Il momento delle accuse: «Amici della Lega», «traditori»
TORINO - Lei continua a chiamarlo il «ribellismo». Dice che il problema sono quei giovani che sperano nel movimento No Tav perché si interessano solo della contestazione. Che la sua sconfitta dimostra «che solo la politica urlata paga». E a chi le chiede come ha potuto non accorgersi del fatto che il movimento di Beppe Grillo stava rosicchiando tanti consensi al centrosinistra, la governatrice uscente del Piemonte Mercedes Bresso risponde sconsolata: «Non c'erano segnali, i sondaggi non lo dicevano. È stato fuoco amico».
È andata proprio così. Il giovane medico di base Davide Bono, portavoce dei grillini a cinque stelle, col suo modo di fare neppure troppo aggressivo si prende due consiglieri e quasi il quattro per cento dei consensi. Punti decisivi per assegnare la vittoria al leghista Roberto Cota, passato col 47,32% e 1.043.318 voti, su Mercedes Bresso e il suo 46,90%, ovvero 1.033.946 suffragi. Bono ha preso 90.086 voti, cioè il 4,08%. Nulla di paragonabile all'1,43% di Sel, al 2,64% della Federazione della sinistra, per non dire dei Verdi fermi allo 0,74%. Un grimaldello decisivo per scardinare l'incerta tenuta della sinistra nella provincia di Torino e sicuramente più importante delle tante schede nulle, tirate fuori lunedì sera dalla Bresso ma già dimenticate (ma il ricorso si farà). Visto, poi, che nel 2005 Ghigo era esattamente dov'è il centrodestra ora - con meno Lega, ma questa sarebbe un'altra storia - e che al Pd mancano giusto quattro punti per la vittoria, il centrosinistra sa già contro chi puntare il dito.
Val Susa, provincia di Torino, qui il candidato del movimento 5 stelle ha incassato cifre da record: il 28,7% a Bussoleno, il 29,8% a Venaus e il 26,5% a San Giorgio (uno dei rari comuni della valle in cui la Bresso ha superato Cota, 37,2% contro 31,5%). Numeri che all'ex zarina fanno accapponare la pelle. Ma lo stupore per questo boom scema appena ci si allontana dal capoluogo, si va verso Avigliana e le montagne. In Val Susa se l'aspettavano. Prendete la folla in piazza Castello davanti al Beppe, il 14 marzo scorso. Ecco. Proprio quel giorno Alberto Perino, storico leader No Tav, fece la sua dichiarazione di voto: Davide Bono. E, ieri, la sua risposta alla domanda sul perché del risultato grillino è stata caustica, come sempre. «È chiaro: gli altri due erano per la Tav. Prima avevamo votato Rifondazione e Verdi. Poi, loro hanno tradito. I 5 stelle, invece, ragionano sulle cose concrete, come noi». E al Pd che li accusa di aver liberato il campo alla Lega? «Che dire, chi è causa del suo mal pianga se stesso».
Bono, barba e occhialini, era convinto del successo: «Conoscevamo la nostra potenzialità, in valle abbiamo avuto il sostegno dei tanti che alle amministrative hanno appoggiato le Liste civiche». Respinge le accuse del centrosinistra che lo vuole responsabile della sconfitta: «I nostri voti sono principalmente sottratti all'astensionismo e alla delusione». Gli dà ragione Giorgio Vair, vicesindaco a San Didero, 15 chilometri da Susa. Amministratore dall'85, si definisce «indipendente di sinistra». L'ultima volta è stato eletto in una delle Liste civiche che si oppongono all'alta velocità (120 consiglieri comunali sui 600 in valle): «Il voto al movimento 5 stelle è di protesta contro i poteri forti e di contenuto. È stato l'unico a parlare di un diverso modello di sviluppo».
Rifondazione a Bussoleno è passata dal 12% del 2005 al 4%. Juri Bossuto è consigliere regionale uscente del Prc, da sempre impegnato nelle lotta No Tav. «Siamo dal 1992 nel movimento, senza volerlo cavalcare. Purtroppo il nostro accordo tecnico è stato interpretato come una resa. Non era così, si trattava di opporsi a una destra razzista. Il movimento No Tav ha fatto un grave errore, i grillini non andranno mai davanti alle fabbriche». Che la responsabilità sia anche della sinistra lo ammette Sandro Plano, il presidente della Comunità montana, nel Pd ma sempre a rischio espulsione: «La colpa - lo dice con amarezza - è nostra, bisogna ritrovare lo spirito dell'Ulivo».
Le cinque stelle prendono molto persino nelle roccaforti rosse della provincia torinese. Come Collegno, dove il Pd si «ferma» al sessanta per cento dei consensi: «Lasciando da parte il 75% delle regionali 2005, siamo calati di cinque punti dalle europee dello scorso anno. C'è un calo ma non parlerei di crisi visto che il partito resta su percentuali altissime», spiega il segretario Francesco Casciano. Anche da queste parti Bono ha rosicchiato un po'. Giusto cinque punti: «Ma la Tav non c'entra, il problema è l'antipolitica. Anche perché la crisi è fortissima. E quando a settembre finiranno gli ammortizzatori sociali, qui, in quella che era la seconda zona industriale d'Europa, la situazione si farà davvero dura».
Sara Menafra e Mauro Ravarino
Da il manifesto del 31 marzo
mercoledì 31 marzo 2010
sabato 27 marzo 2010
Piemonte cercasi
Il Pd chiude la campagna elettorale sull'onda «socialdemocratica». Il segretario Bersani all'alba si fa trovare ai cancelli di Mirafiori. L'accoglienza è fredda, ma lui ci crede: «Proviamo a raccontare il paese reale». Poi corre verso la periferia torinese
TORINO - Corso Tazzoli, porta 2, è l'ingresso della fabbrica per eccellenza. Alle carrozzerie, come in tutta Mirafiori sono abituati ai politici in campagna elettorale. Ma forse non così all'alba («solo ai tempi di Berlinguer» dice qualcuno). E non alle cinque. In quegli attimi gli operai sono più ombre del solito. È, infatti, ancora buio quando Pierluigi Bersani arriva ai cancelli della Fiat, accompagnato dalla candidata a presidente del Piemonte Mercedes Bresso. L'oscurità è presto sciolta dai flash e dalle luci delle telecamere. È l'inizio di una lunga giornata, che qualcuno dei suoi fedelissimi definisce socialdemocratica, ma lui preferisce chiamarla «popolare». Ha voluto chiudere la campagna elettorale prima nel luogo simbolo del lavoro in Italia e poi in una piazza nella periferia di Torino: «Perché vado dove ci sono i problemi, non i miracoli. E vorrei un partito capace di guardare le persone all'altezza degli occhi».
L'impatto ai cancelli non è dei più caldi. L'accoglienza non è affettuosa (gli operai sono preoccupati per il loro futuro), ma nemmeno ostile. Anzi c'è chi dice subito: «Sono contenta vi siate svegliati al nostro orario». C'è però chi scappa via tra le due ali di giornalisti senza nemmeno fermarsi, altri gli stringono la mano, altri si fermano. Vogliono parlare. «Che fine ha fatto la norma sui lavori usuranti?» chiede un operaio. «È vero c'è la legge, ma il governo non la applica» risponde il segretario. Un'operaia si fa avanti: «Soltanto ora vi ricordate di noi e di come viviamo. Ho 34 anni, un compagno precario. Abbiamo rinunciato ad avere un figlio» dice a muso duro. Nina Leone è rsu Fiom alle carrozzerie, gli chiede un impegno sulla legge di iniziativa popolare su democrazia e rappresentanza sindacale: «Non posso essere contrario - dice Bersani, cauto - a una proposta che dà maggiore voce ai lavoratori».
Le tute blu vogliono rassicurazioni sul futuro: «Non lasciateci soli». Bresso tranquillizza: «Abbiamo incontrato la Fiat e ci hanno detto che non hanno intenzione di mollare Mirafiori, anzi, che faranno una nuova produzione». Ma non basta a levare le paure: «In questo paese - spiega Bersani - c'è un caso Fiat, per questo bisogna che si apra un negoziato nazionale e che il governo trovi il modo di portare al tavolo l'azienda e le organizzazioni sindacali per sapere cosa si vuol fare, perché non può essere che il Lingotto presenti il suo piano e il governo non ne sappia niente».
