lunedì 4 maggio 2009

Bus numero 4, il rap scende qui


I Pazzi Boys sono la faccia nuova della metropoli multietnica. Una band formata da quattro ragazzi marocchini e un italiano. Il sogno di "Uniti insieme", primo disco pronto per fine anno

TORINO - Il quattro è quello che macina più chilometri di tutti. Non corre come altri su vecchia ferraglia, ma su binari nuovi, taglia in due il capoluogo per poi unirne, in 18 chilometri di percorso, le periferie post-industriali. E sopra ci viaggia un mondo, ci passa la Torino multietnica, che, per una città che ogni tanto si sente ancora un grande paese, è lo spaccato che la fa sembrare metropoli con tutti gli aspetti positivi e negativi conseguenti. Il quattro non si ferma, corre sempre, da Mirafiori a Falchera, passando per il centro e per Barriera di Milano. Magari capita di incontrare Driss, Yassine, A.Younes, Kamel, Antonio, Erika o Laura. I protagonisti di questa storia che non ha nemmeno un anno e parla di cultura e integrazione. E, soprattutto, suona rap. Non si tratta solo di infatuazione per rime o pantaloni larghi, ma di un germe profondo, difficile da debellare. Se quando vai in macchina rappi, se lo fai pure a scuola, per strada o al lavoro, da qualche parte dovrà manifestarsi. Allora canti quello che vedi, quello che senti e quello che vorresti cambiare: il quotidiano – lo sballo, la noia, la gente, le ragazze -, il razzismo che ti fa schifo e le guerre che non sono poi così lontane.

Questa è la storia di un gruppo hip-hop di Barriera, il quartiere che le pagine di cronaca amano raccontare per violenza ed emarginazione. Cinque ragazzi, quattro marocchini e un italiano, che a questo stato di cose non ci stanno e hanno dato vita ai Pazzi Boys. «Un nome semplice per dire che non scendiamo a compromessi» spiega Younes, felpa e cappellino alla rovescia, 20 anni, da 11 mesi in Italia e già due dischi incisi in Marocco, dove il rap è una realtà vivace. Tutto inizia a bordo vasca – era il luglio dello scorso anno - tra il verde della piscina della Colletta, all’estremità di Vanchiglia, altro storico borgo operaio, un paio di isolati più in là dalla tratta del quattro. Qui si incontrano Yassine, 21 anni e un lavoro da magazziniere, Driss 20 anni (da 9 in Italia) studente di ragioneria, e Younes. La scintilla non può che essere il rap: una rima tira l’altra, improvvisano, in gergo fanno «freestyle». Se la cavano bene. E a casa di Younes (che si firma sempre con un A puntata davanti al nome) registrano un pezzo, Casino. Basta un computer e un programma come Magix o Aphex studio e si fanno miracoli. Il testo del brano prende spunto dal quotidiano, dal loro vissuto: «In una giornata si è sempre presi da mille cose e alla fine non ci si accorge di chi abbiamo vicino, di ciò che è veramente importante» precisa Driss, sintetizzandone il senso. E cantano, da subito, in italiano: «Vogliamo che il nostro messaggio arrivi alle persone, diretto senza fraintendimenti». Per togliere, così, un’arma ai più stupidi pregiudizi: «Ci sono quelli che quando parliamo arabo immaginano sempre si stia tramando alle loro spalle». Ma nei ritornelli la lingua madre ritorna e ritmi e melodie si contaminano, maghrebini, americani, europei. Frullano tutto nella loro «patchanka mediterranea». Al gruppo si aggiunge Kamel, 27 anni.

La vera tappa fondativa avviene, però, a gennaio e per viverla bisogna risalire sul quattro, verso Falchera, dove si è svolto un laboratorio hip hop all’interno del progetto di scambio fra i giovani della circoscrizione 6 e quelli di Bagneux, sobborgo parigino. Ecco, l’incontro con Antonio, che da ragazzino aveva suonato in una band rock ma la sua passione è il rap. Vista l’occasione, una sua amica gli ha detto: «Provaci, almeno la finisci di cantare solo in macchina». E così, a 29 anni, si è buttato in questa nuova esperienza. Di giorno, fa il consulente informatico; arriva da Matera ed è da sempre in giro per la penisola. I ragazzi si trovano al centro El Barrio, sede del laboratorio: lo scopo è realizzare un brano hip hop, in italiano e in arabo, per raccontare la vita del territorio, i luoghi e le persone. Nasce Gente estrema, che li ha portati qualche settimana fa a esibirsi a Bagneux. Giocano con le parole, con la metrica per comunicare quello che sentono, cantano: «Non sono razzista, non sono fascista. C'è lo straniero buono e quello cattivo». Antonio spiega: «Arrivo dal Sud, mi sconvolge pensare che siano proprio i vecchi immigrati meridionali i primi ad opporsi all’integrazione». I Pazzi Boys raccontano la vita di Barriera, ma parlano anche della guerra in Palestina, delle bombe al fosforo e della sofferenza patita dalla popolazione di Gaza. Parlano pure di religione, perché non sia un ostacolo. Si muovono dal particolare all’universale, a ritmo di rap.

