venerdì 31 luglio 2009

E Ada filava...

Donne e lavoro era la traccia su cui dovevamo lavorare. Ada, un'operaia tessile, è la storia che abbiamo raccontato.

Ada, nel 1997 - dopo 25 anni di lavoro - viene licenziata. Ma non si arrende e cerca una nuova strada. Siamo a Biella, il maggior distretto tessile italiano, una città che ha costruito la propria identità attorno ai lanifici e alle grandi architetture industriali. Un settore in cui le protagoniste sono state donne all'avanguardia nelle lotte per l'uguaglianza sociale ma che oggi sconta il peso della crisi e della globalizzazione.

Questo è il documentario mio, di Silvia, Ilaria e Claudia. Si chiama E Ada filava..., ha un anno e spera di non aver perso lo smalto.








«C'è lo spaesamento ma anche la voglia di non mollare. Di trovare una strada. C'è un territorio che attraversa una crisi e la vive nei suoi simboli. C'è il tessile e tutto un contesto che ruota attorno, ma c'è soprattutto la storia di una persona con le sue emozioni, i dubbi e i desideri, che meglio di ogni altra cosa raccontano una realtà sociale»

E Ada filava... (2008, 22'): un documentario di Ilaria Leccardi, Claudia Luise, Silvia Mattaliano e Mauro Ravarino. In poche parole, l'Isola Rossa.

giovedì 30 luglio 2009

Le tute blu di Torino seguono la Fiom Cgil

Referendum sulla piattaforma

TORINO - Da Mirafiori e da quella Torino che, per numeri, è ancora la capitale dei metalmeccanici arriva un segnale forte: il modello contrattuale di Fim e Uilm non piace. Lo dicono i lavoratori che hanno partecipato alla consultazione sulla piattaforma separata dei metalmeccanici della Cgil. In tutto sono stati 36mila i votanti su un totale di 74 mila addetti: 93,43% i sì e 361 le aziende coinvolte di cui 179 interessate da cassa integrazione. Al referendum hanno preso parte iscritti e non, a differenza delle votazioni indette da Fim e Uilm che hanno ammesso, tranne rari casi (Carrozzerie di Mirafiori), solo i tesserati, in linea con la filosofia degli ultimi accordi separati. Insomma, meno partecipazione, meno conflitto e firma accelerata.

«Alleggia un'idea proprietaria del contratto, come anche dello sciopero» attacca Giorgio Airaudo, segretario della Fiom torinese, il quale ritiene che l'unica soluzione per risolvere il gap di rappresentanza sia l'introduzione di «regole democratiche» per dare la possibilità di esprimersi a tutti i lavoratori. Su 175 mila lavoratori metalmeccanici nel torinese (il 10% di quelli italiani) sono, infatti, solo 40 mila gli iscritti ai tre sindacati: «A scegliere devono essere tutti» sottolinea Airaudo. «Il voto al referendum - ha aggiunto - ha un messaggio preciso: la piattaforma presentata dagli altri sindacati non ha convinto e noi continuiamo a pensare che sia stato un errore la scelta fatta dalla controparte di dividere il sindacato, così come presentare una piattaforma separata dentro la crisi».

Una settimana fa sono iniziate le trattative sul contratto. Da una parte Fim e Uilm (più Fismic) che, volendo dare piena attuazione all'accordo separato sulle regole del 22 gennaio, hanno disdettato la parte normativa del precedente Ccnl, valida fino a fine 2011, e proposto un rinnovo economico e normativo su tre anni. La Fiom, invece, ha presentato una piattaforma secondo il vecchio modello, ovvero su due anni e solo sul piano economico (aumento salariale 130 euro contro i 113 di Fim e Uilm sui tre anni). Sulle regole (tema che va dagli orari ai permessi) la Fiom non arretra: «Per noi il contratto - ha ribadito Airaudo - resta in vigore, pertanto sappiano gli imprenditori che, se a settembre gli altri sindacati firmeranno l'intesa con Federmeccanica, la nostra piattaforma diventerà piattaforma aziendale in tutte le fabbriche in cui troveremo il consenso». E contro la disdetta normativa, oltre alla mobilitazione, la Fiom ha deciso azioni legali.

