ALESSANDRIA – Per chi guarda dal ponte Tiziano o si avvicina al Cittadella, il più antico di Alessandria, chiuso al traffico, il ricordo vola al 1994 quando il Tanaro in tempesta fece 11 morti e allagò con tre metri d’acqua il quartiere Orti. Lo stesso che ieri mattina, insieme al rione Piscina, è stato evacuato per decisione del sindaco Piercarlo Fabbio. Ad agitare gli animi la paura che il vecchio ponte possa fare da tappo ostacolando il deflusso della corrente come successe 15 anni fa. L’onda di piena (2.500 metri cubi d'acqua al secondo) arriva alle 14,30 e fortunatamente le arcate reggono: il livello d’acqua si mantiene 80 centimetri al di sotto della sommità dell’arcata. Il peggio è passato e in serata i seimila abitanti temporaneamente sfollati tornano nelle loro case.
Questo non è che uno – forse il più simbolico - dei tanti scorci d’ansia vissuti ieri in Piemonte, dove ha piovuto ininterrottamente per quasi tre giorni e il presidente della Regione Mercedes Bresso ha chiesto al governo lo stato di emergenza. Situazioni critiche anche in Lombardia, in Emilia e in tutte le regioni del Nord. Frane, sponde fluviali erose, slavine, strade e ponti chiusi. Il Tanaro (135 mm di pioggia in meno di 48 ore) ha incominciato a far paura lunedì nelle Langhe, per poi straripare in serata nella piana di Castello d'Annone, a dieci chilometri da Asti, allagando case e campi (l'agricoltura lamenta danni per decine di milioni di euro). L’emergenza si è così spostata ieri sull’alessandrino. Nel capoluogo di provincia in molti si sono riversati sui ponti o sugli argini per osservare la piena. Tanti gli stranieri, come la forte comunità islamica preoccupata per Borgo Rovereto che nel ‘94 fu sommerso e molti di loro non abitavano ancora lì. Oggi le scuole ad Alessandria rimarranno chiuse. Si è intanto aperto il dibattito sul dopo-emergenza e in particolare sul futuro del ponte Cittadella. L’assessore regionale alla Protezione civile Luigi Ricca ritiene che si dovrà agire per poterlo abbattere e per ricostruirne poi uno più sicuro. Più a valle, ha preoccupato il punto della confluenza con il Bormida, vicino a Montecastello.
Sorvegliato speciale il fiume Po, salito di tre metri in pochi giorni, come segnalato dalla Coldiretti: ha superato il livello di guardia di oltre 50 centimetri nel tratto che attraversa Valenza. E gli esperti della Protezione civile del Piemonte e dell’Arpa prevedono che la piena arrivi oggi, tra pomeriggio e sera, nel territorio piacentino, con una portata stimata attorno ai 7 mila metri cubi al secondo. A Torino, ieri, il fiume ha raggiunto la portata di 1.500 metri al secondo. Completamente allagati i Murazzi, l'area della movida torinese, e buona parte del parco del Valentino. In montagna sono caduti dai 40 ai 90 centimetri di neve oltre i 1.300-1.400 metri. Valanghe sono cadute su tutto l'arco alpino, mentre le slavine principali si sono staccate nel Verbano, nel Biellese e in Valsesia. Pericolo valanghe, classificato come «forte» (grado quattro su una scala di cinque) pure in Valle d'Aosta e rischi anche in Veneto e in Trentino. Moltissimi sono i disagi per la viabilità, un po' in tutto il Paese.
In Lombardia è stato dichiarato lo stato di allarme per rischio idrogeologico in sei province: Milano, Bergamo, Como, Lecco, Sondrio e Varese. Si è poi scavato tutto il giorno a Broni, in provincia di Pavia, per cercare Giuseppe Pessina, l’uomo di 70 anni rimasto travolto dal crollo della palazzina adiacente alla sua casa lunedì notte, dopo che per il maltempo è franata una parte di collina. La zona è stata evacuata ed è transennata. Durante le operazioni di soccorso, riprese ieri martedì all’alba, sono rimasti lievemente feriti due vigili del fuoco. Infine, ad Altissimo (Vicenza) nelle prealpi vicentine una frana causata dalle abbondanti piogge di questi giorni è precipitata nei pressi delle scuole elementari di via Moline. Lo smottamento è passato tra due edifici finendo sulla strada provinciale che collega la località vicentina con Crespadoro, che è stata chiusa al traffico. Da oggi, l’allarme maltempo, previsto per altre ventiquattro ore, si sposterà verso Est.
Da il manifesto del 29 aprile
mercoledì 29 aprile 2009
Il video del rogo e il giallo degli estintori
TORINO - Sullo schermo di nuovo le immagini del rogo, a voce – invece - il mistero degli estintori. L’udienza di ieri del processo Thyssen si è divisa in due fasi. Il video con la ricostruzione filmata dell’incendio, che in realtà in parte era già stato proiettato e ha suscitato nuova commozione, e la testimonianza di Fabrizio Canestri, addetto esterno alla sostituzione degli estintori nell’acciaieria. Una deposizione a tratti lacunosa che ha sollevato diversi interrogativi. Il 7 dicembre, poche ore dopo la strage, Canestri fu chiamato da Cosimo Cafueri, responsabile della sicurezza e ora tra i sei dirigenti imputati, per fare un giro di controllo. «Ma davanti all'ingresso - ha raccontato - c'era tanta gente. Erano arrabbiati per quello che era successo. Non mi fecero entrare e me ne andai». Verso il 17 dicembre, Cafueri lo richiamò e gli chiese di «mettere tutto in ordine». Una frase che lascia spazio a molti dubbi, che il teste - davanti ai pm - non ha certo risolto. Canestri lavorò tre giorni e solo all' ultimo fu bloccato da un ispettore dell'Asl che gli sequestrò i 66 estintori che aveva con lui e lo interrogò immediatamente. Il filmato di quattro minuti in animazione 3D realizzato dai consulenti della procura (probabilmente il primo di questo tipo utilizzato in un processo) ha riportato, infine, l’aula ai drammatici momenti di quella notte maledetta. Il nastro d’acciaio che scorre strisciando contro la carpenteria della linea 5 e le scintille che innescano un focolaio. Roberto Scola se ne accorge e avverte i compagni, Schiavone passa dietro l’impianto per prendere gli estintori, Boccuzzi va invece verso la manichetta. Apre la valvola e, in quel momento, una fiammata, causata dall’olio nebulizzato fuoriuscito da un flessibile rotto, inghiotte i suoi compagni. La meticolosa ricostruzione è stata contestata dalla difesa: «Non si è tenuto conto dei veri tempi e delle posizioni degli operai. Vale solo come impatto emotivo».
Processo Thyssen, quindicesima udienza
Da il manifesto del 29 aprile
Il video dell'accusa
Processo Thyssen, quindicesima udienza
Da il manifesto del 29 aprile
Il video dell'accusa
sabato 25 aprile 2009
In montagna
Non c’è, oggi, nulla da festeggiare. Né tantomeno da condividere. Sarebbe ipocrisia non dirlo.
Dobbiamo ammetterlo. Con angoscia. Ma anche con quel po’ di rispetto che merita ancora la verità: il 25 aprile è diventato una “terra di nessuno”. Un luogo della nostra coscienza collettiva vuoto, se ognuno può invitarvi chi gli pare, anche i peggiori nemici della nostra democrazia e i più incalliti disprezzatori della nostra resistenza. E se ognuno può farvi e dirvi ciò che gli pare: usarlo come tribuna per proclamare l'equivalenza tra i partigiani che combatterono per la libertà e quelli della Repubblica di Salò che si battevano con i tedeschi per soffocarla, come va ripetendo l’attuale ministro della difesa. O per denunciarne – dopo averlo disertato per anni - l’ ”usurpazione” da parte delle sinistre che se ne sarebbero indebitamente appropriate, come l’attuale grottesco e tragico presidente del Consiglio.
O ancora – in apparenza l’atteggiamento più nobile, in realtà il più ambiguo ma anche il più diffuso – per riproporre l’eterna retorica della “memoria condivisa”: quella che in nome di un’ Unità della Nazione spinta fino ai precordi dell’anima, all’interiore sentire, vorrebbe cancellare – anzi “rimuovere”, come accade nelle peggiori patologie psichiche – il fatto, “scandaloso”, che allora, in quel 25 aprile, ma anche nei durissimi decenni che lo precedettero e prepararono, si scontrarono due Italie, segnate da interessi e passioni contrastanti, da valori e disvalori contrapposti. Due modi radicalmente in conflitto tra loro, di considerarsi italiani.
Un’Italia, da una parte, in origine spaventosamente minoritaria, sopravvissuta nei reparti di qualche fabbrica, nei quartieri operai delle grandi città, lungo i percorsi sofferti dell’esilio, nelle carceri e nelle isole del confino (quelle di cui il “premier” parla come di luoghi di vacanza): un’Italia quasi invisibile, fatta di inguaribili eretici, di testardi critici ad ogni costo, anche quando le folle plaudenti sembravano dar loro torto, di gente intenzionata a “non mollare” anche quando il “popolo” stava dalla parte del despota, di “disfattisti” contro la retorica di regime, anche quando le legioni marciavano sulle vie dell’Impero… L’Italia, insomma, dei “pochi pazzi” che, come disse Francesco Ruffini, uno dei pochissimi professori che non giurarono, deve in modo ricorrente rimediare agli errori fatali dei “troppi savi”… E dall’altra parte l’Italia, sempre plaudente dietro qualche padrone, delle folle oceaniche, degli inebriati dal mito della forza e del successo, dei fedeli del culto del capo. L’Italia “vecchissima, e sempre nuova dei furbi e dei servi contenti”, come scrisse Norberto Bobbio: quelli che considerano la critica un peccato contro lo spirito della Nazione, e la discussione un lusso superfluo.
Vinse la prima: il 25 aprile sanziona appunto quella insperata, impossibile vittoria. E vincendo finì per riscattare tutti, permettendo persino, con quella sua sofferta vittoria, all’altra Italia di mascherarsi e di non fare i conti con se stessa. Sicuramente di non pagare, come avrebbe meritato, i propri crimini ed errori. Ma con ciò il dualismo non scomparve: rimase comunque un’Italia che si identificò con la Resistenza, e una che mal la sopportò e l’osteggiò. Una che si sforzò di continuare l’opera di bonifica contro quell’espressione dell’”autobiografia della nazione” che è stato il fascismo, e un’altra che, sotto traccia, in quell’autobiografia ha continuato a riconoscersi. Un’Italia che stava (fino a ieri pubblicamente) con i suoi partigiani, e un’altra che continuava (fino a ieri privatamente, o quasi) a diffidarne, se non addirittura a rimpiangere il proprio impresentabile passato.