Lungo l’ormai mitica tratta del quattro, conoscono Erika, che ha lavorato a Falchera (dove abita) e ora, a Barriera di Milano, è responsabile del progetto «Intrecci di cultura» per il consorzio Kairos ai Bagni pubblici di via Agliè. Proprio ai Bagni, i Pazzi Boys si esibiscono il 30 marzo e qui – tra vasche e docce - vogliono allestire una sala prove. «Così liberiamo la cameretta di Younes, per incidere il nostro primo disco». Uniti e insieme, pronto per fine anno: 13 brani, da Torino nera a Che male c’è, dove rappano: «Giudizi che colpiscono e fan male, etichette poste senza una ragione. / Pesanti da assorbire nei volti della gente che ti schiva. / Associando / in modo anche arrogante / una razza di episodi andati di rovescio. / E a fare di tutta l’erba / un grande fascio. / Non lascio che resti qui zittito ad aspettare. / Ho una voce per parlare / non un sogno da ammazzare». Arabo e italiano si intrecciano, la musica è contaminata dalle radici dei vari membri e dai diversi background. Bassi Maestro per Antonio, La Fouine (rapper francese d’origine marocchina) e i Fnaire di Marrakech per i più giovani. «Lo stile che ci è più vicino – dice Yassine - è quello crunk». Genere, che se vai a scoprire, è nato nella patria del rock, Memphis, ed è caratterizzato dalla presenza di fischi o speciali beat potenti. «Noi facciamo hip hop anche ballabile, cantato a tratti lentamente e molto ritmato dal punta di vista elettronico».

Sono i ragazzi di Barriera di Milano. Quella porzione di Torino che si estende nella periferia nord-est della città e che i media a caccia di scoop raccontano spesso come la banlieue infuocata. Da Tossic Park, ai piromani delle auto incendiate, dalle violenze in strada o domestiche alle agguerrite ronde. I problemi ci sono e da sempre. Nessuno li nasconde. Ma non c’è solo questo. C’è anche una realtà vitale, che si ribella e dice quello che pensa. E prova a fare dell’arte un veicolo di integrazione. «Sarebbe facile fosse tutto etichettabile con qualche responsabilità straniera» spiega Erika, che ai Pazzi Boys fa un po’ da manager. «Barriera, a differenza di Porta Palazzo o San Salvario, non è un quartiere d’ingresso, ma di stabilizzazione. Le famiglie vengono qui per fermarsi». L’immigrazione attuale sta ripercorrendo le tappe di quella meridionale negli anni Sessanta. Dopo aver occupato gli spazi più permeabili e raggiungibili, le zone centrali della città, vicine alla ferrovia o ai grandi mercati, una volta ricomposto il nucleo familiare, gli stranieri si spostano dove i costi sono più contenuti e le condizioni migliori, come in periferia. La memoria italiana però è corta e il razzismo in ebollizione. «Sui giornali – aggiunge Erika - fanno paragoni con le banlieue francesi, ma, invece, sono gli stessi stranieri che qui non vogliono scatenare il conflitto sociale. Circoscrivono il razzismo, e alla fine dicono che gli italiani non sono tutti così, di bravi ce ne sono». E Driss e gli altri hanno subito atti razzistici? «Sì e no – dicono i ragazzi – ma li vediamo spesso, soprattutto sul tram». Dove le distanze si assottigliano. Ecco, anche il nostro beneamato quattro da luogo della contaminazione può trasformarsi in quello dell’intolleranza. «Vedi le persone che tengono strette le borse o quando chiedi un’informazione non ti rispondono e ti guardano con sospetto. Soprattutto gli anziani». A Barriera è solida la comunità maghrebina, molti arrivano da Khouribga, a sud di Casablanca. Come Younes, che lì era protagonista della giovane scena rap e con il suo gruppo aveva girato due videoclip.

E anche i Pazzi Boys sono pronti a sbarcare sullo schermo. Dietro alla macchina da presa, Laura Halilovic - l’ultimo dei personaggi della nostra storia che corre lungo la linea quattro -, 19 anni, giovane regista di origine rom, vincitrice nel 2007 del festival Sottodiciotto con il corto Illusione. Come Erika, abita a Falchera e con i rapper di Barriera ha sentito subito una comunanza di intenti: «Sono ragazzi che vogliono comunicare, lanciare messaggi, guardarsi intorno». E il quattro sarà una delle location del videoclip di Gente estrema. Laura, intanto, ha appena girato il documentario Io la mia famiglia rom e Woody Allen. Che c’entra l’autore di Manhattan? «Fu lui che all’età di 9 anni mi folgorò. Dissi a mia mamma che volevo diventare come Woody. Lei rise». Con il suo ultimo lavoro vuole far conoscere il popolo rom, oltre gli stereotipi. «I rom, o come vengono chiamati con un tono dispregiativo gli zingari, per la maggior parte vivono nelle case, i loro figli vanno a scuola, a differenza di quello che tutti credono. Solo alcuni vivono girando come facevano una volta». Le cose stanno un po’ cambiando: «C’è chi ha aperto gli occhi. Ma ci sono ancora troppi pregiudizi».

Da Alias, inserto de il manifesto del 3 maggio

1 commento:

Anonimo ha detto...

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