vent’anni fa, o quasi, come adesso.
Il quasi è importante, perché non essendo ancora al giro di boa le contaminazioni synth-wave degli Ottanta sono continue. Come per i newyorkesi Blank Dogs, il progetto di Mike Sniper: sicuramente più Joy Division che Sebadoh, ma di lo-fi ce n’è abbastanza per citarli a proposito. Under And Under, il loro ultimo album da poco uscito per la fidata In the Red, è tra i più originali di questa scena poco decifrata, ma molto sponsorizzata dal web (Pitchfork in testa). Le coordinate vanno dall’Oregon al Midwest, dalla California a New York. Tutta interna agli States, ma con ancora lo sguardo rivolto verso Inghilterra e dintorni. Vedi, l’ammirazione per i misconosciuti Vaselines e il loro garage-pop che impressionò uno come Kurt Cobain e soprattutto l’amore per i My Bloody Valentine (saccheggiatissimo Loveless), dai quali hanno mutato, oltre al wall of sound, il termine a loro affine shoegaze, rideclinandolo in shitgaze, per opera di Kevin De Broux, bassista dei Psychedelic Horseshit. Ovvero, un suono che nasce da una strumentazione classica rock per virare verso galassie di bassa fedeltà, venendone talmente sommerso da diventare shitty (di pessima qualità). Estetica del brutto, quindi.
Di questa scena «neo lo-fi» - o no-fi, shitgaze, nu-gaze, weird-punk (l’anima più garage), solo per elencare le varie etichette con cui è stata magari maldestramente definita - fanno parte gruppi molto diversi con in comune un approccio «scazzato» o «falso scazzato» (slacker avremmo detto ai tempi del miglior Steve Malkmus). Chiamiamolo naif. Ma anche, in particolare, una miscela dolce-acida che frulla, da punti di vista diversi, indie rock, post-punk e noise pop. Ai tempi di internet e dell’elettronica da comodino. Certo, quando manca un pensiero «forte» si rimodula un paradigma esistente. E l’esaltazione pitchforkiana è talvolta eccessiva. Ma non tutto è fuffa, anzi si può dire che l’indie rock a stelle strisce abbia trovato di nuovo brio.
Gli alfieri sono da una parte, su una costa, i No Age, duo di Los Angeles (Dean Spunt e Randy Randall), dall’altra le Vivian Girls, trio femminile di Brooklyn. Dei primi, Nouns, lo scorso anno, fu uno dei migliori album della stagione: in bilico tra My Bloody Valentine (il loro guardarsi le scarpe mentre suonano – shoegaze appunto - non è mai passato di moda) e Black Flag, tra attitudine punk e stile noisy e un piglio indie-pop alla Doug Martch dei Built to Spill. Il trio delle Grande mela suona, invece, un garage ruvido e melodico, dove ciò che fa inasprire le veloci chitarre rende soave la voce. C’è chi ci rivede i Jesus and Mary Chain (nume tutelare un po’ di tutte le band) e chi i Pixies. Da New York, anche i bravi Crystal Stilts, fra dark-wave e post-punk. Da Atlanta, Georgia, arrivano i Deerhunter, capitanati dallo scheletrico Bradford Cox, già icona indie. Escono per la Kranky di Chicago, tempio di un certo post-rock ambient, ma dello sperimentalismo elettronico, caro alla casa madre, hanno attinto solo agli inizi, poi hanno preferito aguzzare lo guardo verso i piedi.
I Times New Viking provengono dall’Ohio, Columbus per la precisione. Come i Psychedelic Horseshit. Ecco perché, il profondo Midwest viene considerata la patria dello shitgaze. Di cui i Viking sono i naturali rappresentanti: la loro passione è ricoprire con distorsioni e ritmi ossessivi alla Fall trascinanti melodie pop. Verso sud, a San Diego troviamo un altro polo della scena: tre le band proposte, una è il fenomeno del momento. Partiamo dagli Abe Vigoda, che fin dal nome (quello dell’attore caratterista americano che interpretò Tessio ne Il Padrino) puntano sull’ironia; sono quattro giovanissimi ragazzi ispanici, che fanno – a loro detta - «tropical punk». Definizione che lascia il tempo che trova, meglio ascoltarli. Skeleton è un album pieno di sorprese: riprendono la lezione dei concittadini Trumans Water e l’adattano alle cadenze, mai banali, degli Animal Collective. Poi, ci sono i Crocodiles i più «inglesi» fra tutti (non solo per il nome rubato a un disco di Echo & the Bunnymen), appena usciti con Summer Hate e un brano, I Wanna Kill, che ha tutti i crismi del singolo a effetto. Incidono per Fat Possum, stessa etichetta di Wavves, il progetto semi-solista di Nathan Williams, vera piccola stella dello shitgaze, isterie incluse. Oltre, ovviamente, a forti dosi di talento, ben compresse nell’omonimo album che sembra, sedici anni dopo, la giusta continuazione di Westing (By Musket & Sextant) dei Pavement o di qualche cassettina di Daniel Johnston.
A completare la mappa, senza più logiche geografiche: i folli Eat Skull dall’Oregon che scavano, oltre i loro stessi feedback, alla ricerca di una forma canzone più classica. I Titus Andronicus, dal New Jersey, in beffa a un nome shakespearianamente tragico, sono un caldo abbraccio nichilistico (No future...) e caciarone di trascinante e slabrato folk-punk: come se i Neutral Milk Hotel rifacessero Never Mind the Bollocks. I Women arrivano, infine, da Calgary (Canada), il loro esordio è stato registrato da Chad VanGaalen in posti davvero strani, vicino alla stazione o sulla riva di un fiume. Il risultato è un album composito e multiforme: la versatilità è un tratto che li distingue dagli altri. Potremmo chiamarli avant-pop o alt-rock: pescano dai sixties (Beatles e Syd Barrett) come dal white-noise dei Sonic Youth o, ancora, dal raffinato post-rock dei Joan of Arc. Fino al caos rumoristico dei contemporanei Black Dice, per poi tornare alla melodia. Così, già oltre il confine del Montana, fuori frontiera (come se la musica ne avesse), la mappa finisce: la scena è vasta e al momento prolifica. Non tutto si salva, di noiser di maniera è pieno il mondo. Anche a «rimasticare» ci vuol stoffa. Ma, al bando gli snobbismi, la scena indie rock è viva. E si fa sentire. Perché senza dolci rumori non si può campare.
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