Per il comizio di chiusura, il Pd non ha scelto la solita piazza (Rifondazione è rimasta in centro, davanti al Carignano). É volato in periferia, Madonna di Campagna, piazza Villari. Il cuore di un quartiere popolare. Quando sale sul palco, Bersani dà la carica: «Due mesi fa ci pensavano confinati in una riserva indiana di 3 o 4 Regioni. Non è più così. E se ne sono accorti. Vedrete ci sarà un'inversione di tendenza». Spiega: «Abbiamo voluto portare sotto i riflettori il paese reale: lavoro, reddito, sanità, scuola. Questi sono i nostri valori, con la difesa della migliore costituzione del mondo, quella italiana». Racconta la sua campagna: «In ogni città ho voluto incontrare un'azienda in crisi, un quartiere popolare. Per imparare chi siamo noi, un grande partito popolare». Parla semplice, diretto. «Il capo del governo è nervoso, non sorride più, digrigna i denti. Ce l'ha con magistrati, sinistra mangia bambini e conduttori televisivi». Al nome di Santoro scoppia l'applauso. Poi: «Neanche in Iran provano a oscurare la comunicazione come qui». Si rivolge a Berlusconi, che non cita quasi mai per nome, lo chiama piuttosto «il miliardario», il surfista che va da un'onda a una balla: «Se non ti piace la televisione cambia canale. Come facciamo tutti i giorni quando vediamo la tua faccia».
Il Piemonte è una delle regioni in bilico, quella più simbolica («Si gioca al pelo, ma siamo fiduciosi»). Scalda la chiamata antileghista: «Non ci sarebbe Berlusconi se non ci fosse la Lega e il Carroccio non può fare tutte le parti in commedia: venire il week end a fare il partito del federalismo e del territorio e poi durante la settimane sostenere il miliardario con più passione di Cicchitto». E poi si rivolge a Cota: «Ha giurato nelle mani del miliardario a San Giovanni a Roma, non ci venga poi a parlare di autonomia, lui che si è inchinato all'imperatore. E domani quando Berlusconi chiederà di fare le centrali nucleari dirà di no?». Infine: «Il Pd deve essere il partito della nuova unità della Nazione e dell'antica Costituzione della Repubblica».
Prima aveva parlato Mercedes Bresso, il suo ultimo appello: «Dobbiamo tornare al governo del Piemonte e poi di quello nazionale. Fermeremo la Lega e i lumbard sul Ticino».
Da il manifesto del 27 marzo
TORINO - Corso Tazzoli, porta 2, è l'ingresso della fabbrica per eccellenza. Alle carrozzerie, come in tutta Mirafiori sono abituati ai politici in campagna elettorale. Ma forse non così all'alba («solo ai tempi di Berlinguer» dice qualcuno). E non alle cinque. In quegli attimi gli operai sono più ombre del solito. È, infatti, ancora buio quando Pierluigi Bersani arriva ai cancelli della Fiat, accompagnato dalla candidata a presidente del Piemonte Mercedes Bresso. L'oscurità è presto sciolta dai flash e dalle luci delle telecamere. È l'inizio di una lunga giornata, che qualcuno dei suoi fedelissimi definisce socialdemocratica, ma lui preferisce chiamarla «popolare». Ha voluto chiudere la campagna elettorale prima nel luogo simbolo del lavoro in Italia e poi in una piazza nella periferia di Torino: «Perché vado dove ci sono i problemi, non i miracoli. E vorrei un partito capace di guardare le persone all'altezza degli occhi».
L'impatto ai cancelli non è dei più caldi. L'accoglienza non è affettuosa (gli operai sono preoccupati per il loro futuro), ma nemmeno ostile. Anzi c'è chi dice subito: «Sono contenta vi siate svegliati al nostro orario». C'è però chi scappa via tra le due ali di giornalisti senza nemmeno fermarsi, altri gli stringono la mano, altri si fermano. Vogliono parlare. «Che fine ha fatto la norma sui lavori usuranti?» chiede un operaio. «È vero c'è la legge, ma il governo non la applica» risponde il segretario. Un'operaia si fa avanti: «Soltanto ora vi ricordate di noi e di come viviamo. Ho 34 anni, un compagno precario. Abbiamo rinunciato ad avere un figlio» dice a muso duro. Nina Leone è rsu Fiom alle carrozzerie, gli chiede un impegno sulla legge di iniziativa popolare su democrazia e rappresentanza sindacale: «Non posso essere contrario - dice Bersani, cauto - a una proposta che dà maggiore voce ai lavoratori».
Le tute blu vogliono rassicurazioni sul futuro: «Non lasciateci soli». Bresso tranquillizza: «Abbiamo incontrato la Fiat e ci hanno detto che non hanno intenzione di mollare Mirafiori, anzi, che faranno una nuova produzione». Ma non basta a levare le paure: «In questo paese - spiega Bersani - c'è un caso Fiat, per questo bisogna che si apra un negoziato nazionale e che il governo trovi il modo di portare al tavolo l'azienda e le organizzazioni sindacali per sapere cosa si vuol fare, perché non può essere che il Lingotto presenti il suo piano e il governo non ne sappia niente».
Per il comizio di chiusura, il Pd non ha scelto la solita piazza (Rifondazione è rimasta in centro, davanti al Carignano). É volato in periferia, Madonna di Campagna, piazza Villari. Il cuore di un quartiere popolare. Quando sale sul palco, Bersani dà la carica: «Due mesi fa ci pensavano confinati in una riserva indiana di 3 o 4 Regioni. Non è più così. E se ne sono accorti. Vedrete ci sarà un'inversione di tendenza». Spiega: «Abbiamo voluto portare sotto i riflettori il paese reale: lavoro, reddito, sanità, scuola. Questi sono i nostri valori, con la difesa della migliore costituzione del mondo, quella italiana». Racconta la sua campagna: «In ogni città ho voluto incontrare un'azienda in crisi, un quartiere popolare. Per imparare chi siamo noi, un grande partito popolare». Parla semplice, diretto. «Il capo del governo è nervoso, non sorride più, digrigna i denti. Ce l'ha con magistrati, sinistra mangia bambini e conduttori televisivi». Al nome di Santoro scoppia l'applauso. Poi: «Neanche in Iran provano a oscurare la comunicazione come qui». Si rivolge a Berlusconi, che non cita quasi mai per nome, lo chiama piuttosto «il miliardario», il surfista che va da un'onda a una balla: «Se non ti piace la televisione cambia canale. Come facciamo tutti i giorni quando vediamo la tua faccia».
Il Piemonte è una delle regioni in bilico, quella più simbolica («Si gioca al pelo, ma siamo fiduciosi»). Scalda la chiamata antileghista: «Non ci sarebbe Berlusconi se non ci fosse la Lega e il Carroccio non può fare tutte le parti in commedia: venire il week end a fare il partito del federalismo e del territorio e poi durante la settimane sostenere il miliardario con più passione di Cicchitto». E poi si rivolge a Cota: «Ha giurato nelle mani del miliardario a San Giovanni a Roma, non ci venga poi a parlare di autonomia, lui che si è inchinato all'imperatore. E domani quando Berlusconi chiederà di fare le centrali nucleari dirà di no?». Infine: «Il Pd deve essere il partito della nuova unità della Nazione e dell'antica Costituzione della Repubblica».
Prima aveva parlato Mercedes Bresso, il suo ultimo appello: «Dobbiamo tornare al governo del Piemonte e poi di quello nazionale. Fermeremo la Lega e i lumbard sul Ticino».
Da il manifesto del 27 marzo
mercoledì 24 marzo 2010
Pazzi per il cinema
Attraversano l’Abruzzo con un pullman per portare film e vita agli isolati delle new town. Loro, che sono Matti
L'AQUILA - Il brusio si sente anche dall’esterno, la stanza è una scatola sottile. Un container anonimo, come se ne vedono tanti dopo una catastrofe. Isolato, a lato dei padiglioni che un tempo ospitavano il manicomio di Collemaggio a L’Aquila. Rispetto ai muri crepati delle vecchie strutture, questo parallelepipedo bianco dà una certa sicurezza.
Ogni giorno si ritrovano qui una ventina di ragazzi del Centro di salute mentale. “Una beffa del destino tornare nel luogo che avevamo abbandonato più di dieci anni fa, al termine di una lunga lotta. È una collocazione di sofferenza, ma l’abbiamo accettata, dopo sette mesi passati in tendopoli”. Alessandro Sirolli, direttore del Centro, ha modi gentili e barba incolta. È uno psicologo di frontiera: allievo di Franco Basaglia, è stato impegnato fin dagli anni ’70 nel processo di smantellamento dei manicomi, in particolare quello di Collemaggio, chiuso nel 1996.
Ripartire dopo il terremoto non è stato semplice, ma Sirolli l’ha voluto fare proprio con i suoi matti e con un’iniziativa particolare. Dal 20 febbraio, infatti, gira con loro per le new town abruzzesi a bordo del Cinebus. “È un autobus trasformato in cinema -spiega lo psicologo-, per portare film e dibattiti nei nuovi quartieri, dove mancano spazi di socialità e la gente è sempre più isolata”.