Ora quella “seconda Italia” (fino a ieri forzatamente in disparte, per lo meno nel giorno dell’anniversario) ha rialzato la testa. Si è dilatata nello spazio pubblico fino a occuparlo maggioritariamente. E ha rovesciato il rapporto. L’autobiografia della nazione è ritornata al potere. Non solo ha ripreso pubblicamente la parola, ma ha ricominciato a dettare l’ordine del discorso. A rifare il racconto pubblico sul nostro “noi”. Tutto il frusto dibattito di questi giorni sul nuovo significato del 25 aprile si svolge all’insegna di quella domanda di “ricomposizione” delle fratture, che nel fingere di “celebrare” le scelte di allora in realtà le neutralizza e offende. Di più: ne rovescia radicalmente il segno.
Ci sta alle spalle un mese in cui abbiamo assistito a un clamoroso tentativo d’imporre, con la logica dell’emergenza, un clima asfissiante di rifiuto della critica e di esaltazione del culto del capo; in cui il sistema dell’informazione ha raggiunto vette di servilismo imbarazzanti; in cui l’opposizione, ridotta a fantasma, ha balbettato o si è adeguata. Come non vedere quanto l’appello alla “memoria condivisa”, in questo contesto, suoni sostegno a quella stessa domanda di unanimismo che sta dietro ogni logica di regime? Quanto essa risponda a quella sorda domanda di far tacere le differenze e le dissonanze che costituì il vero “male oscuro” delle nostre peggiori vicende nazionali?
Per questo – per tutto questo – per la prima volta, nei sessantaquattro anni che ci separano dall’evento che si dovrebbe festeggiare, le piazze ci appaiono perdute. In esse non ci troviamo più a casa nostra, non tanto e non solo perché i nostri avversari hanno prevalso (questo accadde anche nel 1994, e il 25 aprile in piazza ci fummo, eccome!). Ma perché una delle due Italie, quella che aveva riempite quelle piazze come luoghi di una democrazia faticosamente presidiata, non c’è più. La sua voce si è affievolita, fin quasi al silenzio, per oblio delle proprie radici, incertezza sulle proprie ragioni, pigrizia mentale… Per insipienza degli uomini e fragilità del pensiero. Non andremo al mare, in questo giorno. Questo no. Ma in montagna forse sì, lì idealmente si dovrebbe ritornare, dove l’aria è più fine e favorisce la riflessione e il pensiero. Sul mondo nuovo che stentiamo a capire. E su di noi, che ci siamo smarriti. Ne abbiamo un impellente bisogno.
Marco Revelli
Da il manifesto del 25 aprile
Dobbiamo ammetterlo. Con angoscia. Ma anche con quel po’ di rispetto che merita ancora la verità: il 25 aprile è diventato una “terra di nessuno”. Un luogo della nostra coscienza collettiva vuoto, se ognuno può invitarvi chi gli pare, anche i peggiori nemici della nostra democrazia e i più incalliti disprezzatori della nostra resistenza. E se ognuno può farvi e dirvi ciò che gli pare: usarlo come tribuna per proclamare l'equivalenza tra i partigiani che combatterono per la libertà e quelli della Repubblica di Salò che si battevano con i tedeschi per soffocarla, come va ripetendo l’attuale ministro della difesa. O per denunciarne – dopo averlo disertato per anni - l’ ”usurpazione” da parte delle sinistre che se ne sarebbero indebitamente appropriate, come l’attuale grottesco e tragico presidente del Consiglio.
O ancora – in apparenza l’atteggiamento più nobile, in realtà il più ambiguo ma anche il più diffuso – per riproporre l’eterna retorica della “memoria condivisa”: quella che in nome di un’ Unità della Nazione spinta fino ai precordi dell’anima, all’interiore sentire, vorrebbe cancellare – anzi “rimuovere”, come accade nelle peggiori patologie psichiche – il fatto, “scandaloso”, che allora, in quel 25 aprile, ma anche nei durissimi decenni che lo precedettero e prepararono, si scontrarono due Italie, segnate da interessi e passioni contrastanti, da valori e disvalori contrapposti. Due modi radicalmente in conflitto tra loro, di considerarsi italiani.
Un’Italia, da una parte, in origine spaventosamente minoritaria, sopravvissuta nei reparti di qualche fabbrica, nei quartieri operai delle grandi città, lungo i percorsi sofferti dell’esilio, nelle carceri e nelle isole del confino (quelle di cui il “premier” parla come di luoghi di vacanza): un’Italia quasi invisibile, fatta di inguaribili eretici, di testardi critici ad ogni costo, anche quando le folle plaudenti sembravano dar loro torto, di gente intenzionata a “non mollare” anche quando il “popolo” stava dalla parte del despota, di “disfattisti” contro la retorica di regime, anche quando le legioni marciavano sulle vie dell’Impero… L’Italia, insomma, dei “pochi pazzi” che, come disse Francesco Ruffini, uno dei pochissimi professori che non giurarono, deve in modo ricorrente rimediare agli errori fatali dei “troppi savi”… E dall’altra parte l’Italia, sempre plaudente dietro qualche padrone, delle folle oceaniche, degli inebriati dal mito della forza e del successo, dei fedeli del culto del capo. L’Italia “vecchissima, e sempre nuova dei furbi e dei servi contenti”, come scrisse Norberto Bobbio: quelli che considerano la critica un peccato contro lo spirito della Nazione, e la discussione un lusso superfluo.
Vinse la prima: il 25 aprile sanziona appunto quella insperata, impossibile vittoria. E vincendo finì per riscattare tutti, permettendo persino, con quella sua sofferta vittoria, all’altra Italia di mascherarsi e di non fare i conti con se stessa. Sicuramente di non pagare, come avrebbe meritato, i propri crimini ed errori. Ma con ciò il dualismo non scomparve: rimase comunque un’Italia che si identificò con la Resistenza, e una che mal la sopportò e l’osteggiò. Una che si sforzò di continuare l’opera di bonifica contro quell’espressione dell’”autobiografia della nazione” che è stato il fascismo, e un’altra che, sotto traccia, in quell’autobiografia ha continuato a riconoscersi. Un’Italia che stava (fino a ieri pubblicamente) con i suoi partigiani, e un’altra che continuava (fino a ieri privatamente, o quasi) a diffidarne, se non addirittura a rimpiangere il proprio impresentabile passato.
Ora quella “seconda Italia” (fino a ieri forzatamente in disparte, per lo meno nel giorno dell’anniversario) ha rialzato la testa. Si è dilatata nello spazio pubblico fino a occuparlo maggioritariamente. E ha rovesciato il rapporto. L’autobiografia della nazione è ritornata al potere. Non solo ha ripreso pubblicamente la parola, ma ha ricominciato a dettare l’ordine del discorso. A rifare il racconto pubblico sul nostro “noi”. Tutto il frusto dibattito di questi giorni sul nuovo significato del 25 aprile si svolge all’insegna di quella domanda di “ricomposizione” delle fratture, che nel fingere di “celebrare” le scelte di allora in realtà le neutralizza e offende. Di più: ne rovescia radicalmente il segno.
Ci sta alle spalle un mese in cui abbiamo assistito a un clamoroso tentativo d’imporre, con la logica dell’emergenza, un clima asfissiante di rifiuto della critica e di esaltazione del culto del capo; in cui il sistema dell’informazione ha raggiunto vette di servilismo imbarazzanti; in cui l’opposizione, ridotta a fantasma, ha balbettato o si è adeguata. Come non vedere quanto l’appello alla “memoria condivisa”, in questo contesto, suoni sostegno a quella stessa domanda di unanimismo che sta dietro ogni logica di regime? Quanto essa risponda a quella sorda domanda di far tacere le differenze e le dissonanze che costituì il vero “male oscuro” delle nostre peggiori vicende nazionali?
Per questo – per tutto questo – per la prima volta, nei sessantaquattro anni che ci separano dall’evento che si dovrebbe festeggiare, le piazze ci appaiono perdute. In esse non ci troviamo più a casa nostra, non tanto e non solo perché i nostri avversari hanno prevalso (questo accadde anche nel 1994, e il 25 aprile in piazza ci fummo, eccome!). Ma perché una delle due Italie, quella che aveva riempite quelle piazze come luoghi di una democrazia faticosamente presidiata, non c’è più. La sua voce si è affievolita, fin quasi al silenzio, per oblio delle proprie radici, incertezza sulle proprie ragioni, pigrizia mentale… Per insipienza degli uomini e fragilità del pensiero. Non andremo al mare, in questo giorno. Questo no. Ma in montagna forse sì, lì idealmente si dovrebbe ritornare, dove l’aria è più fine e favorisce la riflessione e il pensiero. Sul mondo nuovo che stentiamo a capire. E su di noi, che ci siamo smarriti. Ne abbiamo un impellente bisogno.
Marco Revelli
Da il manifesto del 25 aprile
venerdì 24 aprile 2009
«Il Quirinale ci fa sperare: la salva-manager sarà cambiata»
Il capo dello Stato a Torino dai parenti delle vittime Thyssen e dai delegati delle aziende in crisi
TORINO - Martedì erano veramente arrabbiati dopo aver saputo che quella norma salva-manager avrebbe reso vano il loro processo. Si sentivano smarriti, abbandonati. L'incontro di ieri con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano li ha invece rinfrancati, ridato speranza. I familiari della vittime della Thyssen sono usciti dalla Prefettura con gli occhi lucidi. Commossi. «Lo Stato ci è vicino» hanno detto in coro. «Il presidente - hanno aggiunto - ha garantito che quell'articolo del Testo unico verrà riscritto». La stessa vicinanza l'hanno avvertita i delegati delle aziende in crisi, ricevuti anche loro dal capo dello Stato, che, prima di partire alla volta dell'Ossario partigiano di Coazze - ultima tappa della sua tre giorni torinese - ha commentato: «E' stato un incontro che ci ha dato il senso della gravità di molte situazioni e della serietà con cui i lavoratori e i loro rappresentanti affrontano la crisi».