«Sulle divisioni in atto - commenta Airaudo - i sindacati hanno colpe, ma la responsabilità principale è della controparte». A Torino c'è la Fiat, maestra in divisioni, impegnata su tanti fronti (da un lato espansioni, dall'altro chiusure). Tra questi c'è l'offerta d'acquisto per Bertone, accanto a quella di Gian Mario Rossignolo. Ma se del secondo si conoscono le linee progettuali (costruire Suv coinvolgendo pure i 170 lavoratori in cassa della Delphi di Livorno), della strategia Fiat non si sa nulla. Ai sindacati Sergio Marchionne non ha risposto alla richiesta di incontro. E così le ipotesi sfiorano la fantasia: auto di lusso (Chrysler o Fiat), piccole serie oppure gli immobili, vicini al possibile sito delle nuove Molinette, a far gola? Airaudo chiede al ministro Scajola, garante dell'amministrazione straordinaria, di decidere in fretta: «nell'attesa, non vorremmo sparissero le offerte. Le istituzioni torinesi non devono farsi sfuggire questa opportunità, anche perché ci sono altri stabilimenti a disposizione, come Pininfarina».

Da il manifesto del 30 luglio

giovedì 23 luglio 2009

Il processo all'Eternit si farà

Accolte le richieste del pm Guariniello: rinviati a giudizio i proprietari miliardari. Le vittime dell'amianto, in tutta Europa, alla fine potrebbero essere duecentomila

TORINO - Quando il gup Cristina Palmesino legge l'ordinanza di rinvio a giudizio per i due imputati dell'inchiesta Eternit, un applauso e un abbraccio sciolgono tutta la tensione accumulata in questi mesi d'attesa. Dovremmo dire anni - almeno trenta - di aspettative, lotte, dolore e speranza per la gente di Casale Monferrato, che ha patito questa tragedia. Almeno 1400 i morti nella cittadina piemontese. A cui si aggiungono i casi di Cavagnolo nel torinese, Ruviera in Emilia e Bagnoli in Campania. Una lunga catena di morti e malati: sono 3 mila in tutto quelli conteggiati nel capo d'accusa.

Il processo ai vertici Eternit si farà e inizierà il 10 dicembre prossimo. Sul banco degli imputati ci sono il barone belga Jean Loui De Cartier De Marchienne e il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, che dopo aver trafficato nella lavorazione della fibra cancerogena è stato rappresentante dell'Onu per lo sviluppo sostenibile. Non sono dirigenti di secondo piano, ma i più potenti signori dell'amianto a livello internazionale: accusati entrambi di disastro doloso (reato che prevede fino a 12 anni di reclusione) e rimozione volontaria di cautele (fino a 5 anni). Non solo avrebbero causato il «disastro», ma non avrebbero nemmeno svolto azioni per prevenirlo né per limitarlo.

Il gup ha respinto tutte le obiezioni della difesa e ha accolto in toto le richieste della Procura di Torino, formulate al termine della maxi inchiesta coordinata dal pm, Raffaele Guariniello, che a caldo ha commentato: «E' stata scritta una pagina importante della tormentata storia dell'amianto in Italia e nel mondo». Un passo storico. Lo dicono un po' tutti, perché da nessuna parte, neanche in Francia, si è riusciti a intraprendere un processo così importante per numero di casi trattati e per il ruolo dei dirigenti coinvolti, la testa di un sistema. Al pm torinese risponde l'avvocato Astolfo Di Amato, che guida il pool di difesa di Schmidheiny: «L'amianto - ha detto - fa parte della storia industriale e sociale, e in tribunale si giudicano gli uomini, non la storia. Il processo non va caricato di significati extra giuridici, come per esempio la responsabilità sociale degli imputati».

Quello del giudice Palmesino è stato un provvedimento lungo e dettagliato. Poteva essere - come spesso succede - un rinvio generico e sintetico, invece, si è rivelato il contrario. Il gup ha voluto sottolineare come i reati contestati (che partono dal 1952) non possano essere prescritti. Un'affermazione chiara: «Il disastro è ancora in atto». Scrive nel documento: «Il disastro si sta ancora manifestando, provocando nuove malattie, sia negli ex lavoratori, sia nei cittadini che vivono in prossimità degli ex stabilimenti Eternit, o nei luoghi in cui è in uso materiale derivato dalla lavorazione dell'amianto». Inoltre «il materiale derivante dalla lavorazione utilizzato per costruzione, pavimentazione e coibentazione è ancora attualmente in uso nei siti».