L’Ama, l’azienda dei trasporti aquilana, ha concesso un pullman. La onlus romana “Chiara e Francesco” e l’associazione “180 amici” si sono fatte carico dell’impianto di proiezione e dei costi per due operatori. La prima tappa è stata la piazza del Duomo, nel centro de L’Aquila. Il Cinebus ha poi toccato le frazioni di Roio, Paganica e Colle Brincioni.
Il tour andrà avanti per tutta la primavera. Nei fine settimana il pullman raggiunge una delle new town, la gente si accomoda sui sedili e si gode lo spettacolo. Finora sono stati proiettati la fiction su Basaglia “C’era una volta la città dei matti”, “Si può fare”, del regista Claudio Manfredonia con la partecipazione di Claudio Bisio, e “Tutta la vita davanti”, di Paolo Virzì.
“È un ottimo modo per coinvolgere i matti, che mi accompagnano nelle diverse tappe del viaggio. Alla fine di ogni pellicola i cittadini e le persone che frequentano il Centro discutono di quello che hanno visto ma anche delle condizioni in cui stiamo vivendo oggi”.
Il contatto con la cittadinanza è linfa vitale per Sirolli e la sua attività. “Già prima del terremoto, avevamo pensato a una serie di iniziative da realizzare nella nostra sede appena ristrutturata, in via San Marciano, un palazzo settecentesco ora inagibile: un milione e 300mila euro di danni causati dal sisma”. L’idea era quella di presentare testi di scrittori abruzzesi. La scossa, però, ha sconvolto tutto. “Dopo il 6 aprile, la nostra terra si è riempita di giornalisti ed è arrivata una valanga di libri sul terremoto”, racconta Sirolli. I libri sono stati il primo veicolo per intraprendere quelli che lo psicologo chiama “laboratori di cittadinanza”.
I ragazzi di Sirolli hanno vissuto nelle tende, in mezzo agli altri. “Abbiamo scelto di stare nella tendopoli, quella del campo Globo, che si è trasformata nella sede provvisoria del Centro e in casa per decine di ragazzi che avevano perso la propria. Non senza resistenza della Protezione civile che ci voleva isolare su una collina. La tenda è uno spazio di socialità e contaminazione, proprio quello che cercavamo quando nel 1996 siamo usciti dal manicomio per permettere a queste persone di vivere in appartamenti in città”.
Il giorno dopo il terremoto era arrivata anche una proposta. Inaccettabile. “Tranquilli, ve li prendiamo noi i matti”. Erano i responsabili di Villa Pini, la casa di cura di Chieti di proprietà della famiglia Angelini, oggi al centro di un’inchiesta giudiziaria per truffa.
Sirolli ha voluto difendere i propri matti, scegliendo una soluzione precaria come quella della tendopoli. “C’era chi si lamentava perché il matto faceva la pipì fuori dalla tenda -ricorda-, poi magari si scopriva che era stato un vecchietto che non ce la faceva ad arrivare ai bagni. Ma soprattutto abbiamo ricevuto espressioni di vicinanza”. Il 2 novembre, quando il Centro è stato trasferito nel container e i ragazzi sono tornati a vivere nelle proprie case o nella new town, molti hanno pianto. “E ancora oggi se ci incontrano per strada ci chiedono come stanno Luigi, Danilo e gli altri”.
Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
Da Terre di mezzo di marzo
L'AQUILA - Il brusio si sente anche dall’esterno, la stanza è una scatola sottile. Un container anonimo, come se ne vedono tanti dopo una catastrofe. Isolato, a lato dei padiglioni che un tempo ospitavano il manicomio di Collemaggio a L’Aquila. Rispetto ai muri crepati delle vecchie strutture, questo parallelepipedo bianco dà una certa sicurezza.
Ogni giorno si ritrovano qui una ventina di ragazzi del Centro di salute mentale. “Una beffa del destino tornare nel luogo che avevamo abbandonato più di dieci anni fa, al termine di una lunga lotta. È una collocazione di sofferenza, ma l’abbiamo accettata, dopo sette mesi passati in tendopoli”. Alessandro Sirolli, direttore del Centro, ha modi gentili e barba incolta. È uno psicologo di frontiera: allievo di Franco Basaglia, è stato impegnato fin dagli anni ’70 nel processo di smantellamento dei manicomi, in particolare quello di Collemaggio, chiuso nel 1996.
Ripartire dopo il terremoto non è stato semplice, ma Sirolli l’ha voluto fare proprio con i suoi matti e con un’iniziativa particolare. Dal 20 febbraio, infatti, gira con loro per le new town abruzzesi a bordo del Cinebus. “È un autobus trasformato in cinema -spiega lo psicologo-, per portare film e dibattiti nei nuovi quartieri, dove mancano spazi di socialità e la gente è sempre più isolata”.
L’Ama, l’azienda dei trasporti aquilana, ha concesso un pullman. La onlus romana “Chiara e Francesco” e l’associazione “180 amici” si sono fatte carico dell’impianto di proiezione e dei costi per due operatori. La prima tappa è stata la piazza del Duomo, nel centro de L’Aquila. Il Cinebus ha poi toccato le frazioni di Roio, Paganica e Colle Brincioni.
Il tour andrà avanti per tutta la primavera. Nei fine settimana il pullman raggiunge una delle new town, la gente si accomoda sui sedili e si gode lo spettacolo. Finora sono stati proiettati la fiction su Basaglia “C’era una volta la città dei matti”, “Si può fare”, del regista Claudio Manfredonia con la partecipazione di Claudio Bisio, e “Tutta la vita davanti”, di Paolo Virzì.
“È un ottimo modo per coinvolgere i matti, che mi accompagnano nelle diverse tappe del viaggio. Alla fine di ogni pellicola i cittadini e le persone che frequentano il Centro discutono di quello che hanno visto ma anche delle condizioni in cui stiamo vivendo oggi”.
Il contatto con la cittadinanza è linfa vitale per Sirolli e la sua attività. “Già prima del terremoto, avevamo pensato a una serie di iniziative da realizzare nella nostra sede appena ristrutturata, in via San Marciano, un palazzo settecentesco ora inagibile: un milione e 300mila euro di danni causati dal sisma”. L’idea era quella di presentare testi di scrittori abruzzesi. La scossa, però, ha sconvolto tutto. “Dopo il 6 aprile, la nostra terra si è riempita di giornalisti ed è arrivata una valanga di libri sul terremoto”, racconta Sirolli. I libri sono stati il primo veicolo per intraprendere quelli che lo psicologo chiama “laboratori di cittadinanza”.
I ragazzi di Sirolli hanno vissuto nelle tende, in mezzo agli altri. “Abbiamo scelto di stare nella tendopoli, quella del campo Globo, che si è trasformata nella sede provvisoria del Centro e in casa per decine di ragazzi che avevano perso la propria. Non senza resistenza della Protezione civile che ci voleva isolare su una collina. La tenda è uno spazio di socialità e contaminazione, proprio quello che cercavamo quando nel 1996 siamo usciti dal manicomio per permettere a queste persone di vivere in appartamenti in città”.
Il giorno dopo il terremoto era arrivata anche una proposta. Inaccettabile. “Tranquilli, ve li prendiamo noi i matti”. Erano i responsabili di Villa Pini, la casa di cura di Chieti di proprietà della famiglia Angelini, oggi al centro di un’inchiesta giudiziaria per truffa.
Sirolli ha voluto difendere i propri matti, scegliendo una soluzione precaria come quella della tendopoli. “C’era chi si lamentava perché il matto faceva la pipì fuori dalla tenda -ricorda-, poi magari si scopriva che era stato un vecchietto che non ce la faceva ad arrivare ai bagni. Ma soprattutto abbiamo ricevuto espressioni di vicinanza”. Il 2 novembre, quando il Centro è stato trasferito nel container e i ragazzi sono tornati a vivere nelle proprie case o nella new town, molti hanno pianto. “E ancora oggi se ci incontrano per strada ci chiedono come stanno Luigi, Danilo e gli altri”.
Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
Da Terre di mezzo di marzo
lunedì 22 marzo 2010
Spostare il processo «è uccidere ancora»
No a Genova, «l'Eternit resti a Torino»
TORINO - Siamo a un momento delicato del processo Eternit. La difesa sta cercando di spostare il dibattimento a Genova, sollevando una questione di competenza territoriale. «Perché in Liguria si trovava la sede legale», sostengono gli avvocati del magnate svizzero Stephan Schmidheiny e del barone belga Louis de Cartier de Marchienne, accusati di disastro ambientale doloso permanente e omissione dolosa delle norme di sicurezza. La questione era stata già respinta nell'udienza preliminare. «Se fosse accolta sarebbe devastante, se così non sarà, il processo si radicherà a Torino e si potranno finalmente sentire i testimoni», spiega Davide Petrini, avvocato di parte civile.