I parenti degli operai morti alla Thyssen, almeno una decina, sono saliti al primo piano della Prefettura per parlare con il presidente. Laura Rodinò, sorella di Rosario, ha spiegato i contenuti dell'appello lanciato a Napolitano perché il Testo unico non venga modificato. Poi ha preso la parola Rosina Demasi, mamma di Giuseppe, che al termine ha sottolineato: «E' stato gentile e umano. Ci starà vicino come sempre». Anche Rosetta Marzo si è sentita rassicurata: «Un incontro toccante. Abbiamo detto che noi non chiediamo vendetta ma solo giustizia». Presente Antonio Boccuzzi, parlamentare Pd e sopravvissuto alla strage: «Le parole del presidente danno sostegno a quello che auspichiamo, ovvero la riscrittura, se non addirittura la cancellazione, dell'articolo 15 bis». Ciro Argentino, ex Rsu dell'acciaieria, ha consegnato al capo dello Stato la tessera onoraria dell'associazione Legami d'acciaio che riunisce gli ex lavoratori della fabbrica. E a proposito di vittime del lavoro, il primo maggio a Roma, Napolitano consegnerà le stelle al merito alla memoria dei cinque morti del mulino Cordero di Fossano, una strage dimenticata.
Prima dei familiari Thyssen, era stato il turno delle Rsu torinesi. Sono arrivati da Mirafiori, Iveco, New Holland, Pininfarina e Indesit. E ancora, dalla Bertone, che il 7 maggio conoscerà il suo destino (chiude l'asta d'acquisto) e dalla Grafica Canale di Borgaro Torinese, dove in 100 - finita la cassa ordinaria e straordinaria - rischiano il posto. Il presidente Napolitano ha voluto conoscere di persona le reali condizioni dei lavoratori che difficilmente emergono dai dati statistici. «Nel corso dell'incontro - ha spiegato Donata Canta, segretario della Camera del Lavoro di Torino - il presidente ha convenuto sull'opportunità di adottare misure che evitino i licenziamenti, ha accolto la nostra proposta di raddoppiare la cassa integrazione ordinaria e di pensare a misure per la crisi, ma anche a quelle non congiunturali che servono per la ripresa».
Da il manifesto del 24 aprile
TORINO - Martedì erano veramente arrabbiati dopo aver saputo che quella norma salva-manager avrebbe reso vano il loro processo. Si sentivano smarriti, abbandonati. L'incontro di ieri con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano li ha invece rinfrancati, ridato speranza. I familiari della vittime della Thyssen sono usciti dalla Prefettura con gli occhi lucidi. Commossi. «Lo Stato ci è vicino» hanno detto in coro. «Il presidente - hanno aggiunto - ha garantito che quell'articolo del Testo unico verrà riscritto». La stessa vicinanza l'hanno avvertita i delegati delle aziende in crisi, ricevuti anche loro dal capo dello Stato, che, prima di partire alla volta dell'Ossario partigiano di Coazze - ultima tappa della sua tre giorni torinese - ha commentato: «E' stato un incontro che ci ha dato il senso della gravità di molte situazioni e della serietà con cui i lavoratori e i loro rappresentanti affrontano la crisi».
I parenti degli operai morti alla Thyssen, almeno una decina, sono saliti al primo piano della Prefettura per parlare con il presidente. Laura Rodinò, sorella di Rosario, ha spiegato i contenuti dell'appello lanciato a Napolitano perché il Testo unico non venga modificato. Poi ha preso la parola Rosina Demasi, mamma di Giuseppe, che al termine ha sottolineato: «E' stato gentile e umano. Ci starà vicino come sempre». Anche Rosetta Marzo si è sentita rassicurata: «Un incontro toccante. Abbiamo detto che noi non chiediamo vendetta ma solo giustizia». Presente Antonio Boccuzzi, parlamentare Pd e sopravvissuto alla strage: «Le parole del presidente danno sostegno a quello che auspichiamo, ovvero la riscrittura, se non addirittura la cancellazione, dell'articolo 15 bis». Ciro Argentino, ex Rsu dell'acciaieria, ha consegnato al capo dello Stato la tessera onoraria dell'associazione Legami d'acciaio che riunisce gli ex lavoratori della fabbrica. E a proposito di vittime del lavoro, il primo maggio a Roma, Napolitano consegnerà le stelle al merito alla memoria dei cinque morti del mulino Cordero di Fossano, una strage dimenticata.
Prima dei familiari Thyssen, era stato il turno delle Rsu torinesi. Sono arrivati da Mirafiori, Iveco, New Holland, Pininfarina e Indesit. E ancora, dalla Bertone, che il 7 maggio conoscerà il suo destino (chiude l'asta d'acquisto) e dalla Grafica Canale di Borgaro Torinese, dove in 100 - finita la cassa ordinaria e straordinaria - rischiano il posto. Il presidente Napolitano ha voluto conoscere di persona le reali condizioni dei lavoratori che difficilmente emergono dai dati statistici. «Nel corso dell'incontro - ha spiegato Donata Canta, segretario della Camera del Lavoro di Torino - il presidente ha convenuto sull'opportunità di adottare misure che evitino i licenziamenti, ha accolto la nostra proposta di raddoppiare la cassa integrazione ordinaria e di pensare a misure per la crisi, ma anche a quelle non congiunturali che servono per la ripresa».
Da il manifesto del 24 aprile
giovedì 23 aprile 2009
Eternit, l'azienda prova a contestare la costituzione di molte parti civili
TORINO - Sono scesi dai pullman con un adesivo giallo e la scritta «Strage Eternit - Giustizia». Non vogliono saltare neanche un’udienza del «loro processo». Sono arrivati al Palagiustizia in 130, tutti da Casale Monferrato, la città simbolo di questa strage silenziosa. Dopo la registrazioni delle parti civili (736 individuali, 29 da parte di enti e associazioni), ieri è toccato alla difesa esprimersi sulla loro ammissibilità.
E a tenere banco non è stata tanto la richiesta di alcune esclusioni (non vogliono i sindacati territoriali e di categoria), ma una questione di legittimità costituzionale mossa dall’avvocato Astolfo Di Amato, legale di Schmidheiny, uno dei due imputati. Riguarda il senso delle costituzioni di parte civile nel processo penale ed è la prima volta che viene sollevata in un tribunale italiano. «L'articolo 111 della Costituzione - ha spiegato Di Amato - impone processi celeri. Se in un processo, dove si devono accertare le responsabilità penali, si deve pure vagliare l'esistenza di danni di natura civilistica lo si appesantisce, e se ne allungano i tempi. Lo dimostra questo caso: le prime quattro udienze sono dedicate solo alle parti civili. Il rallentamento è evidente». Tradotto volgarmente: ci fossero meno parti civili (o magari non ci fossero proprio?) il processo andrebbe meglio per tutti. Ecco perché Sergio Bonetto, avvocato di parte civile, alla fine dell’udienza ha commentato: «Andando avanti di questo passo proveranno a dire che è incostituzionale il processo penale». E il suo collega Roberto Lamacchia: «Se fosse così bisognerebbe riscrivere il codice di procedura penale».
Le difese hanno quindi chiesto l'esclusione dalle parti civili di tutti i sindacati, tranne Cgil nazionale e Cisl Piemonte che, secondo i legali, assorbirebbero al loro interno le varie sigle territoriali. Non concorda Bruno Pesce, coordinatore della Vertenza Amianto: «Per esempio, la Camera del lavoro di Reggio Emilia ha una sua specificità, è lei che rappresenta le vittime». E poi, la difesa non vorrebbe quasi tutte le associazioni, salvo quella dei familiari delle vittime. No, infine, a 106 ex lavoratori o parenti che nel '93, nell'ambito del processo ai vertici dell’Eternit casalese, avevano firmato una transazione. Questa mattina la palla passa ai pm e agli avvocati di parte civile.
Da il manifesto del 23 aprile
E a tenere banco non è stata tanto la richiesta di alcune esclusioni (non vogliono i sindacati territoriali e di categoria), ma una questione di legittimità costituzionale mossa dall’avvocato Astolfo Di Amato, legale di Schmidheiny, uno dei due imputati. Riguarda il senso delle costituzioni di parte civile nel processo penale ed è la prima volta che viene sollevata in un tribunale italiano. «L'articolo 111 della Costituzione - ha spiegato Di Amato - impone processi celeri. Se in un processo, dove si devono accertare le responsabilità penali, si deve pure vagliare l'esistenza di danni di natura civilistica lo si appesantisce, e se ne allungano i tempi. Lo dimostra questo caso: le prime quattro udienze sono dedicate solo alle parti civili. Il rallentamento è evidente». Tradotto volgarmente: ci fossero meno parti civili (o magari non ci fossero proprio?) il processo andrebbe meglio per tutti. Ecco perché Sergio Bonetto, avvocato di parte civile, alla fine dell’udienza ha commentato: «Andando avanti di questo passo proveranno a dire che è incostituzionale il processo penale». E il suo collega Roberto Lamacchia: «Se fosse così bisognerebbe riscrivere il codice di procedura penale».
Le difese hanno quindi chiesto l'esclusione dalle parti civili di tutti i sindacati, tranne Cgil nazionale e Cisl Piemonte che, secondo i legali, assorbirebbero al loro interno le varie sigle territoriali. Non concorda Bruno Pesce, coordinatore della Vertenza Amianto: «Per esempio, la Camera del lavoro di Reggio Emilia ha una sua specificità, è lei che rappresenta le vittime». E poi, la difesa non vorrebbe quasi tutte le associazioni, salvo quella dei familiari delle vittime. No, infine, a 106 ex lavoratori o parenti che nel '93, nell'ambito del processo ai vertici dell’Eternit casalese, avevano firmato una transazione. Questa mattina la palla passa ai pm e agli avvocati di parte civile.