Commosso, all'uscita del Tribunale, Bruno Pesce, leader del Comitato vertenza Amianto: «Dopo anni si restituisce dignità alle vittime. Sappiamo che gli scogli più grossi devono ancora arrivare, ma quella di oggi è una tappa importante». La sua è una lunga lotta, iniziata sul finire degli anni Settanta e sempre accompagnata da una forte partecipazione sociale. Ieri, erano in 140 i casalesi in aula. Sono quelli che, con altre 550 fra persone fisiche ed enti territoriali, si sono costituiti parte civile. Tra loro c'è chi lavorava all'Eternit, chi ha contratto l'asbestosi, chi in quella fabbrica non ci ha mai messo piede, chi ha perso il padre, il marito, la moglie o il fratello. Tutti portavano un adesivo giallo con scritto «Strage Eternit: giustizia». Nei corridoi, dopo la notizia, sorrisi, lacrime e felicità. Finalmente vittime e parenti vedono aprirsi una porta di speranza. Troppe volte la loro ansia di giustizia è stata delusa. Escono dal Palagiustizia e commentano la decisione del gup con poche ma significative parole: «Siamo felici». Lo dice, per tutti, una donna con gli occhi lucidi. Qualcuno fa la «V» di vittoria, con l'indice e il medio della mano destra. Altri si sfogano: Pietro ha 63 anni e racconta di quando lavorava all'Eternit: «Scaricavamo l'amianto blu, il più pericoloso. Di trenta che erano con me, siamo sopravvissuti in due. E adesso quella gente là deve andare in galera». A mezzogiorno ritornano a Casale, la città della fabbrica del cancro, il maledetto mesotelioma. Ma anche la città che ha messo in atto la più grande bonifica (non certo per opera dell'azienda che i suoi rifiuti li ha lasciati lì dove stavano). Presto, in via Oggero dove sorgeva il grande stabilimento dovrebbe nascere un parco. Si chiamerà «Eternot». Un nome che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.

Sergio Bonetto è l'avvocato di parte civile. Insieme a Pesce, alla pasionaria Romana Blasotti Pavesi, a Nicola Pondrano (segretario della Camera del lavoro di Casale), è uno dei protagonisti di questa storia. Da anni difende le vittime. «Adesso inizia un processo storico, che potrebbe essere d'esempio per tanti altri. Auspichiamo sia partecipato. Vorremmo, infatti, coinvolgere gli avvocati dei paesi europei, perché quello dell'amianto è un problema che va oltre i confini». I numeri fanno spavento: nelle previsioni, nei prossimi decenni i morti nel vecchio continente potrebbero raggiungere la cifra di duecentomila.

Da il manifesto del 23 luglio

lunedì 20 luglio 2009

Shoegaze 2. Sporchi ritorni


Vent’anni dopo è ancora bassa fedeltà. Nu-gaze, shitgaze o no-fi. Boh. Chi meglio rimastica, inventa. Breve e inconsapevole viaggio tra le melodie rumorose della nuova scena indie d’oltreoceano

Che la storia sia ciclica o meno, meglio non disputare. Ma nella storia del costume i ritorni sono innegabili. E tra le prime a essere filtrata c’è l’arte rock. Anche nei meandri più sotterranei. Banalità? Forse. Però, passano i vent’anni e alcune sonorità, o quanto meno un modo d’approccio, riappaiono automaticamente in superficie. Così è sempre stato, per estremizzare: nulla si inventa e nulla si distrugge (qualcosa si scopre?). E adesso, quasi a cavallo tra primo e secondo decennio del XXI secolo, a ritornare è il lo-fi, che l’aveva fatta da padrone nei primi anni Novanta (Pavement e derivazioni varie). Già all’epoca scelta più estetica che etica (a differenza del pre-sixties, dove la bassa fedeltà era più necessità che vezzo). Quindi: dissonanze, obliquità melodiche miste ruvidità punk, voce filtrata, chitarra gracchiante (acustica o elettrica) e batteria sincopata. Un mix che nella cameretta, ormai non più slacker, non ti fa stare fermo. Vent’anni fa, o quasi, come adesso.

Il quasi è importante, perché non essendo ancora al giro di boa le contaminazioni synth-wave degli Ottanta sono continue. Come per i newyorkesi Blank Dogs, il progetto di Mike Sniper: sicuramente più Joy Division che Sebadoh, ma di lo-fi ce n’è abbastanza per citarli a proposito. Under And Under, il loro ultimo album da poco uscito per la fidata In the Red, è tra i più originali di questa scena poco decifrata, ma molto sponsorizzata dal web (Pitchfork in testa). Le coordinate vanno dall’Oregon al Midwest, dalla California a New York. Tutta interna agli States, ma con ancora lo sguardo rivolto verso Inghilterra e dintorni. Vedi, l’ammirazione per i misconosciuti Vaselines e il loro garage-pop che impressionò uno come Kurt Cobain e soprattutto l’amore per i My Bloody Valentine (saccheggiatissimo Loveless), dai quali hanno mutato, oltre al wall of sound, il termine a loro affine shoegaze, rideclinandolo in shitgaze, per opera di Kevin De Broux, bassista dei Psychedelic Horseshit. Ovvero, un suono che nasce da una strumentazione classica rock per virare verso galassie di bassa fedeltà, venendone talmente sommerso da diventare shitty (di pessima qualità). Estetica del brutto, quindi.