La scorsa settimana fuori dalla sede della Regione Piemonte in corso Stati Uniti è comparso uno striscione: «Spostare il processo a Genova è come uccidere una seconda volta». All'interno, si svolgeva un convegno promosso dalla Iban (International Ban Asbestos Network), in cui si sono alternate testimonianze da ogni paese. Una accanto all'altra, dimostrando come «l'avvelenamento» dell'Eternit fosse frutto di una politica mondiale, deciso da una testa dirigenziale. Prima in Occidente e poi, dopo il bando dell'amianto, nei paesi in via di sviluppo.
L'Eternit in Europa era un sistema, una ragnatela difficile da scalfire. Fatta di fabbriche e relazioni, di polvere e potere, di tettoie e tubature. Faceva profitto e dava lavoro, anche parecchio. Si era costruita un aspetto materno: concedeva una casa agli operai, a cui regalava il «polverino» (gli scarti della produzione). Ma che fosse maledettamente cancerogeno non glielo diceva. Madre e mostro. In Belgio l'abbraccio si faceva stretto. «Gli orari dei treni corrispondevano a quelli degli stabilimenti, i medici dell'impresa erano gli stessi di famiglia. La polvere era ovunque, noi bambini ci giocavamo in mezzo. L'azienda rassicurava, dicendo che l'amianto non aveva nulla a che vedere con l'asbestosi». Lo racconta Eric Jonckheere, fondatore della Abeva, l'associazione belga delle vittime: «Sono cresciuto a Kapelle-Op-Den-Bos, dove mio padre lavorava come ingegnere all'Eternit. Solo quando si ammalò di mesotelioma si dissolse l'inganno, l'azienda ci contattò per risolvere la faccenda, mia madre rifiutò. Anche lei morì, poco dopo mio padre, della stessa malattia, pur non essendo mai entrata in fabbrica. Poi, ho perso due fratelli». Una famiglia spazzata via dall'amianto: «L'Eternit se n'è andata, lasciando centinaia di morti. Senza preoccuparsi della bonifica».
Bob Ruers, avvocato olandese, ha assistito 1.500 persone negli ultimi quindici anni. Anche nei Paesi Bassi (485 morti l'anno di amianto) l'azienda regalavano il polverino: «Conosceva la pericolosità, ma non diceva nulla. Era una via indiretta per smaltire i rifiuti gratuitamente». Franco Basciani è un ex lavoratore dell'Eternit di Niederurnen nella Svizzera tedesca. «Noi emigranti italiani guardiamo con attenzione al processo di Torino. A Zurigo, i tentativi vengono tutti sconfitti dalla prescrizione, che inizia non dal momento in cui contrai la malattia ma da quando sei sei stato esposto». Nel Paese si sente ancora il peso politico di Schmidheiny: «Nella sua biografia racconta che ai tempi della presidenza Eternit voleva installare aspiratori, ma i lavoratori si opposero. Se lui avesse detto che le fibre di amianto uccidevano, gli operai non ci avrebbero più messo piede».
Da il manifesto del 21 marzo
TORINO - Siamo a un momento delicato del processo Eternit. La difesa sta cercando di spostare il dibattimento a Genova, sollevando una questione di competenza territoriale. «Perché in Liguria si trovava la sede legale», sostengono gli avvocati del magnate svizzero Stephan Schmidheiny e del barone belga Louis de Cartier de Marchienne, accusati di disastro ambientale doloso permanente e omissione dolosa delle norme di sicurezza. La questione era stata già respinta nell'udienza preliminare. «Se fosse accolta sarebbe devastante, se così non sarà, il processo si radicherà a Torino e si potranno finalmente sentire i testimoni», spiega Davide Petrini, avvocato di parte civile.
La scorsa settimana fuori dalla sede della Regione Piemonte in corso Stati Uniti è comparso uno striscione: «Spostare il processo a Genova è come uccidere una seconda volta». All'interno, si svolgeva un convegno promosso dalla Iban (International Ban Asbestos Network), in cui si sono alternate testimonianze da ogni paese. Una accanto all'altra, dimostrando come «l'avvelenamento» dell'Eternit fosse frutto di una politica mondiale, deciso da una testa dirigenziale. Prima in Occidente e poi, dopo il bando dell'amianto, nei paesi in via di sviluppo.
L'Eternit in Europa era un sistema, una ragnatela difficile da scalfire. Fatta di fabbriche e relazioni, di polvere e potere, di tettoie e tubature. Faceva profitto e dava lavoro, anche parecchio. Si era costruita un aspetto materno: concedeva una casa agli operai, a cui regalava il «polverino» (gli scarti della produzione). Ma che fosse maledettamente cancerogeno non glielo diceva. Madre e mostro. In Belgio l'abbraccio si faceva stretto. «Gli orari dei treni corrispondevano a quelli degli stabilimenti, i medici dell'impresa erano gli stessi di famiglia. La polvere era ovunque, noi bambini ci giocavamo in mezzo. L'azienda rassicurava, dicendo che l'amianto non aveva nulla a che vedere con l'asbestosi». Lo racconta Eric Jonckheere, fondatore della Abeva, l'associazione belga delle vittime: «Sono cresciuto a Kapelle-Op-Den-Bos, dove mio padre lavorava come ingegnere all'Eternit. Solo quando si ammalò di mesotelioma si dissolse l'inganno, l'azienda ci contattò per risolvere la faccenda, mia madre rifiutò. Anche lei morì, poco dopo mio padre, della stessa malattia, pur non essendo mai entrata in fabbrica. Poi, ho perso due fratelli». Una famiglia spazzata via dall'amianto: «L'Eternit se n'è andata, lasciando centinaia di morti. Senza preoccuparsi della bonifica».
Bob Ruers, avvocato olandese, ha assistito 1.500 persone negli ultimi quindici anni. Anche nei Paesi Bassi (485 morti l'anno di amianto) l'azienda regalavano il polverino: «Conosceva la pericolosità, ma non diceva nulla. Era una via indiretta per smaltire i rifiuti gratuitamente». Franco Basciani è un ex lavoratore dell'Eternit di Niederurnen nella Svizzera tedesca. «Noi emigranti italiani guardiamo con attenzione al processo di Torino. A Zurigo, i tentativi vengono tutti sconfitti dalla prescrizione, che inizia non dal momento in cui contrai la malattia ma da quando sei sei stato esposto». Nel Paese si sente ancora il peso politico di Schmidheiny: «Nella sua biografia racconta che ai tempi della presidenza Eternit voleva installare aspiratori, ma i lavoratori si opposero. Se lui avesse detto che le fibre di amianto uccidevano, gli operai non ci avrebbero più messo piede».
Da il manifesto del 21 marzo
domenica 21 marzo 2010
Piemonte al bivio tra Lega e sinistra
La regione sul filo del rasoio. Se la destra vince, può fare il cappotto nell'intero nord. Rischio astensione
TORINO - L'hanno soprannominata l'ultimo baluardo, altri invece un laboratorio. Mentre corrono per le vie di Torino le api-car con il faccione di Roberto Cota e sfreccia, lungo corso Vittorio, il pullman della Bresso con l'icona di una sorridente Mercedes, la città della Mole - in crisi e sonnacchiosa - si ritrova d'un tratto sotto i riflettori elettorali. Investita da ruoli e doveri. Pierluigi Bersani l'ha detto esplicitamente: «Il Piemonte è la priorità». Ecco perché chiuderà qui la campagna elettorale. È la sola grande regione del Nord che il centrosinistra può strappare al dominio del centrodestra. Poi, il discorso del laboratorio: l'alleanza tra il Pd e l'Udc, mal digerita dalla sinistra che ha comunque dato appoggio all'attuale presidente Bresso: la Federazione della sinistra con un accordo tecnico (programmi distinti: un posto dentro il listino, ma fuori dalla giunta) e Sinistra ecologia e libertà, un accordo pieno (programma condiviso, però fuori dal listino).