Da il manifesto del 23 aprile
mercoledì 22 aprile 2009
Sacconi: sì a correzioni. Ma per ora resta ambiguo
Tensioni tra i parenti durante il processo Thyssen
TORINO - Non serve far troppe domande, lo leggi sui volti dei parenti come la pensano. Rabbia e amarezza, dopo l'ennesimo - questa volta più pesante - assalto del governo al Testo unico. L'aria è tesa in Corte d'Assise e non poteva che essere così. Quella norma salva-manager se entrasse in vigore renderebbe vano - perché retroattiva - un processo storico come quello Thyssen. Intanto, 600 chilometri più a sud, a Roma, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha provato a smarcarsi dalle accuse, si sente «infamato» dai sospetti della Fiom: «Con la bozza di decreto il processo Thyssen non c'entra nulla». E si dice «pronto a riscrivere» il discusso articolo 15 bis che deresponsabilizzerebbe i vertici aziendali in materia di sicurezza. Il Pd plaude alla disponibilità. Ma, a ben vedere, la posizione del ministro non si discosta molto dalla precedente: «Vogliamo circoscrivere - ha ribadito - l'ambito nel quale la responsabilità del datore di lavoro esiste anche in presenza di responsabilità di vari sottoposti, dal top manager all'ultimo lavoratore, e indicare i casi in cui c'è anche una mera omissione». Guglielmo Epifani, dal canto suo, suggerisce: se non vuole ascoltare la voce della Cgil, almeno senta il procuratore Raffaele Guariniello, che ancora ieri si è detto preoccupato per «l'ambiguità» della norma.
Tornando all'aula del Palagiustizia, il giorno dopo la tempesta non è stato certo quello della ritirata. «Il governo vuol difendere i padroni, ma noi non abbassiamo la testa», hanno detto i familiari delle vittime. Hanno preso carta e penna e hanno scritto alla più alta carica dello Stato, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che in serata è arrivato sotto la Mole per presentare la Biennale della democrazia. Hanno, inoltre, chiesto di incontrarlo in questi giorni di soggiorno torinese. E' toccato a Laura Rodinò, sorella di Rosario (morto nel rogo a soli 26 anni), parlare a nome di tutti i familiari: «Abbiamo lanciato un appello a Napolitano perché vigili e si adoperi per evitare questa scellerata proposta di modifica. Il tentativo è quello di vanificare gran parte del lavoro fatto dalla Procura di Torino per i processi Thyssen ed Eternit. Noi non ci stiamo, non vogliamo che la legge venga toccata». La lettera è volata a Roma con Antonio Boccuzzi, che il giorno della tragedia era sulla linea 5 e adesso è parlamentare Pd. A lui, il compito di consegnarla direttamente nelle mani del capo dello Stato. Il testo si conclude con una domanda rivolta a coloro che hanno il dovere di legiferare: «Se fossero stati i vostri figli a morire in quel modo che cosa avreste fatto?». Il presidente Napolitano ha subito comunicato «costante attenzione» ai familiari.
Per protesta contro il lodo, i parenti hanno sistemato sui banchi dell'aula un'immagine con le foto delle 7 vittime e la scritta «Non uccideteli una seconda volta». L'udienza ha vissuto i malumori della giornata. Dopo il controesame dei consulenti delle parti, è stato ascoltato un responsabile di manutenzione, Roberto Beltrami, secondo cui, in caso di incendio gli operai tendevano a non premere il pulsante di emergenza (quello che blocca l'intera linea). «C'era invece la brutta abitudine - ha aggiunto Beltrami - di fermare solo la sezione di entrata», cosa che, secondo la difesa, accadde proprio la sera del rogo. Il tecnico però ha anche spiegato che in merito non c'erano istruzioni precise da parte dell'azienda. Il processo riprenderà il 28 aprile e oggi, in una simbolica staffetta, toccherà all'udienza preliminare Eternit.
Ritornando alle parole di Sacconi, nel corso dell'audizione in commissione di d'inchiesta sulle morti bianche, il ministro ha risposto a muso duro alle accuse sollevate dalla Fiom: «È un modo infamante per criticare una tesi che può essere opinabile, ma non oggetto di accuse infondate. Che c'entra il processo Thyssen con questo? Lì, l'ipotesi è di omicidio volontario, quindi non lo tocca». Ha poi precisato: «La responsabilità penale non può essere meramente oggettiva, ma fondata su un nesso causale che può essere individuato, quando il datore non ha compiuto atti che invece doveva compiere». E sulla proposta di riscrittura sono intervenuti i senatori Pd Nerozzi e Roilo: «Bene, ma dovrà essere conforme con gli obblighi previsti dall'articolo 2087 del codice civile, secondo cui è dovere del datore garantire le norme di sicurezza dei lavoratori». Purtroppo spesso disatteso. Duro l'attacco dell'Italia dei Valori alla modifica della norma: «È come il lodo Alfano applicato al mondo del lavoro. E' incostituzionale - afferma la senatrice Giuliana Carlino - perché esclude la responsabilità dei top manager». Proprio il problema di incostituzionalità potrebbe essere sollevato dalla Conferenza Stato-Regioni attualmente in corso. Causa «eccesso di delega».
Processo Thyssen, quattordicesima udienza
Da il manifesto del 22 aprile
TORINO - Non serve far troppe domande, lo leggi sui volti dei parenti come la pensano. Rabbia e amarezza, dopo l'ennesimo - questa volta più pesante - assalto del governo al Testo unico. L'aria è tesa in Corte d'Assise e non poteva che essere così. Quella norma salva-manager se entrasse in vigore renderebbe vano - perché retroattiva - un processo storico come quello Thyssen. Intanto, 600 chilometri più a sud, a Roma, il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha provato a smarcarsi dalle accuse, si sente «infamato» dai sospetti della Fiom: «Con la bozza di decreto il processo Thyssen non c'entra nulla». E si dice «pronto a riscrivere» il discusso articolo 15 bis che deresponsabilizzerebbe i vertici aziendali in materia di sicurezza. Il Pd plaude alla disponibilità. Ma, a ben vedere, la posizione del ministro non si discosta molto dalla precedente: «Vogliamo circoscrivere - ha ribadito - l'ambito nel quale la responsabilità del datore di lavoro esiste anche in presenza di responsabilità di vari sottoposti, dal top manager all'ultimo lavoratore, e indicare i casi in cui c'è anche una mera omissione». Guglielmo Epifani, dal canto suo, suggerisce: se non vuole ascoltare la voce della Cgil, almeno senta il procuratore Raffaele Guariniello, che ancora ieri si è detto preoccupato per «l'ambiguità» della norma.
Tornando all'aula del Palagiustizia, il giorno dopo la tempesta non è stato certo quello della ritirata. «Il governo vuol difendere i padroni, ma noi non abbassiamo la testa», hanno detto i familiari delle vittime. Hanno preso carta e penna e hanno scritto alla più alta carica dello Stato, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che in serata è arrivato sotto la Mole per presentare la Biennale della democrazia. Hanno, inoltre, chiesto di incontrarlo in questi giorni di soggiorno torinese. E' toccato a Laura Rodinò, sorella di Rosario (morto nel rogo a soli 26 anni), parlare a nome di tutti i familiari: «Abbiamo lanciato un appello a Napolitano perché vigili e si adoperi per evitare questa scellerata proposta di modifica. Il tentativo è quello di vanificare gran parte del lavoro fatto dalla Procura di Torino per i processi Thyssen ed Eternit. Noi non ci stiamo, non vogliamo che la legge venga toccata». La lettera è volata a Roma con Antonio Boccuzzi, che il giorno della tragedia era sulla linea 5 e adesso è parlamentare Pd. A lui, il compito di consegnarla direttamente nelle mani del capo dello Stato. Il testo si conclude con una domanda rivolta a coloro che hanno il dovere di legiferare: «Se fossero stati i vostri figli a morire in quel modo che cosa avreste fatto?». Il presidente Napolitano ha subito comunicato «costante attenzione» ai familiari.
Per protesta contro il lodo, i parenti hanno sistemato sui banchi dell'aula un'immagine con le foto delle 7 vittime e la scritta «Non uccideteli una seconda volta». L'udienza ha vissuto i malumori della giornata. Dopo il controesame dei consulenti delle parti, è stato ascoltato un responsabile di manutenzione, Roberto Beltrami, secondo cui, in caso di incendio gli operai tendevano a non premere il pulsante di emergenza (quello che blocca l'intera linea). «C'era invece la brutta abitudine - ha aggiunto Beltrami - di fermare solo la sezione di entrata», cosa che, secondo la difesa, accadde proprio la sera del rogo. Il tecnico però ha anche spiegato che in merito non c'erano istruzioni precise da parte dell'azienda. Il processo riprenderà il 28 aprile e oggi, in una simbolica staffetta, toccherà all'udienza preliminare Eternit.
Ritornando alle parole di Sacconi, nel corso dell'audizione in commissione di d'inchiesta sulle morti bianche, il ministro ha risposto a muso duro alle accuse sollevate dalla Fiom: «È un modo infamante per criticare una tesi che può essere opinabile, ma non oggetto di accuse infondate. Che c'entra il processo Thyssen con questo? Lì, l'ipotesi è di omicidio volontario, quindi non lo tocca». Ha poi precisato: «La responsabilità penale non può essere meramente oggettiva, ma fondata su un nesso causale che può essere individuato, quando il datore non ha compiuto atti che invece doveva compiere». E sulla proposta di riscrittura sono intervenuti i senatori Pd Nerozzi e Roilo: «Bene, ma dovrà essere conforme con gli obblighi previsti dall'articolo 2087 del codice civile, secondo cui è dovere del datore garantire le norme di sicurezza dei lavoratori». Purtroppo spesso disatteso. Duro l'attacco dell'Italia dei Valori alla modifica della norma: «È come il lodo Alfano applicato al mondo del lavoro. E' incostituzionale - afferma la senatrice Giuliana Carlino - perché esclude la responsabilità dei top manager». Proprio il problema di incostituzionalità potrebbe essere sollevato dalla Conferenza Stato-Regioni attualmente in corso. Causa «eccesso di delega».
Processo Thyssen, quattordicesima udienza
Da il manifesto del 22 aprile
martedì 21 aprile 2009
Tristezza e rabbia a Torino tra i lavoratori e le parti lese della Thyssen
Norma salva-manager: «Sarebbe uno insulto a tutte le vittime di infortuni»
TORINO - Quel che più spaventa è che la norma «salva-manager» sarebbe retroattiva, mandando così in fumo le speranze di giustizia. Lo dicono gli ex operai della ThyssenKrupp e i parenti delle sette vittime del rogo del 6 dicembre 2007. A Torino, la notizia di modifica dell'articolo 15 bis del Testo unico rimbalza da Roma e raggela tutti. Finora il dibattimento in Corte d'Assise, che questa mattina giunge alla 14° udienza, era proseguito senza troppi intoppi. Certo, non si dormivano sonni tranquilli: Guariniello e i sindacati avevano già lanciato allarmi sul rischio che le basi del Testo fossero minate indelebilmente. Ma una bordata come questa non se l'aspettavano.