Di questa scena «neo lo-fi» - o no-fi, shitgaze, nu-gaze, weird-punk (l’anima più garage), solo per elencare le varie etichette con cui è stata magari maldestramente definita - fanno parte gruppi molto diversi con in comune un approccio «scazzato» o «falso scazzato» (slacker avremmo detto ai tempi del miglior Steve Malkmus). Chiamiamolo naif. Ma anche, in particolare, una miscela dolce-acida che frulla, da punti di vista diversi, indie rock, post-punk e noise pop. Ai tempi di internet e dell’elettronica da comodino. Certo, quando manca un pensiero «forte» si rimodula un paradigma esistente. E l’esaltazione pitchforkiana è talvolta eccessiva. Ma non tutto è fuffa, anzi si può dire che l’indie rock a stelle strisce abbia trovato di nuovo brio.

Gli alfieri sono da una parte, su una costa, i No Age, duo di Los Angeles (Dean Spunt e Randy Randall), dall’altra le Vivian Girls, trio femminile di Brooklyn. Dei primi, Nouns, lo scorso anno, fu uno dei migliori album della stagione: in bilico tra My Bloody Valentine (il loro guardarsi le scarpe mentre suonano – shoegaze appunto - non è mai passato di moda) e Black Flag, tra attitudine punk e stile noisy e un piglio indie-pop alla Doug Martch dei Built to Spill. Il trio delle Grande mela suona, invece, un garage ruvido e melodico, dove ciò che fa inasprire le veloci chitarre rende soave la voce. C’è chi ci rivede i Jesus and Mary Chain (nume tutelare un po’ di tutte le band) e chi i Pixies. Da New York, anche i bravi Crystal Stilts, fra dark-wave e post-punk. Da Atlanta, Georgia, arrivano i Deerhunter, capitanati dallo scheletrico Bradford Cox, già icona indie. Escono per la Kranky di Chicago, tempio di un certo post-rock ambient, ma dello sperimentalismo elettronico, caro alla casa madre, hanno attinto solo agli inizi, poi hanno preferito aguzzare lo guardo verso i piedi.

I Times New Viking provengono dall’Ohio, Columbus per la precisione. Come i Psychedelic Horseshit. Ecco perché, il profondo Midwest viene considerata la patria dello shitgaze. Di cui i Viking sono i naturali rappresentanti: la loro passione è ricoprire con distorsioni e ritmi ossessivi alla Fall trascinanti melodie pop. Verso sud, a San Diego troviamo un altro polo della scena: tre le band proposte, una è il fenomeno del momento. Partiamo dagli Abe Vigoda, che fin dal nome (quello dell’attore caratterista americano che interpretò Tessio ne Il Padrino) puntano sull’ironia; sono quattro giovanissimi ragazzi ispanici, che fanno – a loro detta - «tropical punk». Definizione che lascia il tempo che trova, meglio ascoltarli. Skeleton è un album pieno di sorprese: riprendono la lezione dei concittadini Trumans Water e l’adattano alle cadenze, mai banali, degli Animal Collective. Poi, ci sono i Crocodiles i più «inglesi» fra tutti (non solo per il nome rubato a un disco di Echo & the Bunnymen), appena usciti con Summer Hate e un brano, I Wanna Kill, che ha tutti i crismi del singolo a effetto. Incidono per Fat Possum, stessa etichetta di Wavves, il progetto semi-solista di Nathan Williams, vera piccola stella dello shitgaze, isterie incluse. Oltre, ovviamente, a forti dosi di talento, ben compresse nell’omonimo album che sembra, sedici anni dopo, la giusta continuazione di Westing (By Musket & Sextant) dei Pavement o di qualche cassettina di Daniel Johnston.

A completare la mappa, senza più logiche geografiche: i folli Eat Skull dall’Oregon che scavano, oltre i loro stessi feedback, alla ricerca di una forma canzone più classica. I Titus Andronicus, dal New Jersey, in beffa a un nome shakespearianamente tragico, sono un caldo abbraccio nichilistico (No future...) e caciarone di trascinante e slabrato folk-punk: come se i Neutral Milk Hotel rifacessero Never Mind the Bollocks. I Women arrivano, infine, da Calgary (Canada), il loro esordio è stato registrato da Chad VanGaalen in posti davvero strani, vicino alla stazione o sulla riva di un fiume. Il risultato è un album composito e multiforme: la versatilità è un tratto che li distingue dagli altri. Potremmo chiamarli avant-pop o alt-rock: pescano dai sixties (Beatles e Syd Barrett) come dal white-noise dei Sonic Youth o, ancora, dal raffinato post-rock dei Joan of Arc. Fino al caos rumoristico dei contemporanei Black Dice, per poi tornare alla melodia. Così, già oltre il confine del Montana, fuori frontiera (come se la musica ne avesse), la mappa finisce: la scena è vasta e al momento prolifica. Non tutto si salva, di noiser di maniera è pieno il mondo. Anche a «rimasticare» ci vuol stoffa. Ma, al bando gli snobbismi, la scena indie rock è viva. E si fa sentire. Perché senza dolci rumori non si può campare.

