Vent’anni dopo si ritorna a Seattle. Stessa etichetta: la rediviva Sub Pop. Ma non più sporchi e cattivi come nell’era grunge. Nella città del Nord soffia ora un vento barocco, mai tronfio e pieno di creatività. Sono i Fleet Foxes, giovane quintetto barbuto che con l’omonimo esordio sforna uno degli album dell’anno. Proprio a indicare che nella rilettura e nella contaminazione del folk si svela il miglior indie rock dell’ultima generazione. Basta andare qualche centinaia di chilometri a Sud, a San Francisco, per incontrare un’altra rivelazione: Dodos, più essenziali e ritmati.
Iniziamo dai primi. Cori e suoni caldi ci catapultano presto in una dimensione orchestrale, che talvolta si regge solo sulla voce come nel crescendo di White Winter Hymnal. E poi, i passaggi onirici, dalla malinconica Tiger Mountain Peasant Song alla ballata He Doesn't Know Why. Per finire in punta di chitarra con Oliver James. Tra le note, incontriamo i contemporanei Akron Family, ma soprattutto le radici del passato dai Beach Boys a Crosby Stills Nash And Young.
Il duo californiano, in Visiter, si diverte a nascondere la complessità delle composizioni in una formula semplice di voci, chitarra e percussioni, in bilico tra folk, psichedelia e divagazioni afro. Un disco senza pause, che ti cattura nelle mille sfumature: Beirut, Vampire Weekend ma anche David Byrne, per citare le influenze. Ecco il microcosmo Dodos, dalla trascinante solarità di Fools alla più rude e bluesy Paint the rust.
fleet foxes: sito e myspace
dodos: sito e myspace
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