Quando lo raggiungiamo, Giovanni Pignalosa, ex operaio dello stabilimento di corso Regina Margherita, è in macchina; si dice allibito, incredulo: «Significa che la legalità fa paura. Il governo attacca la giustizia che funziona. E' uno sciacallaggio». Poi si chiede: «Ma com'è possibile? Dopo la Thyssen, e io quella sera c'ero, ci sono stati altri 1200 morti sul lavoro e quest'anno forse altrettanti. Ne vogliamo ancora di più?».
Se venisse meno la possibilità di accertare la responsabilità di chi sta in alto, cadrebbe l'impianto accusatorio formulato dal pool di Guariniello, che invece dei soliti capetti è riuscito a portare in Tribunale i vertici delle aziende, sia per l'Eternit sia per la Thyssen. Proprio per quest'ultima, per la prima volta, è stato preso in considerazione il reato di omicidio volontario per una morte sul lavoro. Carmelo De Masi era il padre di Giuseppe, 26 anni, l'ultimo a morire dopo 24 giorni di agonia: «Così paga solo il pesce più piccolo, ma la responsabilità è in alto. Queste notizie ci indignano profondamente».
Ora, Antonio Boccuzzi è parlamentare per il Pd, ma quel giorno era sulla linea 5 ed è l'unico sopravvissuto al rogo: «La riformulazione del Testo unico è gravissima, innesca una deresponsabilizzazione a catena che andrebbe a inficiare l'esito del processo Thyssen, come di tanti altri in corso. Il parto del Testo fu difficile già ai tempi di Prodi, ora Berlusconi ne demolisce gli spunti positivi. Giusto premiare le aziende virtuose, ma allo stesso tempo bisogna punire chi non rispetta le norme di sicurezza».
Ciro Argentino, anche lui ex operaio Thyssen, è appena tornato da Taranto, dalla manifestazione davanti all'Ilva contro le morti sul lavoro: «Un paese civile non può farsi garante di responsabili di omicidio. Queste morti, d'ora in poi, le chiameremo assassinii di stato. Respingo con sdegno l'attentato ai diritti e alla libertà dei lavoratori. Se così sarà, è probabile che i manager Thyssen, i veri responsabili della tragedia, rimarranno impuniti. Al massimo, la colpa ricadrà su quelli più in basso». Argentino si riferisce a Salerno, direttore dello stabilimento, e a Cafueri, responsabile manutenzione. L'amministratore delegato Espenhahn e gli altri tre dirigenti (Prigneitz, Pucci, e Moroni) sarebbero salvi. Intanto, Legami d'acciaio - l'associazione degli ex lavoratori Thyssen - chiama alla mobilitazione. Forse già questa mattina ci sarà un presidio per contrastare le proposte del governo.
La preoccupazione sale. «Bisogna impedire che il processo finisca in un nulla di fatto», dice il segretario Fiom, Giorgio Airaudo. «La legge deve accertare se vi è un responsabile, soprattutto quando sul lavoro si viene esposti a gravi rischi». E sulla retroattività? «E' molto sospetta - conclude Airaudo - visto il valore simbolico del processo Thyssen. Non si può fare questo torto a tutte le vittime del lavoro».
Da il manifesto del 21 aprile
Sullo stesso numero due pagine su Il delitto perfetto
TORINO - Quel che più spaventa è che la norma «salva-manager» sarebbe retroattiva, mandando così in fumo le speranze di giustizia. Lo dicono gli ex operai della ThyssenKrupp e i parenti delle sette vittime del rogo del 6 dicembre 2007. A Torino, la notizia di modifica dell'articolo 15 bis del Testo unico rimbalza da Roma e raggela tutti. Finora il dibattimento in Corte d'Assise, che questa mattina giunge alla 14° udienza, era proseguito senza troppi intoppi. Certo, non si dormivano sonni tranquilli: Guariniello e i sindacati avevano già lanciato allarmi sul rischio che le basi del Testo fossero minate indelebilmente. Ma una bordata come questa non se l'aspettavano.
Quando lo raggiungiamo, Giovanni Pignalosa, ex operaio dello stabilimento di corso Regina Margherita, è in macchina; si dice allibito, incredulo: «Significa che la legalità fa paura. Il governo attacca la giustizia che funziona. E' uno sciacallaggio». Poi si chiede: «Ma com'è possibile? Dopo la Thyssen, e io quella sera c'ero, ci sono stati altri 1200 morti sul lavoro e quest'anno forse altrettanti. Ne vogliamo ancora di più?».
Se venisse meno la possibilità di accertare la responsabilità di chi sta in alto, cadrebbe l'impianto accusatorio formulato dal pool di Guariniello, che invece dei soliti capetti è riuscito a portare in Tribunale i vertici delle aziende, sia per l'Eternit sia per la Thyssen. Proprio per quest'ultima, per la prima volta, è stato preso in considerazione il reato di omicidio volontario per una morte sul lavoro. Carmelo De Masi era il padre di Giuseppe, 26 anni, l'ultimo a morire dopo 24 giorni di agonia: «Così paga solo il pesce più piccolo, ma la responsabilità è in alto. Queste notizie ci indignano profondamente».
Ora, Antonio Boccuzzi è parlamentare per il Pd, ma quel giorno era sulla linea 5 ed è l'unico sopravvissuto al rogo: «La riformulazione del Testo unico è gravissima, innesca una deresponsabilizzazione a catena che andrebbe a inficiare l'esito del processo Thyssen, come di tanti altri in corso. Il parto del Testo fu difficile già ai tempi di Prodi, ora Berlusconi ne demolisce gli spunti positivi. Giusto premiare le aziende virtuose, ma allo stesso tempo bisogna punire chi non rispetta le norme di sicurezza».
Ciro Argentino, anche lui ex operaio Thyssen, è appena tornato da Taranto, dalla manifestazione davanti all'Ilva contro le morti sul lavoro: «Un paese civile non può farsi garante di responsabili di omicidio. Queste morti, d'ora in poi, le chiameremo assassinii di stato. Respingo con sdegno l'attentato ai diritti e alla libertà dei lavoratori. Se così sarà, è probabile che i manager Thyssen, i veri responsabili della tragedia, rimarranno impuniti. Al massimo, la colpa ricadrà su quelli più in basso». Argentino si riferisce a Salerno, direttore dello stabilimento, e a Cafueri, responsabile manutenzione. L'amministratore delegato Espenhahn e gli altri tre dirigenti (Prigneitz, Pucci, e Moroni) sarebbero salvi. Intanto, Legami d'acciaio - l'associazione degli ex lavoratori Thyssen - chiama alla mobilitazione. Forse già questa mattina ci sarà un presidio per contrastare le proposte del governo.
La preoccupazione sale. «Bisogna impedire che il processo finisca in un nulla di fatto», dice il segretario Fiom, Giorgio Airaudo. «La legge deve accertare se vi è un responsabile, soprattutto quando sul lavoro si viene esposti a gravi rischi». E sulla retroattività? «E' molto sospetta - conclude Airaudo - visto il valore simbolico del processo Thyssen. Non si può fare questo torto a tutte le vittime del lavoro».
Da il manifesto del 21 aprile
Sullo stesso numero due pagine su Il delitto perfetto
giovedì 9 aprile 2009
Eternit, offerto il risarcimento solo per i casi più gravi
La proposta di transazione di uno dei due imputati esclude un gran numero di parti offese
TORINO - Anche a voler sembrare «filantropi» non ci si riesce se, alla lunga, si pensa esclusivamente alle proprie tasche. E così, si può venire a scoprire che l'offerta di Stephan Schmidheiny, uno dei due imputati al processo Eternit, rivolta alle vittime casalesi dell'amianto, non riguarda tutti gli ammalati. Per esempio se ti sei preso una broncopneumopatia da silicati, il magnate svizzero non si sente in dovere di un indennizzo. «Ma come? A Casale, quando uno si ammala, dice, in dialetto, di avere 'preso la polvere', senza distinguere tra asbestosi e il resto» commenta con stupore Nicola Pondrano, segretario locale Cgil, che solo lunedì ha scoperto questa «clausola» esaminando la pratica risarcitoria di un ex lavoratore. L'offerta è invece prevista per chi ha contratto un mesotelioma o ha un'invalidità derivante da asbestosi non inferiore al 30%.
Non c'è da stupirsi. In fondo si sapeva che era una proposta unilaterale: prendere o lasciare e, se prendi, rinunci a costituirti parte civile e a qualsiasi rivendicazione futura. Come si sa, a differenza del barone belga De Cartier (l'altro imputato) che non si è mai fatto vivo, lo svizzero ha fatto due offerte di transazione: una agli ex-lavoratori (al massimo 60 mila euro) e una ai cittadini (30 mila). Ciò che, però, indigna maggiormente Bruno Pesce, coordinatore della Vertenza amianto, è altro: «In Italia, per questioni di questo tipo, vale sempre la regola del 'salvo buon fine' come per gli assegni. Ma qui non è prevista se non verbalmente e, quindi, ex lavoratori e cittadini si troverebbero a firmare una sorta di cambiale in bianco, senza essere certi del risarcimento». Se mancasse un documento, il rischio ci sarebbe.
Ieri, al Palagiustizia di Torino è continuata l'udienza preliminare con l'appello per le richieste di costituzione di parte civile. Questa volta sono state più di 150. E finora, sono 736 le «persone fisiche» che hanno chiesto di costituirsi: 290 si sono presentate al Tribunale, le altre hanno firmato una delega agli avvocati. Vanno poi aggiunti 29 enti (territoriali e non) da tutta Italia. Sindacati, associazioni e istituzioni, come il comune di Cavagnolo (2400 abitanti, in provincia di Torino) che ha già calcolato il suo risarcimento, un milione di euro.
A Cavagnolo, come a Casale, tutti si ricordano il camion scoperto che trasportava l'amianto frantumato per la città: «Hanno sparso la polvere ovunque» ricorda Pesce che, riferendosi al processo, parla di una «grande operazione verità che serva a tutto il mondo: noi speriamo in una sentenza-monito per far sapere alle persone dei paesi più deboli che di amianto si muore». Difficile da credere, ma ci sono paesi civilissimi come il Canada che oggi continuano a estrarre amianto e a esportarlo in casa d'altri, in India o in Cina (i maggiori importatori).