sabato 18 luglio 2009

A Mirafiori lo sciopero unitario, a Roma l'accordo separato

Solo 600 euro di «premio» alle tute blu. Firmano Uilm e Fim, la Fiom non ci sta

TORINO - Lo strappo di Fim e Uilm si consuma in giornata. Al mattino, a Mirafiori, i sindacati sono ancora uniti, anche a distanza di tre giorni. Di nuovo in sciopero, per reclamare un premio di produzione che non sia mera elemosina. Dai 500 euro della scorsa settimana, la Fiat ha rilanciato fino a 600 (la metà dello scorso anno). L'asticella dei sindacati era, invece, fissata a 800 euro. Ma, col passare delle ore, solo la Fiom la tiene ferma. La Fismic si è staccata ai primi segnali d'offerta, già la scorsa notte. Fim e Uilm firmano l'accordo nel pomeriggio, soddisfatti della cifra che «per la prima volta viene erogata anche ai lavoratori in cassa». Un accordo impossibile, invece, per la Fiom, secondo cui la scelta separata delle altre organizzazioni non fa altro che mettere il sigillo sulle decisioni dell'azienda. «La proposta della Fiat non è accettabile - spiega Gianni Rinaldini, segretario generale della Fiom - considerato che lo scorso anno ha avuto il miglior risultato di sempre nella gestione industriale e utili superiori ai 1,7 miliardi di euro».

Ieri mattina, le rsu di Mirafiori avevano indetto uno sciopero unitario. Come quello di martedì. Un corteo prima all'interno dello stabilimento, poi all'esterno, su corso Tazzoli, davanti alle Carrozzerie, cuore della protesta, dove l'adesione è stata del 90%. «La Fiat - sottolineava a caldo Giorgio Airaudo, segretario della Fiom torinese - dovrebbe riflettere, i lavoratori non capiscono perché in un anno in cui l'azienda si impegna all'estero e fa profitti non ci sia un riconoscimento per loro». Che la Fiat faccia affari, compri e investa, ma non li ripaghi di un premio dovuto, proprio non va giù. «Non possiamo pagare la crisi due volte» ribadiscono gli operai. Ma l'unità sindacale è effimera. Nel pomeriggio, arriva la notizia dell'accordo firmato a Roma da Fim e Uilm. Precipita anche sulle teste dei delegati, che si ritrovano spiazzati. Alcuni della Fim non ci stanno e decidono di scioperare insieme alla Fiom, dalle 20 alle 22. All'assemblea l'intervento di Tonino Regazzi, segreteria Uilm, suscita malumori. «L'accordo è motivo di divisione tra i lavoratori» commenta Ugo Bolognesi, rsu alle Carrozzerie. Per Fim e Uilm è positivo che l'azienda aggiunga «una tantum» di 200 euro ai dipendenti degli stabilimenti che nel 2009-2010 conquistino il livello di qualità «silver» rispetto allo standard Wcm. Sofismi. In verità, l'unico fatto positivo è che i 600 euro sarebbero erogati a tutti. «Tuttavia - fa notare la Fiom - questa cifra è pari, anzi inferiore, al puro ricalcolo dell'incidenza media della cassa sull'insieme dei dipendenti».

Per Rinaldini, le scelte di Fim e Uilm «sono una copertura sindacale a ciò che l'azienda aveva già deciso». Anzi, «questo comportamento si aggiunge alla scelta di procedere unilateralmente nella gestione della crisi con trasferimenti discrezionali da uno stabilimento all'altro, l'espulsione dei precari e i tentativi di mettere i lavoratori gli uni contro gli altri». Secondo Rinaldini: «I duri conflitti sociali in atto sono solo responsabilità della Fiat».

Da il manifesto del 18 luglio

mercoledì 15 luglio 2009

Mirafiori si ribella: «Vogliamo più salario»

La protesta degli operai torinesi per il premio di produzione

TORINO - Qualche giorno al mare. La rata del mutuo, i debiti. O anche, solo un po' di tranquillità. Il premio di produzione non è una cosa superflua. Anzi, è molto sentito tra i lavoratori, soprattutto d'estate, soprattutto in tempi magri come questi. Ecco perché la scorsa settimana, a Mirafiori, è stata una vera doccia fredda la notizia che il premio sarebbe stato di soli 500 euro lordi, rispetto agli oltre 1200 della scorsa estate. È vero, c'è la crisi, ma a ben vedere il bonus si riferisce al 2008, che alla Fiat - a parte l'ultimo trimestre - non era andato così male: i ricavi avevano raggiunto i 59,4 miliardi di euro, in crescita dell'1,5% rispetto al 2007, e la gestione ordinaria (3,4 miliardi di euro, +4% dal 2007) era stata la «migliore di sempre» aveva sentenziato il presidente Luca Cordero di Montezemolo.