Si arriverà sul filo del rasoio. E proprio il popolo della sinistra, in bilico tra disillusione e paura dell'avanzata leghista con tutto il côté di razzismo annesso, potrebbe essere l'ago della bilancia. Ieri, la Bresso ha esclamato: «Fermeremo i "lumbard" sul Ticino. Non abbiamo niente contro i lombardi ma contro i 'lumbard' che sono tutta un'altra cosa». La «zarina» sembra in vantaggio, il suo staff è ottimista, ma gli ultimi sondaggi registrano solo un punto percentuale in più. Non così tanto da dormire sonni tranquilli. «Temo il non voto, soprattutto dei delusi di sinistra. Ma ci spero. Le prossime elezioni sono un sondaggio sulle condizioni della tenuta di democrazia in Italia. Se vincono i barbari sarà un duro colpo», commenta Diego Novelli, lo storico sindaco del Pci (1975-1985), che non ha appeso l'impegno al chiodo. Sta fuori dai partiti, non vuole essere preso per la giacchetta, ma giovedì scenderà in piazza per sostenere la Bresso, davanti al Carignano, dove è nato il primo parlamento italiano. Su facebook, il gruppo promotore «No Padania, questa Regione non la lega nessuno» ha raccolto in pochi giorni 5mila adesioni.
I due sfidanti principali (gli altri sono Davide Bono, medico di 29 anni portavoce del Movimento Cinque Stelle, e Renzo Rabellino, mago delle liste civetta, due cassate dal Tar: lista Cota e Lega Padana) hanno inaugurato il Ballarò itinerante di Floris. Con colpi ben poco di fioretto: la Bresso dà del «lumbard» a Cota che risponde con disprezzo chiamandola «francese». La territorialità è il primo punto nel programma del capogruppo alla Camera della Lega: «Chi arriva per ultimo, non può pretendere di passare per primo. Priorità ai cittadini nell'assegnazione di case popolari, asili e servizi». E, nei giorni scorsi, passeggiando con Mario Borghezio a Porta Palazzo, descritta come Tunisi, ha aggiunto: «Un buono a tutti i sedicenni piemontesi da 50 euro per i libri». E poi, strali contro la proposta del comune per gli asili aperti ai figli di immigrati irregolari.
L'emergenza in Piemonte è il lavoro. A settembre 2009 il tasso di disoccupazione è balzato al 6,5% rispetto al 4,8% dell'anno prima. La Bresso ha promesso nei primi cento giorni un fondo speciale da 15 milioni di euro per favorire i giovani talenti piemontesi alla ricerca di occupazione. Cota, un piano straordinario per la difesa e la creazione di opportunità lavorative. E ancora «la localizzazione della nuova Città della salute». Se ne parla da 7 anni, in mezzo agli scandali delle tangenti alle Molinette. Soprattutto se farla a Torino o a Grugliasco. Il problema non è tanto il dove (al di là dei fondi che ritardano), ma il come. Il modello di Cota è quello di Don Verzé e del suo San Raffaele. E, in tema di sanità, c'è anche attenzione all'alleanza con l'Udc, che potrebbe condizionare le scelte. Sulla Fiat, cautela. No netto della Bresso al nucleare, Cota ondivago (sì all'atomo, ma non nel mio giardino). Vanno, invece, d'accordo sulla Torino-Lione.
Nei social network, il movimento valsusino discute: chi non vota, chi appoggia pezzi della sinistra, chi si oppone alla Lega e chi spinge per il movimento Cinque stelle, che dice no alla Tav. Davide Bono è il candidato a presidente: «Non ci sentiamo più rappresentati dai partiti dell'arco costituzionale. Bresso e Cota sono sullo stesso piano. Vogliamo cambiare la classe politica e il modello di sviluppo. Abbiamo formato una lista civica di non iscritti a partiti e incensurati, pensiamo che la sostenibilità non sia solo necessità ambientale ma anche economica e sociale, per posti di lavoro non precari».
La Bresso ce la farà, se Torino e la provincia terranno. E se la chiamata al fronte democratico antileghista funzionerà. Nel resto del Piemonte la sfida è forse persa. Interessante Vercelli, capire se influirà sul voto l'arresto per tangenti del presidente della provincia, Renzo Masoero (Pdl). Da ex distretto rosso è diventato feudo di Forza Italia e ora grancassa dell'entusiasmo leghista, dove il parlamentare Gianluca Buonanno ha scelto come slogan: «Bisogna mandare a casa chi non ci tutela e dà soldi agli zingari».
Da il manifesto del 21 marzo
TORINO - L'hanno soprannominata l'ultimo baluardo, altri invece un laboratorio. Mentre corrono per le vie di Torino le api-car con il faccione di Roberto Cota e sfreccia, lungo corso Vittorio, il pullman della Bresso con l'icona di una sorridente Mercedes, la città della Mole - in crisi e sonnacchiosa - si ritrova d'un tratto sotto i riflettori elettorali. Investita da ruoli e doveri. Pierluigi Bersani l'ha detto esplicitamente: «Il Piemonte è la priorità». Ecco perché chiuderà qui la campagna elettorale. È la sola grande regione del Nord che il centrosinistra può strappare al dominio del centrodestra. Poi, il discorso del laboratorio: l'alleanza tra il Pd e l'Udc, mal digerita dalla sinistra che ha comunque dato appoggio all'attuale presidente Bresso: la Federazione della sinistra con un accordo tecnico (programmi distinti: un posto dentro il listino, ma fuori dalla giunta) e Sinistra ecologia e libertà, un accordo pieno (programma condiviso, però fuori dal listino).
Si arriverà sul filo del rasoio. E proprio il popolo della sinistra, in bilico tra disillusione e paura dell'avanzata leghista con tutto il côté di razzismo annesso, potrebbe essere l'ago della bilancia. Ieri, la Bresso ha esclamato: «Fermeremo i "lumbard" sul Ticino. Non abbiamo niente contro i lombardi ma contro i 'lumbard' che sono tutta un'altra cosa». La «zarina» sembra in vantaggio, il suo staff è ottimista, ma gli ultimi sondaggi registrano solo un punto percentuale in più. Non così tanto da dormire sonni tranquilli. «Temo il non voto, soprattutto dei delusi di sinistra. Ma ci spero. Le prossime elezioni sono un sondaggio sulle condizioni della tenuta di democrazia in Italia. Se vincono i barbari sarà un duro colpo», commenta Diego Novelli, lo storico sindaco del Pci (1975-1985), che non ha appeso l'impegno al chiodo. Sta fuori dai partiti, non vuole essere preso per la giacchetta, ma giovedì scenderà in piazza per sostenere la Bresso, davanti al Carignano, dove è nato il primo parlamento italiano. Su facebook, il gruppo promotore «No Padania, questa Regione non la lega nessuno» ha raccolto in pochi giorni 5mila adesioni.
I due sfidanti principali (gli altri sono Davide Bono, medico di 29 anni portavoce del Movimento Cinque Stelle, e Renzo Rabellino, mago delle liste civetta, due cassate dal Tar: lista Cota e Lega Padana) hanno inaugurato il Ballarò itinerante di Floris. Con colpi ben poco di fioretto: la Bresso dà del «lumbard» a Cota che risponde con disprezzo chiamandola «francese». La territorialità è il primo punto nel programma del capogruppo alla Camera della Lega: «Chi arriva per ultimo, non può pretendere di passare per primo. Priorità ai cittadini nell'assegnazione di case popolari, asili e servizi». E, nei giorni scorsi, passeggiando con Mario Borghezio a Porta Palazzo, descritta come Tunisi, ha aggiunto: «Un buono a tutti i sedicenni piemontesi da 50 euro per i libri». E poi, strali contro la proposta del comune per gli asili aperti ai figli di immigrati irregolari.
L'emergenza in Piemonte è il lavoro. A settembre 2009 il tasso di disoccupazione è balzato al 6,5% rispetto al 4,8% dell'anno prima. La Bresso ha promesso nei primi cento giorni un fondo speciale da 15 milioni di euro per favorire i giovani talenti piemontesi alla ricerca di occupazione. Cota, un piano straordinario per la difesa e la creazione di opportunità lavorative. E ancora «la localizzazione della nuova Città della salute». Se ne parla da 7 anni, in mezzo agli scandali delle tangenti alle Molinette. Soprattutto se farla a Torino o a Grugliasco. Il problema non è tanto il dove (al di là dei fondi che ritardano), ma il come. Il modello di Cota è quello di Don Verzé e del suo San Raffaele. E, in tema di sanità, c'è anche attenzione all'alleanza con l'Udc, che potrebbe condizionare le scelte. Sulla Fiat, cautela. No netto della Bresso al nucleare, Cota ondivago (sì all'atomo, ma non nel mio giardino). Vanno, invece, d'accordo sulla Torino-Lione.