Da il manifesto del 9 aprile
TORINO - Anche a voler sembrare «filantropi» non ci si riesce se, alla lunga, si pensa esclusivamente alle proprie tasche. E così, si può venire a scoprire che l'offerta di Stephan Schmidheiny, uno dei due imputati al processo Eternit, rivolta alle vittime casalesi dell'amianto, non riguarda tutti gli ammalati. Per esempio se ti sei preso una broncopneumopatia da silicati, il magnate svizzero non si sente in dovere di un indennizzo. «Ma come? A Casale, quando uno si ammala, dice, in dialetto, di avere 'preso la polvere', senza distinguere tra asbestosi e il resto» commenta con stupore Nicola Pondrano, segretario locale Cgil, che solo lunedì ha scoperto questa «clausola» esaminando la pratica risarcitoria di un ex lavoratore. L'offerta è invece prevista per chi ha contratto un mesotelioma o ha un'invalidità derivante da asbestosi non inferiore al 30%.
Non c'è da stupirsi. In fondo si sapeva che era una proposta unilaterale: prendere o lasciare e, se prendi, rinunci a costituirti parte civile e a qualsiasi rivendicazione futura. Come si sa, a differenza del barone belga De Cartier (l'altro imputato) che non si è mai fatto vivo, lo svizzero ha fatto due offerte di transazione: una agli ex-lavoratori (al massimo 60 mila euro) e una ai cittadini (30 mila). Ciò che, però, indigna maggiormente Bruno Pesce, coordinatore della Vertenza amianto, è altro: «In Italia, per questioni di questo tipo, vale sempre la regola del 'salvo buon fine' come per gli assegni. Ma qui non è prevista se non verbalmente e, quindi, ex lavoratori e cittadini si troverebbero a firmare una sorta di cambiale in bianco, senza essere certi del risarcimento». Se mancasse un documento, il rischio ci sarebbe.
Ieri, al Palagiustizia di Torino è continuata l'udienza preliminare con l'appello per le richieste di costituzione di parte civile. Questa volta sono state più di 150. E finora, sono 736 le «persone fisiche» che hanno chiesto di costituirsi: 290 si sono presentate al Tribunale, le altre hanno firmato una delega agli avvocati. Vanno poi aggiunti 29 enti (territoriali e non) da tutta Italia. Sindacati, associazioni e istituzioni, come il comune di Cavagnolo (2400 abitanti, in provincia di Torino) che ha già calcolato il suo risarcimento, un milione di euro.
A Cavagnolo, come a Casale, tutti si ricordano il camion scoperto che trasportava l'amianto frantumato per la città: «Hanno sparso la polvere ovunque» ricorda Pesce che, riferendosi al processo, parla di una «grande operazione verità che serva a tutto il mondo: noi speriamo in una sentenza-monito per far sapere alle persone dei paesi più deboli che di amianto si muore». Difficile da credere, ma ci sono paesi civilissimi come il Canada che oggi continuano a estrarre amianto e a esportarlo in casa d'altri, in India o in Cina (i maggiori importatori).
Da il manifesto del 9 aprile
mercoledì 8 aprile 2009
L'azienda attacca: «Errore degli operai»
TORINO - «La linea 5 non avrebbe mai dovuto essere in funzione viste le condizioni di sicurezza in cui si trovava», ha affermato Massimo Zucchetti, consulente di parte civile. «Nient'affatto: l'impianto installato nel 1990 non era obsoleto, lo testimoniava la volontà della Thyssen di smontarlo dopo la chiusura per portarlo a Terni», ha ribattuto Berardino Queto, consulente della difesa. In Corte d'Assise ieri è andato in scena un duello tra i tecnici, che in fondo delinea la strategia finora adottata dalle parti nel definire le responsabilità: incuranza degli operai o comunque errore umano per i legali degli imputati, e gravi omissioni nella tutela della sicurezza e abbandono della manutenzione da parte dell'azienda secondo la pubblica accusa.
Prima è toccato ai consulenti della difesa con una lunga disamina sul funzionamento della linea che ha suscitato il malumore dei parenti delle vittime: «Fanno vedere come avrebbe dovuto funzionare - hanno detto fuori dall'aula - ma non le condizioni in cui i nostri ragazzi erano costretti a lavorare». Per Vittorio Betta, uno dei consulenti Thyssen, sarebbe bastato schiacciare un pulsante anziché un altro e l'incendio non avrebbe causato la morte degli operai. Ha spiegato che uno di questi, quando si accorse del primo focolaio, premette il pulsante d'arresto della sezione di ingresso: «Ma se avesse schiacciato quello della fermata di emergenza non sarebbe accaduto più nulla, si sarebbe bloccato il flusso dell'olio idraulico e il grande calore non avrebbe determinato l'esplosione della pompa». A causare il focolaio - secondo l'esperto - furono le scintille generate da una non perfetta imboccatura della lamiera all'inizio della linea di scorrimento. Un errore umano dunque. E poi ha aggiunto: «Si è parlato di pressione psicologica sui dipendenti, quasi di sanzioni, ma non risulta ci siano state».
Sull'ultima ricostruzione le parti civili nutrono diversi dubbi. Zucchetti ha osservato che «i consulenti della difesa sostengono che premere il pulsante di emergenza avrebbe evitato la tragedia ma la realtà è che le condizioni della linea erano tali che chiunque fosse entrato nello stabilimento nei giorni precedenti l'incendio avrebbe dovuto premere quel pulsante». L'anormalità era diventata la normalità: carta, olio per terra, guasti continui. «La difesa - ha concluso - ha presentato una situazione ben lontana dall'effettivo funzionamento della linea. Era un impianto che necessitava di 60 mila litri d'olio all'anno per arginare le perdite quindi non si può non definirlo obsoleto e il fatto che si pensasse di trasferirlo non dimostra che non lo era, ma solo l'intenzione di continuare ad usarlo».
Processo Thyssen, tredicesima udienza
Da il manifesto dell'8 aprile
Prima è toccato ai consulenti della difesa con una lunga disamina sul funzionamento della linea che ha suscitato il malumore dei parenti delle vittime: «Fanno vedere come avrebbe dovuto funzionare - hanno detto fuori dall'aula - ma non le condizioni in cui i nostri ragazzi erano costretti a lavorare». Per Vittorio Betta, uno dei consulenti Thyssen, sarebbe bastato schiacciare un pulsante anziché un altro e l'incendio non avrebbe causato la morte degli operai. Ha spiegato che uno di questi, quando si accorse del primo focolaio, premette il pulsante d'arresto della sezione di ingresso: «Ma se avesse schiacciato quello della fermata di emergenza non sarebbe accaduto più nulla, si sarebbe bloccato il flusso dell'olio idraulico e il grande calore non avrebbe determinato l'esplosione della pompa». A causare il focolaio - secondo l'esperto - furono le scintille generate da una non perfetta imboccatura della lamiera all'inizio della linea di scorrimento. Un errore umano dunque. E poi ha aggiunto: «Si è parlato di pressione psicologica sui dipendenti, quasi di sanzioni, ma non risulta ci siano state».
Sull'ultima ricostruzione le parti civili nutrono diversi dubbi. Zucchetti ha osservato che «i consulenti della difesa sostengono che premere il pulsante di emergenza avrebbe evitato la tragedia ma la realtà è che le condizioni della linea erano tali che chiunque fosse entrato nello stabilimento nei giorni precedenti l'incendio avrebbe dovuto premere quel pulsante». L'anormalità era diventata la normalità: carta, olio per terra, guasti continui. «La difesa - ha concluso - ha presentato una situazione ben lontana dall'effettivo funzionamento della linea. Era un impianto che necessitava di 60 mila litri d'olio all'anno per arginare le perdite quindi non si può non definirlo obsoleto e il fatto che si pensasse di trasferirlo non dimostra che non lo era, ma solo l'intenzione di continuare ad usarlo».
Processo Thyssen, tredicesima udienza
Da il manifesto dell'8 aprile
martedì 7 aprile 2009
Eternit, via al processo storico
Prima udienza a Torino: lavoratori e familiari da tutta Europa. Quasi tremila le parti offese. L'Inail chiede risarcimento di 250 milioni
TORINO - «Finalmente giustizia». Nicola Pondrano, segretario della Camera del Lavoro di Casale Monferrato, dice due parole secche, ma forti, per sintetizzare il significato di una giornata storica, l'inizio del processo Eternit. La sua è una storia che arriva da lontano, dal 1974, quando per la prima volta entrò come operaio nello stabilimento di via Oggero. Non sapeva ancora di aver varcato la porta della fabbrica della morte. Anche se le avvisaglie c'erano tutte. Ma non ci mise molto a capire che qualcosa non andava. E da lì a poco, partì la lotta che con Bruno Pesce lo ha visto protagonista fino a oggi. Fino all'udienza preliminare per la strage silenziosa dell'amianto, quella fibra carogna che si infilava ovunque, magari nella tuta del papà che tornava a casa dal lavoro. Ecco perché i bambini degli anni Sessanta, senza aver mai messo piede nello stabilimento, sono i nuovi malati di mesotelioma. A Casale, la città più colpita, ne vengono diagnosticati 40 all'anno. E 1500 morti su una popolazione di 35 mila abitanti sono una cifra che spaventa.
Ieri, al Palagiustizia di Torino, il giorno tanto atteso per chi si è battuto in tutti questi anni: la prima seduta davanti al gup Cristina Palmesino. Per assistervi, da Casale sono arrivati 8 pullman, ma gente è venuta anche da Bagnoli, Cavagnolo e Reggio Emilia. Dalla Francia 200 persone e delegazioni pure da Belgio, Svizzera e Olanda. Basta questo per spiegare come il processo abbia già assunto una dimensione europea. I numeri sono maxi: 2889 le parti offese che potrebbero salire a 5700, in rappresentanza degli oltre duemila morti (dal 1952 in avanti). «E' un'impresa processualmente titanica», ha spiegato qualche giorno fa Raffaelle Guariniello che ha coordinato l'inchiesta contenuta in 200 mila pagine. La sfida è anche contro il tempo, contro il rischio prescrizione. Poco prima dell'inizio, il pm si è augurato che il processo sia giusto per tutti, per le vittime e per gli imputati: gli ex vertici della Eternit, lo svizzero Stephan Schmidheiny, 61 anni, e il barone belga Jean Louis De Cartier, 88 anni. Per entrambi, la procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio per disastro doloso e omissioni di cautele antinfortunistiche. «L'Inail - ha aggiunto inoltre Guariniello - ha calcolato 246 milioni di euro di spesa sostenuta per indennizzare le vittime dell'Eternit». Per questo motivo, l'Istituto ha deciso di costituirsi parte civile per esercitare un diritto di rivalsa nei confronti della multinazionale.