Quindi, quei 500 euro di premio sono a ragione proprio pochi. «Un torto bello e buono» lo considerano i lavoratori. I delegati di fabbrica non ci hanno pensato due volte e hanno indetto uno sciopero, chiedendo in coro un premio non inferiore agli 800 euro. Così, ieri, gli operai di Mirafiori sono scesi per strada con due cortei molto partecipati. Un migliaio di persone al mattino (il primo turno) e altrettanto al pomeriggio (secondo turno). Intanto, da Termini Imerese, la fabbrica più a rischio, il segretario della Fiom Gianni Rinaldini descriveva il gruppo dirigente Fiat come in stato confusionale: «Continua a fare negli stabilimenti operazioni che alimentano solo tensioni tra i lavoratori». A Mirafiori come a Melfi, dove si rifiuta di corrispondere un premio di risultato di 800 euro, o a Imola dove si vuol chiudere, senza troppi problemi, lo stabilimento Cnh (500 dipendenti).

A Torino, le tute blu sono uscite in corteo dalle Carrozzerie di Mirafiori e al mattino hanno bloccato il traffico in corso Tazzoli e al pomeriggio in Corso Unione Sovietica. Linee ferme e cortei interni anche alle Presse e alle ex Meccaniche. Ma la Fiat parla solo del 39% di adesione. Per i sindacati è, invece, «il primo sciopero con percentuali così alte da quando c'è Sergio Marchionne». L'ultimo di analoghe proporzioni fu nel 2003 quando Mirafiori rischiava di chiudere. «La Fiat - ha sottolineato il segretario della Fiom torinese, Giorgio Airaudo - non può non dare sicurezza ai lavoratori che pagano due volte la crisi con la cassa integrazione e non ricevendo il premio di risultato. Chi pensava che la crisi rendesse gli operai ricattabili si è sbagliato. Oggi Mirafiori è ferma». Bandiere e ghiaccioli per difendersi dal caldo. «Avete visto quanti siamo - dice Mario, soddisfatto - pure a luglio la lotta continua». Tutti ritengono che 500 euro siano una miseria: «Non vogliono nemmeno che vada in vacanza con i miei due figli» sbotta Maria. «Che schizofrenici, da un lato ci chiedono straordinari e dall'altro ci dimezzano il premio e il mutuo chi lo paga?» domanda sconsolato un operaio. «Devono smetterla di usare la crisi per tagliare gli stipendi. Loro fanno affari all'estero, però non ci pagano», spiega Enrico. Ugo Bolognesi, rsu Fiom, sostiene che «i salari debbano riconquistare un potere d'acquisto a partire dalla paga base e dal contratto». Argomento caldo. Ma per un giorno i sindacati, nonostante i contrasti sul rinnovo del contratto nazionale, si sono trovati tutti uniti nella lotta. Fiom, Fim, Uilm, anche i Cobas e pure il Fismic. «Oggi cogliamo il lato positivo dell'unità - dice una lavoratrice - da domani torneremo a litigare sul contratto». Ma Giorgio Cremaschi della Fiom non crede alla tregua: «Le lotte di Melfi e Mirafiori bocciano la filosofia di fondo dell'accordo separato sul sistema contrattuale. Quell'accordo riduce il salario fisso e garantito e aumenta lo spazio per quello».

Sull'offerta avanzata da Marchionne di acquistare Bertone sanno ancora poco. Airaudo avverte: «Nessuno contrapponga la Bertone a Termini Imerese o a Pomigliano. Ci deve essere spiegato come Mirafiori e Bertone possano convivere. Se alla dichiarazione d'interesse seguirà un'offerta mi sembra una buona notizia. A questo punto, però, è indispensabile che il governo e la Fiat ci dicano quali impegni si prendono per tutti gli stabilimenti italiani». Gli impianti Bertone hanno una potenzialità tecnica di 150 mila vetture all'anno e da Mirafioni nel 2008 ne sono uscite 140 mila. «Vogliamo capire - conclude Rinaldini - qual è la strategia della Fiat su Bertone, ma anche su Cnh e Termini Imerese, che sembra voler chiudere. Per questo è necessario che il governo ci convochi a Palazzo Chigi».