Nei social network, il movimento valsusino discute: chi non vota, chi appoggia pezzi della sinistra, chi si oppone alla Lega e chi spinge per il movimento Cinque stelle, che dice no alla Tav. Davide Bono è il candidato a presidente: «Non ci sentiamo più rappresentati dai partiti dell'arco costituzionale. Bresso e Cota sono sullo stesso piano. Vogliamo cambiare la classe politica e il modello di sviluppo. Abbiamo formato una lista civica di non iscritti a partiti e incensurati, pensiamo che la sostenibilità non sia solo necessità ambientale ma anche economica e sociale, per posti di lavoro non precari».
La Bresso ce la farà, se Torino e la provincia terranno. E se la chiamata al fronte democratico antileghista funzionerà. Nel resto del Piemonte la sfida è forse persa. Interessante Vercelli, capire se influirà sul voto l'arresto per tangenti del presidente della provincia, Renzo Masoero (Pdl). Da ex distretto rosso è diventato feudo di Forza Italia e ora grancassa dell'entusiasmo leghista, dove il parlamentare Gianluca Buonanno ha scelto come slogan: «Bisogna mandare a casa chi non ci tutela e dà soldi agli zingari».
Da il manifesto del 21 marzo
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giovedì 18 marzo 2010
Trenitalia, per molti ma non per tutti. Mai per le persone disabili
Con l'Alta velocità cambiano le regole sui treni di linea: diventano off-limits le carrozzine dei portatori di handicap. La storia di Riccardo
Prendi l'alta velocità e hai l'assistenza assicurata, ma il Frecciarossa costa caro e ferma solo nelle grandi città. Se prendi invece un treno di linea, magari il Torino-Milano, rischi che Trenitalia ti lasci a piedi: te e la tua carrozzina. O al massimo, un addetto ti può accompagnare fino al convoglio e poi te la devi cavare da solo. Un tempo non era così: «C'è stata un'involuzione progressiva», racconta Riccardo Corsano, 34 anni, di Novara, che l'ha patita sulla sua pelle. «La mia sarà una piccola storia ma è l'anello di un sistema, di una discriminazione che aumenta. E ho capito che bisogna dire basta e smetterla di stare zitti».
Il treno per Milano è partito e se n'è andato senza di lui. Non c'era posto, non c'era spazio per i disabili e non c'era nessuno che potesse aiutarlo: servizi diminuiti e treni non conformi. «Mi costringono ad essere un peso, ad essere quello che non sono», si sfoga Riccardo che lavora all'Ufficio relazioni con il pubblico dell'Ospedale Maggiore di Novara. Non camminando dalla nascita è costretto a servirsi di una sedia a rotelle. «Due settimane fa ero in servizio e ho chiesto a mia mamma di andare in stazione per prenotare un viaggio andata e ritorno per Milano, volevo andare a vedere qualche mostra d'arte. Se sei disabile devi prenotare il treno almeno due giorni prima, una delle tante privazioni alla libertà di circolazione». E allo sportello qual è stata la risposta?: «Trenitalia non effettua più nessun servizio per i clienti disabili sulla tratta Torino-Milano, a eccezione di coloro che possono camminare quel tanto che basta per raggiungere i sedili all'interno, anche perché nella maggioranza dei casi le sedie a rotelle sono più larghe della porta degli scompartimenti».
Riccardo parla pacatamente, ma in modo fermo, rompe lo steccato del silenzio: «Questa volta ho preso carta e penna, ho voluto raccontare la mia situazione, che è uguale a quella di tanti altri, per smuovere le coscienze. Sono pronto a intraprendere pure un'azione legale». Continua il racconto: «Fino allo scorso anno si poteva viaggiare ma su treni decisi dall'azienda, ovvero quelli dotati di attrezzatura per accedervi. Ma molte vetture, come ho saputo dagli stessi impiegati, non hanno superato i controlli previsti dalle norme europee. Prima, invece, viaggiavo tra uno scompartimento e l'altro, come un cittadino di serie C, però almeno potevo muovermi. Ora Trenitalia obbliga i clienti disabili a viaggiare solo quando e come decide l'azienda. E talvolta, vedi il mio caso, impedisce del tutto di usufruire del servizio».
Abbiamo, allora, provato a chiamare l'assistenza clienti di Torino, la risposta è stata: «Da Torino non c'è problema se si prende l'alta velocità (a Novara non ferma, ndr), se si usufruisce invece della tratta normale c'è solo un treno attrezzato, quello delle 21,50. Noi possiamo aiutare il cliente a salire sul treno, ma oltre non possiamo prenderci la responsabilità».
Per Riccardo la carrozzina, per quanto sofferta e penalizzante, è un osservatorio privilegiato per vedere i problemi. Perché ti arrivano in faccia. «Ma gli occhi della gente sono sempre più chiusi. Si sente spesso parlare di diritti dei disabili, l'Italia ha recepito la Convenzione Onu e il governo ha sottoscritto i provvedimenti dell'Ue sulla libera circolazione delle persone disabili». Anche Trenitalia ha un regolamento per l'assistenza, visibile sul sito. «Ma nella realtà, lo noto nella vita di tutti i giorni quando al bar i bagni per i disabili sono usati come ripostiglio, stiamo regredendo. E se non posso nemmeno prendere il treno come posso essere autonomo, avere amici, una relazione o stare da solo?» Ecco: «Come posso non essere considerato diverso?».
Da il manifesto del 18 marzo
Prendi l'alta velocità e hai l'assistenza assicurata, ma il Frecciarossa costa caro e ferma solo nelle grandi città. Se prendi invece un treno di linea, magari il Torino-Milano, rischi che Trenitalia ti lasci a piedi: te e la tua carrozzina. O al massimo, un addetto ti può accompagnare fino al convoglio e poi te la devi cavare da solo. Un tempo non era così: «C'è stata un'involuzione progressiva», racconta Riccardo Corsano, 34 anni, di Novara, che l'ha patita sulla sua pelle. «La mia sarà una piccola storia ma è l'anello di un sistema, di una discriminazione che aumenta. E ho capito che bisogna dire basta e smetterla di stare zitti».
Il treno per Milano è partito e se n'è andato senza di lui. Non c'era posto, non c'era spazio per i disabili e non c'era nessuno che potesse aiutarlo: servizi diminuiti e treni non conformi. «Mi costringono ad essere un peso, ad essere quello che non sono», si sfoga Riccardo che lavora all'Ufficio relazioni con il pubblico dell'Ospedale Maggiore di Novara. Non camminando dalla nascita è costretto a servirsi di una sedia a rotelle. «Due settimane fa ero in servizio e ho chiesto a mia mamma di andare in stazione per prenotare un viaggio andata e ritorno per Milano, volevo andare a vedere qualche mostra d'arte. Se sei disabile devi prenotare il treno almeno due giorni prima, una delle tante privazioni alla libertà di circolazione». E allo sportello qual è stata la risposta?: «Trenitalia non effettua più nessun servizio per i clienti disabili sulla tratta Torino-Milano, a eccezione di coloro che possono camminare quel tanto che basta per raggiungere i sedili all'interno, anche perché nella maggioranza dei casi le sedie a rotelle sono più larghe della porta degli scompartimenti».
Riccardo parla pacatamente, ma in modo fermo, rompe lo steccato del silenzio: «Questa volta ho preso carta e penna, ho voluto raccontare la mia situazione, che è uguale a quella di tanti altri, per smuovere le coscienze. Sono pronto a intraprendere pure un'azione legale». Continua il racconto: «Fino allo scorso anno si poteva viaggiare ma su treni decisi dall'azienda, ovvero quelli dotati di attrezzatura per accedervi. Ma molte vetture, come ho saputo dagli stessi impiegati, non hanno superato i controlli previsti dalle norme europee. Prima, invece, viaggiavo tra uno scompartimento e l'altro, come un cittadino di serie C, però almeno potevo muovermi. Ora Trenitalia obbliga i clienti disabili a viaggiare solo quando e come decide l'azienda. E talvolta, vedi il mio caso, impedisce del tutto di usufruire del servizio».
Abbiamo, allora, provato a chiamare l'assistenza clienti di Torino, la risposta è stata: «Da Torino non c'è problema se si prende l'alta velocità (a Novara non ferma, ndr), se si usufruisce invece della tratta normale c'è solo un treno attrezzato, quello delle 21,50. Noi possiamo aiutare il cliente a salire sul treno, ma oltre non possiamo prenderci la responsabilità».
