TORINO - Tanti nuovi tasselli che descrivono una fabbrica allo sbando. Da settembre in poi, al ritorno in azienda con la chiusura ufficializzata dello stabilimento, gli operai della Thyssen si trovarono di fronte a una situazione davvero critica, che le testimonianze di ieri al processo in Corte d'Assise rappresentano bene. Riunioni farsa sulla sicurezza, tagli alle pulizie e alla manutenzione, incuria e capiturno non preparati ad affrontare il rischio di un incendio. Come Vincenzo Sabatino, a cui - tre giorni prima del rogo del 6 dicembre 2007 - fu affidata la responsabilità della squadra d'emergenza. Il personale calava e la figura del capoturno veniva ricoperta da una sola persona, a rotazione. «Quando non restò più nessuno - ha raccontato - chiamarono me ed altri tre colleghi». Alla domanda se si sentisse in grado di fronteggiare i rischi ha risposto «no, e pensavo che in azienda lo sapessero».
Fra i capiturno c'era anche Rocco Marzo, una delle vittime. Era a poche settimane dalla pensione: considerato un lavoratore esperto, non aveva però una formazione antincendio. Nemmeno gli altri operai della linea 5, morti tra le fiamme, ce l'avevano. Solo Antonio Schiavone, un'infarinatura teorica. A rivelarlo, Michelangelo Visentin, ispettore Asl, teste al processo, che ha sottolineato come gli addetti all'emergenza, negli ultimi due anni fossero scesi da 36 a 9. Secondo le verifiche effettuate dal luogotenente della Guardia di finanza, Piercarlo Cappellino, nel 2007 si era, inoltre, registrato un crollo di ore di pulizie e di spese per la manutenzione relativa alla sicurezza antincendio (31 mila euro in meno): «Se negli anni precedenti erano molteplici le ricariche di estintori, soprattutto da 45 chili, dal luglio 2007 quest'ultime sono praticamente sparite». A proposito delle riunioni di sicurezza, Gianluca Donadio, ex operaio, ha raccontato che spesso lui e i suoi colleghi firmavamo soltanto il foglio di presenza perché «ci dicevano che tanto le cose le sapevamo». Erano, invece, diverse le problematiche che si sarebbero dovute affrontare: «Gli aspiratori non erano sufficienti, le campate piene di fumo, il tetto bucato e i cavi scoperti. Sono stato in cassa nell'estate e quando sono rientrato mi sono accorto che mancava parecchia gente e tanti andavano in altri reparti senza sapere dove mettere le mani».
Massimo Zucchetti, ordinario di Sicurezza e Analisi di Rischio, è il perito delle parti civili. Il 28 aprile scorso ha depositato una relazione di 60 pagine che ricostruisce l'evento, identifica le cause e le responsabilità di un disastro annunciato. «La linea 5 - ha sottolineato a margine del processo - pur funzionando oltre i normali regimi di produzione, violava ogni norma di sicurezza: il fondo dell'impianto era pieno di olio, ovunque c'erano residui di carta oleati e i piccoli incendi erano costanti, mentre gli estintori scarichi. L'impianto presentava malfunzionamenti da usura e scarsa manutenzione». L'unico obiettivo dell'azienda era chiuderlo e spostarlo a Terni: «Ecco perché - precisa - non era mai stato adottato un sistema automatico di spegnimento». Le squadre di sicurezza e antincendio erano insufficienti o inesistenti: «Erano costitute da personale che non aveva completato l'addestramento antincendio previsto dalla legge e tra gli operai era fortemente radicato il concetto che loro per primi dovessero sopperire a qualsiasi problema evitando di interrompere la produzione». L'analisi di Zucchetti si sofferma, infine, sul fatto che al momento dell'incidente i sistemi di sicurezza automatici che segnalavano la presenza di carta spuria erano esclusi manualmente o addirittura guasti. E non esisteva un sistema di rilevazione incendi.
Processo Thyssen, diciassettesima udienza
Da il manifesto del 6 maggio
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