lunedì 22 marzo 2010

Spostare il processo «è uccidere ancora»

No a Genova, «l'Eternit resti a Torino»

TORINO - Siamo a un momento delicato del processo Eternit. La difesa sta cercando di spostare il dibattimento a Genova, sollevando una questione di competenza territoriale. «Perché in Liguria si trovava la sede legale», sostengono gli avvocati del magnate svizzero Stephan Schmidheiny e del barone belga Louis de Cartier de Marchienne, accusati di disastro ambientale doloso permanente e omissione dolosa delle norme di sicurezza. La questione era stata già respinta nell'udienza preliminare. «Se fosse accolta sarebbe devastante, se così non sarà, il processo si radicherà a Torino e si potranno finalmente sentire i testimoni», spiega Davide Petrini, avvocato di parte civile.

La scorsa settimana fuori dalla sede della Regione Piemonte in corso Stati Uniti è comparso uno striscione: «Spostare il processo a Genova è come uccidere una seconda volta». All'interno, si svolgeva un convegno promosso dalla Iban (International Ban Asbestos Network), in cui si sono alternate testimonianze da ogni paese. Una accanto all'altra, dimostrando come «l'avvelenamento» dell'Eternit fosse frutto di una politica mondiale, deciso da una testa dirigenziale. Prima in Occidente e poi, dopo il bando dell'amianto, nei paesi in via di sviluppo.

L'Eternit in Europa era un sistema, una ragnatela difficile da scalfire. Fatta di fabbriche e relazioni, di polvere e potere, di tettoie e tubature. Faceva profitto e dava lavoro, anche parecchio. Si era costruita un aspetto materno: concedeva una casa agli operai, a cui regalava il «polverino» (gli scarti della produzione). Ma che fosse maledettamente cancerogeno non glielo diceva. Madre e mostro. In Belgio l'abbraccio si faceva stretto. «Gli orari dei treni corrispondevano a quelli degli stabilimenti, i medici dell'impresa erano gli stessi di famiglia. La polvere era ovunque, noi bambini ci giocavamo in mezzo. L'azienda rassicurava, dicendo che l'amianto non aveva nulla a che vedere con l'asbestosi». Lo racconta Eric Jonckheere, fondatore della Abeva, l'associazione belga delle vittime: «Sono cresciuto a Kapelle-Op-Den-Bos, dove mio padre lavorava come ingegnere all'Eternit. Solo quando si ammalò di mesotelioma si dissolse l'inganno, l'azienda ci contattò per risolvere la faccenda, mia madre rifiutò. Anche lei morì, poco dopo mio padre, della stessa malattia, pur non essendo mai entrata in fabbrica. Poi, ho perso due fratelli». Una famiglia spazzata via dall'amianto: «L'Eternit se n'è andata, lasciando centinaia di morti. Senza preoccuparsi della bonifica».

Bob Ruers, avvocato olandese, ha assistito 1.500 persone negli ultimi quindici anni. Anche nei Paesi Bassi (485 morti l'anno di amianto) l'azienda regalavano il polverino: «Conosceva la pericolosità, ma non diceva nulla. Era una via indiretta per smaltire i rifiuti gratuitamente». Franco Basciani è un ex lavoratore dell'Eternit di Niederurnen nella Svizzera tedesca. «Noi emigranti italiani guardiamo con attenzione al processo di Torino. A Zurigo, i tentativi vengono tutti sconfitti dalla prescrizione, che inizia non dal momento in cui contrai la malattia ma da quando sei sei stato esposto». Nel Paese si sente ancora il peso politico di Schmidheiny: «Nella sua biografia racconta che ai tempi della presidenza Eternit voleva installare aspiratori, ma i lavoratori si opposero. Se lui avesse detto che le fibre di amianto uccidevano, gli operai non ci avrebbero più messo piede».

Da il manifesto del 21 marzo

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