Per Riccardo la carrozzina, per quanto sofferta e penalizzante, è un osservatorio privilegiato per vedere i problemi. Perché ti arrivano in faccia. «Ma gli occhi della gente sono sempre più chiusi. Si sente spesso parlare di diritti dei disabili, l'Italia ha recepito la Convenzione Onu e il governo ha sottoscritto i provvedimenti dell'Ue sulla libera circolazione delle persone disabili». Anche Trenitalia ha un regolamento per l'assistenza, visibile sul sito. «Ma nella realtà, lo noto nella vita di tutti i giorni quando al bar i bagni per i disabili sono usati come ripostiglio, stiamo regredendo. E se non posso nemmeno prendere il treno come posso essere autonomo, avere amici, una relazione o stare da solo?» Ecco: «Come posso non essere considerato diverso?».
Da il manifesto del 18 marzo
sabato 13 marzo 2010
«A Torino asili aperti ai clandestini»
Il sindaco Chiamparino dopo la sentenza della Corte: «Noi non torniamo indietro»
TORINO - Se la Cassazione fa marcia indietro, Torino non farà un dietrofront. «Il progetto di asili aperti ai figli degli immigrati senza permesso di soggiorno va avanti». Lo afferma il sindaco Sergio Chiamparino e lo ribadisce l'assessore all'istruzione Beppe Borgogno. Nonostante il decreto Maroni e nonostante la sentenza della Corte. «Anche se - precisa subito l'assessore - non c'entra nulla con la nostra iniziativa. E non ci faremo trascinare nella polemica».
Il giorno prima della sentenza ci aveva provato Mario Carossa, capogruppo del Carroccio in Comune, tuonando contro la possibilità data ai figli di irregolari di iscriversi alla materna: «Non possiamo più tollerare che siano sempre privilegiati gli altri e che i piemontesi siano sempre al fondo». Borgogno quasi stupito: «La Lega se ne accorge solo ora, capisco che siamo in campagna elettorale, ma è da luglio che denunciamo l'incoerenza di una norma del pacchetto Maroni, che consente ai figli di cittadini irregolari di essere iscritti alla scuola dell'obbligo ma non alla materna. Ci siamo mossi contro una discriminazione». Fa una pausa e dice: «Non posso proprio pensare che per combattere la clandestinità si debba impedire a bimbi dai 3 ai 6 anni di andare a scuola».
Quando lo raggiungiamo al telefono, Borgogno è in macchina, il sole è quasi calato e nel cielo di Torino non c'è più la neve dei giorni scorsi. Il teatrino dei commenti si è scatenato da un pezzo e dall'altro capo della cornetta l'assessore non riesce a trattenere il disappunto: «Si sta facendo solo confusione. La sentenza e il progetto sono due cose distinte, quello che è successo non sposta una virgola». Non la pensa così il coordinatore del Pdl piemontese, Enzo Ghigo: «Il Comune deve tenere in considerazione la sentenza e attivarsi affinché siano tutelati i diritti dei minori ma anche la legalità». Sulla retromarcia della Corte il parere di Borgogno è istituzionale: «Le sentenze non si commentano, si applicano». Ma il tono non cela l'insoddisfazione.
L'intento del progetto torinese l'aveva spiegato qualche ora prima il sindaco Chiamparino: «Abbiamo esteso alle materne quello che è già previsto per tutta la scuola dell'obbligo, ossia che i funzionari scolastici non sono tenuti a denunciare genitori clandestini. E una norma di buon senso, che scatterà con le prossime iscrizioni. Prendiamo il caso di due fratelli, figli di irregolari, uno di 6 e l'altro di 5 anni: mi sembra ridicolo che il primo possa andare tranquillamente alla prima elementare, e l'altro sia trattato come un elemento socialmente pericoloso. E che dire poi di tutti gli irregolari che sono in attesa di permesso di soggiorno?». Ottomila solo a Torino.
Sono otto mesi che il Comune, con tanto di carta e penna, prova a comunicare al governo la volontà di non fare discriminazioni. Di ammettere tutti a scuola. «Abbiamo deciso - afferma Borgogno - di mettere in primo piano il diritto dei più piccoli ad avere una famiglia e un percorso educativo». Un diritto che viene messo a rischio dal pacchetto Maroni: «La denuncia del nucleo familiare è in contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, con la Costituzione e con il diritto dei bambini ad avere dei genitori». Niente di improvvisato: «Ci siamo consultati con giuristi. Se il decreto permette l'iscrizione alla scuola dell'obbligo, noi vogliamo estenderla ai cicli scolastici che lo Stato e il Comune sono obbligati a fornire, materna compresa».
Ma alla proposta il governo ha fatto orecchie da mercante, zero risposte: «Noi siamo andati avanti comunque e abbiamo completato le prescrizioni». Sui numeri c'è il più stretto riserbo. «Non sono molti». E sono in calo rispetto agli anni scorsi. Vince, quindi, la paura di essere denunciati come clandestini.
Da il manifesto del 12 marzo
Sullo stesso numero: Cassazione senza pietà di Giorgio Salvetti
TORINO - Se la Cassazione fa marcia indietro, Torino non farà un dietrofront. «Il progetto di asili aperti ai figli degli immigrati senza permesso di soggiorno va avanti». Lo afferma il sindaco Sergio Chiamparino e lo ribadisce l'assessore all'istruzione Beppe Borgogno. Nonostante il decreto Maroni e nonostante la sentenza della Corte. «Anche se - precisa subito l'assessore - non c'entra nulla con la nostra iniziativa. E non ci faremo trascinare nella polemica».
Il giorno prima della sentenza ci aveva provato Mario Carossa, capogruppo del Carroccio in Comune, tuonando contro la possibilità data ai figli di irregolari di iscriversi alla materna: «Non possiamo più tollerare che siano sempre privilegiati gli altri e che i piemontesi siano sempre al fondo». Borgogno quasi stupito: «La Lega se ne accorge solo ora, capisco che siamo in campagna elettorale, ma è da luglio che denunciamo l'incoerenza di una norma del pacchetto Maroni, che consente ai figli di cittadini irregolari di essere iscritti alla scuola dell'obbligo ma non alla materna. Ci siamo mossi contro una discriminazione». Fa una pausa e dice: «Non posso proprio pensare che per combattere la clandestinità si debba impedire a bimbi dai 3 ai 6 anni di andare a scuola».
Quando lo raggiungiamo al telefono, Borgogno è in macchina, il sole è quasi calato e nel cielo di Torino non c'è più la neve dei giorni scorsi. Il teatrino dei commenti si è scatenato da un pezzo e dall'altro capo della cornetta l'assessore non riesce a trattenere il disappunto: «Si sta facendo solo confusione. La sentenza e il progetto sono due cose distinte, quello che è successo non sposta una virgola». Non la pensa così il coordinatore del Pdl piemontese, Enzo Ghigo: «Il Comune deve tenere in considerazione la sentenza e attivarsi affinché siano tutelati i diritti dei minori ma anche la legalità». Sulla retromarcia della Corte il parere di Borgogno è istituzionale: «Le sentenze non si commentano, si applicano». Ma il tono non cela l'insoddisfazione.
L'intento del progetto torinese l'aveva spiegato qualche ora prima il sindaco Chiamparino: «Abbiamo esteso alle materne quello che è già previsto per tutta la scuola dell'obbligo, ossia che i funzionari scolastici non sono tenuti a denunciare genitori clandestini. E una norma di buon senso, che scatterà con le prossime iscrizioni. Prendiamo il caso di due fratelli, figli di irregolari, uno di 6 e l'altro di 5 anni: mi sembra ridicolo che il primo possa andare tranquillamente alla prima elementare, e l'altro sia trattato come un elemento socialmente pericoloso. E che dire poi di tutti gli irregolari che sono in attesa di permesso di soggiorno?». Ottomila solo a Torino.
Sono otto mesi che il Comune, con tanto di carta e penna, prova a comunicare al governo la volontà di non fare discriminazioni. Di ammettere tutti a scuola. «Abbiamo deciso - afferma Borgogno - di mettere in primo piano il diritto dei più piccoli ad avere una famiglia e un percorso educativo». Un diritto che viene messo a rischio dal pacchetto Maroni: «La denuncia del nucleo familiare è in contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, con la Costituzione e con il diritto dei bambini ad avere dei genitori». Niente di improvvisato: «Ci siamo consultati con giuristi. Se il decreto permette l'iscrizione alla scuola dell'obbligo, noi vogliamo estenderla ai cicli scolastici che lo Stato e il Comune sono obbligati a fornire, materna compresa».
Ma alla proposta il governo ha fatto orecchie da mercante, zero risposte: «Noi siamo andati avanti comunque e abbiamo completato le prescrizioni». Sui numeri c'è il più stretto riserbo. «Non sono molti». E sono in calo rispetto agli anni scorsi. Vince, quindi, la paura di essere denunciati come clandestini.