Fuori dal Tribunale, striscioni e centinaia di persone. Un grande presidio, promosso dai sindacati e dalle varie associazioni impegnate nella lotta, che è stato battezzato Giornata europea per la giustizia delle vittime dell'amianto. «È l'inizio di un'altra grande battaglia. In questi anni ne abbiamo fatte tante anche sotto il profilo giuridico ma questa è senz'altro la più importante», ha commentato Bruno Pesce, coordinatore della Vertenza amianto. Accanto a lui, Romana Blasotti Pavesi, 80 anni, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime, che ha perso il marito, la sorella, un nipote, un cugino e, infine, la figlia. Ma non si è mai data per vinta e ha continuato a chiedere giustizia. Al sit-in, c'era anche l'Andeva, l'associazione vittime amianto della Francia, presieduta da Alain Guerif. E poi, Renè Knepper, per 40 anni operaio Eternit, che in Borgogna ha vinto nel 1997 la prima causa civile d'amianto e guarda al processo di Torino come a un esempio, da seguire. Dietro alle bandiere della Cgil, ecco Enrico e Vincenzo da Bagnoli, che raccontano la loro dura vita in fabbrica, quando dei rischi per la salute non si parlava nemmeno. Si troveranno tutti a Parigi il 29 aprile per redigere una «carta europea dei diritti»». Hanno, infatti, costituito una multinazionale delle vittime, in contrapposizione a quella della «cupola» dell'amianto. Intanto, ieri l'Ispesl (Istituto superiore prevenzione e sicurezza sul lavoro) ha comunicato come i tumori da amianto (mesoteliomi) colpiscono 1.350 italiani ogni anno, con un'incidenza pari a circa 3,5 casi ogni 100 mila abitanti negli uomini e a un caso per 100 mila nelle donne.
La prima udienza si è conclusa con la presentazione delle domande di costituzione di parte civile da parte di numerosi enti pubblici, associazioni e di 500 persone. E' solo una prima parte, si continuerà mercoledì. Fra gli enti che hanno chiesto di costituirsi parte civile ci sono le tre Regioni interessate, Piemonte, Emilia Romagna e Campania, le Provincie di Torino e Alessandria, i Comuni piemontesi di Casale e Cavagnolo e il comune emiliano di Rubiera. Inoltre, Cgil e Cisl, Legambiente, Codacons, Medicina democratica, l'associazione famigliari vittime amianto di Casale e l'Associazione italiana esposti amianto. «Si tratta di un processo storico - ha affermato la presidente della Regione Piemonte Mercedes Bresso - in considerazione della grande quantità di danni che abbiamo subito. Non tanto per le produzioni industriali ma per il fatto di non avere detto che queste costituivano un grave danno per la salute. Tutto ciò ha creato danni immensi alla salute delle persone e al territorio e costi enormi di bonifica». Vittorio Agnoletto, europarlamentare Prc, e il consigliere regionale Alberto Deambrogio hanno, infine, denunciato l'assenza di rappresentanti del governo. Sulla stessa lunghezza d'onda Felice Casson del Pd che ha accusato l'esecutivo di versare lacrime di coccodrillo per i morti d'amianto ma poi, nel concreto, bloccare qualsiasi iniziativa per ridare dignità alle vittime.
Da il manifesto del 7 aprile
Sullo stesso numero La procura rimpolpa le accuse. Lo svizzero schiera 23 difensori di Manuela Cartosio
TORINO - «Finalmente giustizia». Nicola Pondrano, segretario della Camera del Lavoro di Casale Monferrato, dice due parole secche, ma forti, per sintetizzare il significato di una giornata storica, l'inizio del processo Eternit. La sua è una storia che arriva da lontano, dal 1974, quando per la prima volta entrò come operaio nello stabilimento di via Oggero. Non sapeva ancora di aver varcato la porta della fabbrica della morte. Anche se le avvisaglie c'erano tutte. Ma non ci mise molto a capire che qualcosa non andava. E da lì a poco, partì la lotta che con Bruno Pesce lo ha visto protagonista fino a oggi. Fino all'udienza preliminare per la strage silenziosa dell'amianto, quella fibra carogna che si infilava ovunque, magari nella tuta del papà che tornava a casa dal lavoro. Ecco perché i bambini degli anni Sessanta, senza aver mai messo piede nello stabilimento, sono i nuovi malati di mesotelioma. A Casale, la città più colpita, ne vengono diagnosticati 40 all'anno. E 1500 morti su una popolazione di 35 mila abitanti sono una cifra che spaventa.
Ieri, al Palagiustizia di Torino, il giorno tanto atteso per chi si è battuto in tutti questi anni: la prima seduta davanti al gup Cristina Palmesino. Per assistervi, da Casale sono arrivati 8 pullman, ma gente è venuta anche da Bagnoli, Cavagnolo e Reggio Emilia. Dalla Francia 200 persone e delegazioni pure da Belgio, Svizzera e Olanda. Basta questo per spiegare come il processo abbia già assunto una dimensione europea. I numeri sono maxi: 2889 le parti offese che potrebbero salire a 5700, in rappresentanza degli oltre duemila morti (dal 1952 in avanti). «E' un'impresa processualmente titanica», ha spiegato qualche giorno fa Raffaelle Guariniello che ha coordinato l'inchiesta contenuta in 200 mila pagine. La sfida è anche contro il tempo, contro il rischio prescrizione. Poco prima dell'inizio, il pm si è augurato che il processo sia giusto per tutti, per le vittime e per gli imputati: gli ex vertici della Eternit, lo svizzero Stephan Schmidheiny, 61 anni, e il barone belga Jean Louis De Cartier, 88 anni. Per entrambi, la procura di Torino ha chiesto il rinvio a giudizio per disastro doloso e omissioni di cautele antinfortunistiche. «L'Inail - ha aggiunto inoltre Guariniello - ha calcolato 246 milioni di euro di spesa sostenuta per indennizzare le vittime dell'Eternit». Per questo motivo, l'Istituto ha deciso di costituirsi parte civile per esercitare un diritto di rivalsa nei confronti della multinazionale.
Fuori dal Tribunale, striscioni e centinaia di persone. Un grande presidio, promosso dai sindacati e dalle varie associazioni impegnate nella lotta, che è stato battezzato Giornata europea per la giustizia delle vittime dell'amianto. «È l'inizio di un'altra grande battaglia. In questi anni ne abbiamo fatte tante anche sotto il profilo giuridico ma questa è senz'altro la più importante», ha commentato Bruno Pesce, coordinatore della Vertenza amianto. Accanto a lui, Romana Blasotti Pavesi, 80 anni, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime, che ha perso il marito, la sorella, un nipote, un cugino e, infine, la figlia. Ma non si è mai data per vinta e ha continuato a chiedere giustizia. Al sit-in, c'era anche l'Andeva, l'associazione vittime amianto della Francia, presieduta da Alain Guerif. E poi, Renè Knepper, per 40 anni operaio Eternit, che in Borgogna ha vinto nel 1997 la prima causa civile d'amianto e guarda al processo di Torino come a un esempio, da seguire. Dietro alle bandiere della Cgil, ecco Enrico e Vincenzo da Bagnoli, che raccontano la loro dura vita in fabbrica, quando dei rischi per la salute non si parlava nemmeno. Si troveranno tutti a Parigi il 29 aprile per redigere una «carta europea dei diritti»». Hanno, infatti, costituito una multinazionale delle vittime, in contrapposizione a quella della «cupola» dell'amianto. Intanto, ieri l'Ispesl (Istituto superiore prevenzione e sicurezza sul lavoro) ha comunicato come i tumori da amianto (mesoteliomi) colpiscono 1.350 italiani ogni anno, con un'incidenza pari a circa 3,5 casi ogni 100 mila abitanti negli uomini e a un caso per 100 mila nelle donne.
La prima udienza si è conclusa con la presentazione delle domande di costituzione di parte civile da parte di numerosi enti pubblici, associazioni e di 500 persone. E' solo una prima parte, si continuerà mercoledì. Fra gli enti che hanno chiesto di costituirsi parte civile ci sono le tre Regioni interessate, Piemonte, Emilia Romagna e Campania, le Provincie di Torino e Alessandria, i Comuni piemontesi di Casale e Cavagnolo e il comune emiliano di Rubiera. Inoltre, Cgil e Cisl, Legambiente, Codacons, Medicina democratica, l'associazione famigliari vittime amianto di Casale e l'Associazione italiana esposti amianto. «Si tratta di un processo storico - ha affermato la presidente della Regione Piemonte Mercedes Bresso - in considerazione della grande quantità di danni che abbiamo subito. Non tanto per le produzioni industriali ma per il fatto di non avere detto che queste costituivano un grave danno per la salute. Tutto ciò ha creato danni immensi alla salute delle persone e al territorio e costi enormi di bonifica». Vittorio Agnoletto, europarlamentare Prc, e il consigliere regionale Alberto Deambrogio hanno, infine, denunciato l'assenza di rappresentanti del governo. Sulla stessa lunghezza d'onda Felice Casson del Pd che ha accusato l'esecutivo di versare lacrime di coccodrillo per i morti d'amianto ma poi, nel concreto, bloccare qualsiasi iniziativa per ridare dignità alle vittime.
Da il manifesto del 7 aprile
Sullo stesso numero La procura rimpolpa le accuse. Lo svizzero schiera 23 difensori di Manuela Cartosio
sabato 4 aprile 2009
Tanto tocca sempre a Trino
Se scorie, un vecchio inceneritore e due centrali termoelettriche non bastano
TRINO - Magari qualcuno lo trovi che ti dice che può essere conveniente. «Un bel business». Ma per lo più alla gente di Trino Vercellese sembra di essere sottoposta a un esperimento sociologico. «Vogliono vedere quanto resistiamo!». A cosa? «Di alluvioni ne abbiamo avute già due, di crisi non ne parliamo, e ora vogliono piazzarci una seconda centrale nucleare». Non è sindrome nimby (Not in my backyard, insomma: non nel mio cortile), anche se a Roma piace vederla così. Qui dicono di avere già dato. E pure tanto. L’eredità di quel passato, che il governo vorrebbe far tornare, pesa ancora sulle spalle di questa terra dove la risaia diventa prima fiume e poi, superata la riva, collina. È custodita a Saluggia e a Trino in quei depositi, costruiti provvisoriamente (ma ormai non troppo) quasi sul greto di Po e Dora Baltea, che accolgono l’85 per cento delle scorie del nostro paese. Nel 2000, quando l’impianto Eurex fu allagato, si sfiorò, parole di Carlo Rubbia, «una catastrofe planetaria». Ogni ingrossamento del fiume, un allarme.