Da il manifesto del 15 luglio

martedì 7 luglio 2009

G-Botto, «una retata ad orologeria»

A quarantotto ore dal summit dell’Aquila, ventuno arresti tra studenti dell’Onda e militanti di centri sociali. Sono accusati degli incidenti del 19 maggio a Torino. Il gip: «Scontri preordinati, potevano reiterare il reato in Abruzzo»

TORINO - La lancetta dell'ora deve fare ancora due volte il giro dell'orologio, prima che si inauguri con sfarzo il G8 dell'Aquila. Il momento giusto - penserà qualcuno - per creare tensione. Mancano, infatti, solo 48 ore all'incontro, quando scatta l'operazione Rewind sugli incidenti del contro G8 University Summit (19 maggio scorso). La guida la Digos di Torino, con la direzione centrale della polizia di prevenzione. È mattina: il portone dell'Askatasuna di Torino viene sfondato, così come quello di radio Sherwood di Padova. Più di trenta perquisizioni in case private in tutta Italia. E scattano gli arresti per 12 persone sotto la Mole (5 ai domiciliari), 2 a Padova (uno è Max Gallob, leader del centro sociale Pedro), 4 a Bologna e uno a L'Aquila. Quest'ultimo è il napoletano Egidio Giordano, attivista di Insurgencia: è stato prelevato dal campo 3e32, il quartier generale dei terremotati. Due ragazzi dell'area padovana colpiti dal provvedimento non erano in casa, uno si trova in Iran a fianco dei manifestanti.

In tutto 21 arresti, ritenuti dalla Procura di Torino responsabili degli scontri. Una ventina gli indagati. I reati contestati sono violenza e minaccia a pubblico ufficiale aggravata, lesioni personali e violenza privata. Tra i ragazzi, quasi tutti studenti universitari, molti sono giovanissimi (11 hanno meno di 25 anni) e incensurati, diverse le matricole. Il gip Alessandra Bassi ha motivato la misura della custodia cautelare in carcere con il pericolo di reiterazione dei reati, anche «in vista dell'imminente G8». Alcuni tratti dell'operazione sembrano però quasi ad «orologeria» e presentano qualche «anomalia» di troppo. Il giorno scelto per esempio: le ordinanze sono del 3 luglio, ma sono scattate solo ieri, dopo Vicenza e all'alba del G8. Molti ragazzi sono incensurati e i reati per cui sono accusati non così gravi (non si parla di devastazione). «È quindi particolare - notano i legali Aurora D'Agostino e Gianluca Vitale - che le ordinanze vengano emesse, per un episodio di scontri di piazza, a distanza di più di un mese dall'accaduto». Stupito anche Roberto Lamacchia, difensore di sei dei 12 giovani torinesi: «Non capisco come la procura abbia deciso di assumere misure così drastiche».

L'indagine si è basata su prove fotografiche e video. Duro l'intervento del capo della Procura, Giancarlo Caselli, che ha parlato di «mutazione genetica» del corteo: poco prima di arrivare al Castello del Valentino «si vedono le componenti pacifiche allontanarsi e i restanti 300 coprirsi il volto con sciarpe e caschi ed estrarre mazze e fumogeni». Per Caselli sono prove inconfutabili «di un'organizzazione premeditata e paramilitare degli scontri». Gli studenti dell’Onda non ci stanno: «Nessuna organizzazione paramilitare, anzi c'era totale condivisione allo sfondamento della zona rossa». Puntano l'indice contro il ministro dell'Interno, Roberto Maroni: «È lui il mandante. Oltre a reprimere il dissenso, compie una azione preventiva alla vigilia del G8».

Da il manifesto del 7 luglio
Sullo stesso numero altri articoli su arresti e reazioni

sabato 4 luglio 2009

Operai Thyssen: «Discriminati anche dal Comune»

TORINO - Quelli che si sono costituiti parte civile non hanno trovato lavoro. Gli altri, invece, sono stati ricollocati. E così, in trenta sono ancora a casa, in cassa integrazione e senza prospettive per il futuro. Succede a Torino, a margine del processo Thyssen. A denunciare la discriminazione sono un gruppo di ex operai dell’acciaieria bruciata il 6 dicembre 2007, guarda un po’, tutti costituitisi parte civile. Nonostante ci fosse un accordo tra sindacati, istituzioni e azienda, che prevedeva con la chiusura del sito la ricollocazione di tutti i lavoratori.

Muniti di pettorina arancione e scopa di saggina, come un qualsiasi operaio dell’Amiat (l’ex municipalizzata che si occupa di raccolta e smaltimento rifiuti, dove diversi loro colleghi sono stati assunti), i trenta hanno organizzato un presidio davanti al Tribunale. «Abbiamo subito un trattamento di sfavore – ha detto Ciro Argentino di Legami d’acciaio, uno degli esclusi - rispetto a quei lavoratori ricollocati direttamente dalla Thyssen e dall'Unione industriale in diverse aziende del territorio e in ex municipalizzate, in particolare l'Amiat, senza che si sia tenuto conto di una teorica lista di priorità (età, monoreddito, familiari a carico), creando così discriminazione tra i lavoratori stessi a cui veniva dato un lavoro solo in funzione del fatto che non si costituivano».

