mercoledì 27 maggio 2009

L'archivio Ostojic


I suoi documenti preziosi sono la testimonianza unica del cinema jugoslavo prima delle guerre nazionaliste e della fucina critica della rivista «Filmska Kultura», da lui fondata nel '57, premiata poi alla Biennale di Venezia

Il vento del porto soffia e si riverbera nel microfono. Siamo a Genova, fine maggio 1991, la Sampdoria ha da poco vinto lo scudetto e un signore gentile dal naso adunco intervista l'allenatore Vujadin Boskov. E' un servizio per l'emittente di Zagabria, ancora per poco Televisione jugoslava. Manca, infatti, meno di un mese prima che vada tutto in frantumi e, oltre Trieste, scoppi la guerra in Slovenia, poi in Croazia e in Bosnia. L'autore del reportage è Stevo Ostojic, corrispondente in Italia per Politika, il più antico quotidiano di Belgrado, e critico cinematografico. Di quel mondo, che non c'è più, è stato protagonista e testimone. E' morto nell'agosto di due anni fa e ha lasciato un archivio vasto e disordinato che racconta, tra libri, appunti, faldoni, film e fotografie in bianco e nero, la storia della Jugoslavia. Avventurarsi all'interno è l'occasione per riscoprire un passato non così lontano, coperto solo da troppa polvere. A salvare le carte è stato Gaetano, un amico, che le ha custodite fin quando ha potuto, in una stanzetta di Velletri. Ma anche lui, qualche mese fa, se n'è andato. Ora ad occuparsene è rimasta la moglie Sena, pittrice, che insieme ai figli Alexandra e Svjetomir (da più di dieci anni in attesa della cittadinanza), vive a Roma.

Stevo era nato in Ungheria nel 1929, presto si trasferì a Zagabria. Qui, lavorò per il giornale di Belgrado, finché non andò, prima che iniziasse la dissoluzione della Jugoslavia, a Roma come corrispondente. Meticcio e nomade. Come la sua patria. E di una cosa era certo: nazionalista non lo era mai stato. Ci teneva a dirlo a chi - purtroppo molti - gli chiedeva un pedigree etnico. Si definiva, invece, un comunista antistalinista e, negli ultimi giorni della sua vita, apolide. Oltre che, pervicacemente, ancora jugoslavo. Aveva iniziato giovanissimo a fare il giornalista, a 18 anni, e non smise mai di scrivere. «Era immerso nei suoi pensieri, ma pieno di energia e di idee» ricorda Sena. L'attualità di fuoco degli anni Novanta gli aveva tolto serenità e tempo. Il lutto lo elaborava scrivendo. Trascurando talvolta le sue passioni, ma mai dimenticandole: letteratura, teatro e soprattutto cinema. «Divorava film su film» aggiunge Alexandra. L'Italia fu sempre sua meta privilegiata, entrò in contatto con l'arte e la politica: da Antonioni a Ungaretti, da Rossellini a Quasimodo, dalla Lollo a Mastroianni, da Natta a Pertini, il presidente partigiano, a cui dedicò un documentario realizzato nel 1990 in collaborazione con Raidue.

A Velletri, le sue carte sono accatastate l'una sopra l'altra. Su un lungo tavolo spiccano pagine lucide e copertine colorate. È la raccolta di Filmska Kultura, la prima rivista di critica cinematografica della Jugoslavia, che Stevo fondò nel 1957 con Fedor Hanzekovic e fu premiata dieci anni dopo alla Biennale di Venezia. Per anni, è stata fucina di critici. Ci scrivevano, anche, importanti storici del cinema come Guido Aristarco e Georges Sadoul e il semiologo Dusan Stojanovic, che «traduceva» le teorie di Metz e Barthes nel cinema balcanico. E, ancora, i registi Dusan Vukotic, primo Oscar non americano per un film d'animazione (Surogat), Vatroslav Mimica, entrambi alfieri della scuola di «cartoni animati» di Zagabria, e Lordan Zafranovic, uno dei «ragazzi della Famu», gli studenti della gloriosa scuola di Praga, l'ultimo dei quali fu Emir Kusturica: il suo primo lavoro - il corto Guernica - fu proprio la tesi di laurea. In una copertina del '77 spunta Tito, che non aveva mai nascosto il suo interesse per la settima arte. Rileggere l'intervista fa sorridere per il paternalismo del presidente, quando sosteneva che «il cinema deve essere ideologicamente impegnato, ben orientato e offrire il suo contributo per uno sviluppo veloce in tutti i campi», ma rimane il ritratto di un'epoca. Dissoltasi nelle guerre. Perché a un certo punto, nel 1990, anche Filmska Kultura smette di pubblicare. Non era però una rivista di «regime», Stevo aveva il suo stile - magari appesantito dalla funzione ideologica dell'analisi - ma non si è mai sottratto a dibattiti critici. Anzi, tra gli anni Sessanta e Settanta, ha animato quello sull'«Onda nera», la nouvelle vague jugoslava che, con Makavejev, Pavlovic e Zilnik, abbandonava l'epica partigiana per pellicole più intimiste. I critici si divisero tra odio e amore.

Il conflitto distoglie Stevo dal cinema, la distruzione del suo paese lo attanaglia. È in Italia già dal 1985. Dopo 5 anni va in pensione, ma la voglia di raccontare non l'abbandona. Scrive ancora per quotidiani e periodici, senza badare alle nuove frontiere: Vecernje Novosti di Belgrado, Dnevnik di Novi Sad, Epoha di Zagabria e Puls di Skopje. A Roma, incontra il manifesto e la sua originale visione della guerra balcanica come in parte eterodiretta dall'Occidente. E dopo questa collaborazione conosce Limes e Lucio Caracciolo, direttore dell'ancor giovane rivista, dove inizia a scrivere. Stevo taglia e ritaglia, tutto quel che trova. Archivia e analizza con un approccio mai freddo. Va anche in onda - come commentatore - sul Giornale Radio Rai, fino all'era Berlusconi: poi, tanti saluti. Nei suoi scritti mette a confronto due «mitomanie»: Grande Serbia e Grande Croazia. Della prima si sentiva parlare spesso, della seconda assai meno. Oltre al nazionalismo, indaga il «crimine» della diplomazia internazionale: gaffe e bluff, errori e contraddizioni, in nome della pace nei Balcani. Torna a concentrarsi sul '91, quando l'impazienza di Bonn e la fretta del Vaticano nel riconoscere l'indipendenza di Lubiana e di Zagabria fecero precipitare la situazione.

È il cruccio degli ultimi anni e lo testimonia il pamphlet, mai pubblicato, Un sommo pontefice politico. Nell'archivio le copie sono tre. È un atto d'accusa nei confronti di Karol Wojtyla e della Santa Sede: riporta le trascurate rivelazioni di Milan Simcic, sottosegretario della Congregazione per il clero, che al quotidiano croato Vjesnik aveva svelato pressioni politiche mosse dal Vaticano all'interno dell'internazionale democristiana, per affrettare il riconoscimento di Zagabria. Stevo è morto e la sua memoria è rimasta lì, sul tavolo di Velletri: «Un patrimonio storico che non deve essere smarrito» si augura Sena.

Da il manifesto del 26 maggio

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