Così, dopo l’accordo Sarkozy-Berlusconi, la sonnacchiosa politica vercellese si è risvegliata unita, da destra a sinistra, contro «quel ferrovecchio francese». Poi la logica “dei se e dei ma” ha prevalso nella parte di governo: un monocolore di centrodestra ormai indistinto dal capoluogo provinciale a Trino, cittadina di ottomila anime, un tempo tra le più rosse. Anche quando ci fu da votare, nel 1987, per il referendum e il Pci locale era favorevole all’atomo. Pare passata un’eternità. Roberto Rosso era già un giovane rampante democristiano, ancora consigliere comunale ma pronto a spiccare il volo verso Montecitorio, con un perfetto sorriso berlusconiano e un astio esibito nei confronti della sinistra. «Colpa loro, sempre loro», ci tiene a ribadire sul fatto che non si sia fatto il deposito nazionale scorie a Scanzano Jonico, in Basilicata. Se adesso esistesse, non avrebbe remore ad accettare una nuova centrale nella sua Trino che gli ha regalato cifre bulgare (il 40 per cento alle ultime politiche). Invece, le cose non stanno così. E gli tocca andare contro il suo governo: «Intanto risolviamo il problema delle scorie, poi semmai ne parliamo». Lui, che è stato responsabile Energia di Forza Italia, non rileva però differenze di vedute con Berlusconi: «Rimango profondamente nuclearista, confido che si trovi presto il deposito nazionale e non vedrei nemmeno male Leri Cavour come luogo idoneo». Ecco, se lo sentissero gli ambientalisti ci sarebbe più che un moto di rivolta, ma anche se solo lo ascoltasse il presidente della Provincia di Vercelli Renzo Masoero (An, ora Pdl), che il giorno del patto italo-francese aveva lanciato su facebook la provocazione di costruire una centrale in Brianza, anziché dalle sue parti. Dopo ha corretto il tiro: «Se proprio non possiamo farci niente, almeno ci diano in cambio cinquemila posti di lavoro». Risposta considerata illusoria dal trinese Alessandro Portinaro, 30 anni, candidato sindaco del Pd: «Con il nucleare l’economia rimarrà ferma per vent’anni». Portinaro, alle amministrative, potrebbe vedersela proprio con Rosso, che, dopo aver perso a Torino contro Chiamparino, torna alla carica nel suo piccolo feudo.
Se percorri la strada delle Grange (le antiche cascine medievali), a un certo punto, in piena campagna, spuntano due torri che ti fanno sentire quasi nella Springfield dei Simpson. Sono quelle della centrale a ciclo combinato Galileo Ferraris di Leri Cavour (frazione di Trino) ed è il sito a cui tutti alludono, seppur nessuno lo citi direttamente, come al nuovo impianto atomico. Per la verità le istituzioni, spinte da Legambiente e Cgil, volevano farne un polo di ricerca sulle energie alternative. Ma gli ettari inutilizzati sono stati ceduti a privati. Quindi, ipotesi fallita. A pochi chilometri da qui c’è la zona che Rosso vorrebbe lanciare turisticamente: l’abbazia di Lucedio, il centro della sua società Terre d’Acqua, probabile destinataria di parte (un milione e 300mila euro) dei fondi compensativi detti “Scanzano” destinati al Comune di Trino.
È facile dire da fuori che quelli della piana vercellese sono “i soliti che non vogliono niente nel proprio giardino”. Il problema, rispondono loro, è che già hanno troppo: le scorie, un vecchio inceneritore a Vercelli, due impianti termoelettrici sulle Grange e la piaga dell’Eternit a due passi da casa (Casale Monferrato e Cavagnolo). Eppure già si prova a far leva sul nimbysmo, magari di sinistra, di questa comunità. Una ricetta mai invecchiata. Del resto, tutto è comunicazione: «Come una crisi economica risolta col nucleare», sottolinea il candidato sindaco Portinaro. Gian Piero Godio, di Legambiente, che dalle barricate no-nuke non è mai sceso, spera che l’accordo italo-francese sia un bluff. E parla del piano energetico regionale «come tutela». È stato approvato ai tempi del governo Ghigo (che sull’argomento oggi ha cambiato idea): «C’è scritto che il Piemonte dice no al nucleare. In tema energetico la Costituzione precisa che Regione e Stato hanno competenza concorrente. E senza intesa, nulla da fare».
Da Diario del 3 marzo
TRINO - Magari qualcuno lo trovi che ti dice che può essere conveniente. «Un bel business». Ma per lo più alla gente di Trino Vercellese sembra di essere sottoposta a un esperimento sociologico. «Vogliono vedere quanto resistiamo!». A cosa? «Di alluvioni ne abbiamo avute già due, di crisi non ne parliamo, e ora vogliono piazzarci una seconda centrale nucleare». Non è sindrome nimby (Not in my backyard, insomma: non nel mio cortile), anche se a Roma piace vederla così. Qui dicono di avere già dato. E pure tanto. L’eredità di quel passato, che il governo vorrebbe far tornare, pesa ancora sulle spalle di questa terra dove la risaia diventa prima fiume e poi, superata la riva, collina. È custodita a Saluggia e a Trino in quei depositi, costruiti provvisoriamente (ma ormai non troppo) quasi sul greto di Po e Dora Baltea, che accolgono l’85 per cento delle scorie del nostro paese. Nel 2000, quando l’impianto Eurex fu allagato, si sfiorò, parole di Carlo Rubbia, «una catastrofe planetaria». Ogni ingrossamento del fiume, un allarme.
Così, dopo l’accordo Sarkozy-Berlusconi, la sonnacchiosa politica vercellese si è risvegliata unita, da destra a sinistra, contro «quel ferrovecchio francese». Poi la logica “dei se e dei ma” ha prevalso nella parte di governo: un monocolore di centrodestra ormai indistinto dal capoluogo provinciale a Trino, cittadina di ottomila anime, un tempo tra le più rosse. Anche quando ci fu da votare, nel 1987, per il referendum e il Pci locale era favorevole all’atomo. Pare passata un’eternità. Roberto Rosso era già un giovane rampante democristiano, ancora consigliere comunale ma pronto a spiccare il volo verso Montecitorio, con un perfetto sorriso berlusconiano e un astio esibito nei confronti della sinistra. «Colpa loro, sempre loro», ci tiene a ribadire sul fatto che non si sia fatto il deposito nazionale scorie a Scanzano Jonico, in Basilicata. Se adesso esistesse, non avrebbe remore ad accettare una nuova centrale nella sua Trino che gli ha regalato cifre bulgare (il 40 per cento alle ultime politiche). Invece, le cose non stanno così. E gli tocca andare contro il suo governo: «Intanto risolviamo il problema delle scorie, poi semmai ne parliamo». Lui, che è stato responsabile Energia di Forza Italia, non rileva però differenze di vedute con Berlusconi: «Rimango profondamente nuclearista, confido che si trovi presto il deposito nazionale e non vedrei nemmeno male Leri Cavour come luogo idoneo». Ecco, se lo sentissero gli ambientalisti ci sarebbe più che un moto di rivolta, ma anche se solo lo ascoltasse il presidente della Provincia di Vercelli Renzo Masoero (An, ora Pdl), che il giorno del patto italo-francese aveva lanciato su facebook la provocazione di costruire una centrale in Brianza, anziché dalle sue parti. Dopo ha corretto il tiro: «Se proprio non possiamo farci niente, almeno ci diano in cambio cinquemila posti di lavoro». Risposta considerata illusoria dal trinese Alessandro Portinaro, 30 anni, candidato sindaco del Pd: «Con il nucleare l’economia rimarrà ferma per vent’anni». Portinaro, alle amministrative, potrebbe vedersela proprio con Rosso, che, dopo aver perso a Torino contro Chiamparino, torna alla carica nel suo piccolo feudo.
Se percorri la strada delle Grange (le antiche cascine medievali), a un certo punto, in piena campagna, spuntano due torri che ti fanno sentire quasi nella Springfield dei Simpson. Sono quelle della centrale a ciclo combinato Galileo Ferraris di Leri Cavour (frazione di Trino) ed è il sito a cui tutti alludono, seppur nessuno lo citi direttamente, come al nuovo impianto atomico. Per la verità le istituzioni, spinte da Legambiente e Cgil, volevano farne un polo di ricerca sulle energie alternative. Ma gli ettari inutilizzati sono stati ceduti a privati. Quindi, ipotesi fallita. A pochi chilometri da qui c’è la zona che Rosso vorrebbe lanciare turisticamente: l’abbazia di Lucedio, il centro della sua società Terre d’Acqua, probabile destinataria di parte (un milione e 300mila euro) dei fondi compensativi detti “Scanzano” destinati al Comune di Trino.
È facile dire da fuori che quelli della piana vercellese sono “i soliti che non vogliono niente nel proprio giardino”. Il problema, rispondono loro, è che già hanno troppo: le scorie, un vecchio inceneritore a Vercelli, due impianti termoelettrici sulle Grange e la piaga dell’Eternit a due passi da casa (Casale Monferrato e Cavagnolo). Eppure già si prova a far leva sul nimbysmo, magari di sinistra, di questa comunità. Una ricetta mai invecchiata. Del resto, tutto è comunicazione: «Come una crisi economica risolta col nucleare», sottolinea il candidato sindaco Portinaro. Gian Piero Godio, di Legambiente, che dalle barricate no-nuke non è mai sceso, spera che l’accordo italo-francese sia un bluff. E parla del piano energetico regionale «come tutela». È stato approvato ai tempi del governo Ghigo (che sull’argomento oggi ha cambiato idea): «C’è scritto che il Piemonte dice no al nucleare. In tema energetico la Costituzione precisa che Regione e Stato hanno competenza concorrente. E senza intesa, nulla da fare».
Da Diario del 3 marzo
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