Dito puntato contro il Comune, dove il presidio si è spostato: i lavoratori ritengono che, anche se si sia costituito parte civile, abbia mantenuto un atteggiamento ambiguo. «Per quanto riguarda le assunzioni all’Amiat, ha favorito le indicazioni dell'azienda e pure quelle della Uilm. Da tempo, chiediamo udienza all'assessore al Lavoro, il vicesindaco Dealessandri, ma non ci ha mai ricevuto». Infine, una notizia dal processo. Harald Espenhahn, amministratore delegato e principale accusato, ha deciso di farsi vivo: dopo l’estate, si presenterà al dibattimento. Lo ha annunciato il suo legale, Ezio Audisio.

Da il manifesto del 4 luglio

giovedì 2 luglio 2009

Comdata verso la Romania, precari a rischio

TORINO - «Il nostro sospetto è che presto ci lasceranno tutti a casa. Chissà con quale scusa, magari quella solita della crisi». A parlare, sono i lavoratori precari della sede torinese di Comdata, azienda di call center con 5800 dipendenti sparsi per l’Italia, di cui 500, quasi metà a tempo determinato, dislocati sotto la Mole. «La verità è che da qui se ne vogliono andare». Ipotesi eccessiva dice, però, il sindacato. Un mese fa i precari si sono organizzati e si sono dati un nome: Determinati. E ora, lanciano un allarme: «Molti dei 150 contratti in scadenza tra il 15 maggio e il 31 agosto rischiano di non essere rinnovati, in barba all’accordo interno del 2007, che prevede un “percorso di stabilizzazione” per coloro che hanno superato i 18 mesi di contratti a termine o di somministrazione». Finora, i rinnovi sono stati a singhiozzo: alcuni confermati, altri no.

Davanti alle telecamere delle conferenza stampa che hanno convocato, parlano solo due del gruppo, gli unici a tempo indeterminato, Vincenzo Graziano e Luca Gabriele. Gli altri preferiscono non farsi riprendere: «Le nostre sorti – dicono - sono legate a un filo». L’azienda li taglierebbe perché le commesse sono in calo, la più importante di queste è quella per l’Eni e occupa 350 addetti; poi ci sono quelle per Telecom e Compass. «Il vero motivo – spiega Graziano - è che Comdata vuole diversificare gli investimenti in qualche settore più redditizio e con costi del lavoro più bassi, preferibilmente all’estero. Come la commessa Compass, che andrà in Romania». Cosa chiedono i precari all’azienda? «Salvaguardia dei posti, trasparenza e controllo sui contributi pubblici che, nel caso di trasferimento di sedi all'estero, siano restituiti e vadano a costituire un fondo per i lavoratori espulsi».

Tra i Determinati l’età media è 30 anni, perché nei call center non ci sono più solo ragazzini come spesso si pensa. C’è chi lavora in Comdata da un anno e mezzo e chi da quasi tre. «Rispetto a quello che stabilivano gli accordi del 2007, i precari sono ancora troppi: al primo anno si doveva raggiungere la percentuale del 60 a 40 fra indeterminati e determinati e nei successivi di 80 a 20». Denunciano un ambiente di lavoro fatiscente: «Nei filtri dei condizionatori – spiega una ragazza - abbiamo scoperto i funghi». Con le rappresentanze sindacali le relazioni sono difficili: «I confederali – sostengono - sono operativamente inesistenti». Solo con la Cub, a cui Graziano è iscritto, dialogano. «Porta avanti la mia vertenza» interviene Gianfranco, lasciato a casa a fine 2008.

Come risponde la Cgil? «Capisco le preoccupazioni dei lavoratori – spiega Renato Rabellino, segretario regionale Slc - e non nego problemi di comunicazione, anche se preferirei non prevalessero toni catastrofistici: Comdata, da Torino, non va via. Però, tra noi, bisogna riannodare i fili del discorso. Ai Determinati ho scritto ma non ho ricevuto risposta, ho chiesto di comunicarmi irregolarità e situazioni a rischio. Perché, per esempio, giorni fa siamo intervenuti per far riassumere oltre una ventina di lavoratori che non erano stati rinnovati seppur avessero un'anzianità superiore ai 18 mesi. Abbiamo subito informato Comdata che se non avesse rispettato gli accordi sarebbero state rotte le relazioni sindacali e partite le vertenze». Intanto, l’ansia sui rinnovi continua e la mobilitazione dei precari pure.

Da il manifesto del 2 luglio