Da il manifesto del 12 marzo
Sullo stesso numero: Cassazione senza pietà di Giorgio Salvetti
giovedì 11 marzo 2010
Valledora: una storia di resistenza
Trecento chilometri quadrati di pianura padana tra le province di Vercelli, Biella e Torino, tra le risaie e il lago di Viverone, fino alle propaggini della Serra di Ivrea. Un territorio di confine, che ospita i depositi di scorie nucleari di Saluggia e Trino, le centrali termoelettriche di Livorno Ferraris e Chivasso, le cave di Tronzano, la linea ad Alta velocità Milano-Torino e le discariche di Cavaglià e Alice Castello. In questo comune sono stoccati due milioni e cinquecentomila metri cubi di rifiuti. E di siti ce ne sono addirittura tre. Il più recente doveva essere una bonifica dei precedenti, ma si è trasformato in una nuova discarica, più grande delle altre due messe insieme: un milione e duecentomila metri cubi. Una concentrazione di impianti inquinanti forse unica in Italia.
Che le cose stavano cambiando si capiva già a inizio anni '90, ma prima che si formasse una coscienza collettiva su quello che stava accadendo di anni ne sono passati ancora. Col tempo sono nati comitati operativi nei paesi della zona. Mancava solo un’unità d’azione. Così il 7 novembre 2007 si sono riuniti in un’unica sigla: Movimento Valledora. Un nome per dare seguito a una critica condivisa, un modo per dire che i problemi non sono singole realtà a sé, ma fanno parte di una più ampia problematica. «Siamo come Don Chisciotte e stiamo lottando contro un nemico invisibile, che ci arriva da ogni parte. La cattiva pianificazione territoriale», spiega Anna Andorno, portavoce del Movimento.
Quel giorno di novembre si incontrarono i comitati di Livorno Ferraris (con la lotta contro l’inceneritore ne è stato l’ispiratore), Borgo d’Ale, Alice Castello, Cavaglià, Tronzano e Santhià, dove si era costituito un gruppo di donne. Si trovarono per firmare una carta d’intenti. In seguito si aggiunsero quelli di Viverone e Moncrivello. Finalmente si partiva, parola d’ordine: «Salvare ciò che resta del nostro territorio e delle nostre storie». L’inizio, darsi un metodo e coordinarsi, non è stato facile. «Ma siamo cresciuti – racconta Anna Andorno -, abbiamo acquisito competenze. Ci battiamo perché si riprenda a
lottare per avere dignità e rispetto. Sembrerebbe un obiettivo timido, invece, è il primo passo verso qualcosa di rivoluzionario. Amare il proprio territorio non significa avere una senso protettivo o esclusivo nei suoi confronti, si tratta di ragionare in modo civico, di muoversi in una dimensione sociale, di non restare indifferenti ai problemi e di trattarli con partecipazione viva. Per fare questo abbiamo dovuto studiare, ricercare, informarci, chiedere consulenze, trattare con la diffidenza del potere politico».
La loro zona la raccontano come un territorio di confine “da colonizzare”. Non sanno dove mettere un impianto inquinante? Allora, lo piazzano qui ai confini tra le province, sperando di non avere troppe noie dagli abitanti. Ma c’è chi non ci sta: «Facciamo informazione – spiega ancora Andorno - verso la popolazione, le scuole, i gruppi. Da qui, l’idea di un documentario. Cercavamo un mezzo per arrivare al maggior numero di persone possibile, ci siamo autotassati e abbiamo affidato l’incarico al regista più bravo della zona, Matteo Bellizzi (autore di “Sorriso amaro”, ndr)». Un lavoro duro, 35 ore di ripresa. «Abbiamo trascinato Matteo ai convegni, ai tour sulle discariche, ai dibattiti nelle piazze, nelle cascine per intervistare i contadini locali». Poi la suspense del montaggio e la nascita di “Valledora. La terra del rifiuto”. «Un film bellissimo, vero, caldo. Il nostro problema è riassunto in 63 minuti e c’è proprio tutto. Matteo ha creato i personaggi e finalmente Valledora ha la sua storia».
In questi oltre due anni di lavoro il Movimento Valledora è diventata una presenza costante e “fastidiosa” sul territorio, con interventi puntuali ogni volta che si è prospettata l’apertura di un nuovo impianto potenzialmente inquinante. «Per ogni richiesta di apertura di cave, discariche o impianti richiediamo il progetto, informiamo la popolazione attraverso serate e volantinaggi, presentiamo osservazioni e tentiamo di incontrare le istituzioni». Una procedura che gli attivisti ripetono anche ad ogni nuova legge regionale o iniziativa provinciale che viene avanzata. E i primi segnali di ascolto da parte delle istituzioni sono arrivati. Il sindaco di Moncrivello (Vercelli) ha votato una mozione contro l’apertura di nuove cave sul territorio, anche se la ditta interessata ha comunque presentato una pratica di autorizzazione. Inoltre, la Regione Piemonte, anche sull’onda delle richieste del Movimento, ha commissionato il documento “Ipotesi di Piano strategico della Valledora”, che racconta lo scempio perpetrato a danno delle popolazioni locali e di quest’area in cui crescono i rischi per la salute se si considera la presenza delle falde acquifere e il pericolo che vengano inquinate dalle sostanze che si depositano nel sottosuolo.
E poi le azioni legali, difficili da portare avanti autonomamente perché costose. «Lavoriamo per i ricorsi al Tar con gli avvocati di Legambiente, Pro Natura e Lipu. Attualmente è in corso un’indagine della magistratura su un nostro esposto per un presunto danno ambientale provocato da una cava. In passato invece abbiamo vinto contro la provincia di Biella il ricorso sul Bioreattore di Cavaglià e abbiamo ottenuto un’ispezione della provincia di Vercelli alla discarica Ciorlucca di Alice Castello, dove sono state rilevate irregolarità”.
Un’attenzione allargata verso tutto ciò che può essere uso improprio del territorio e al tempo stesso risposta all’eccessivo consumo, a partire dalla più semplice delle azioni, come la raccolta differenziata. Anche per questo il Movimento Valledora ha aderito al Manifesto nazionale di “Stop al consumo del territorio”, un’iniziativa portata avanti da diversi comuni e associazioni italiane per sensibilizzare cittadinanza e istituzioni contro l’irrefrenabile marcia del cemento e lo sfruttamento incondizionato del paesaggio. In questo senso, ad esempio, a fronte della futura costruzione di tre nuove discariche nel comune di Livorno Ferraris il Movimento ha lanciato una petizione per l’impianto di 20mila alberi al posto di una discarica. «Siamo folli... – sorride Anna Andorno – Ma la nostra unica speranza è la coscienza dei cittadini. Che si risvegli e poi... nessuno ci fermerà».
Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
da Cenerentola di febbraio
Che le cose stavano cambiando si capiva già a inizio anni '90, ma prima che si formasse una coscienza collettiva su quello che stava accadendo di anni ne sono passati ancora. Col tempo sono nati comitati operativi nei paesi della zona. Mancava solo un’unità d’azione. Così il 7 novembre 2007 si sono riuniti in un’unica sigla: Movimento Valledora. Un nome per dare seguito a una critica condivisa, un modo per dire che i problemi non sono singole realtà a sé, ma fanno parte di una più ampia problematica. «Siamo come Don Chisciotte e stiamo lottando contro un nemico invisibile, che ci arriva da ogni parte. La cattiva pianificazione territoriale», spiega Anna Andorno, portavoce del Movimento.
Quel giorno di novembre si incontrarono i comitati di Livorno Ferraris (con la lotta contro l’inceneritore ne è stato l’ispiratore), Borgo d’Ale, Alice Castello, Cavaglià, Tronzano e Santhià, dove si era costituito un gruppo di donne. Si trovarono per firmare una carta d’intenti. In seguito si aggiunsero quelli di Viverone e Moncrivello. Finalmente si partiva, parola d’ordine: «Salvare ciò che resta del nostro territorio e delle nostre storie». L’inizio, darsi un metodo e coordinarsi, non è stato facile. «Ma siamo cresciuti – racconta Anna Andorno -, abbiamo acquisito competenze. Ci battiamo perché si riprenda a
lottare per avere dignità e rispetto. Sembrerebbe un obiettivo timido, invece, è il primo passo verso qualcosa di rivoluzionario. Amare il proprio territorio non significa avere una senso protettivo o esclusivo nei suoi confronti, si tratta di ragionare in modo civico, di muoversi in una dimensione sociale, di non restare indifferenti ai problemi e di trattarli con partecipazione viva. Per fare questo abbiamo dovuto studiare, ricercare, informarci, chiedere consulenze, trattare con la diffidenza del potere politico».
La loro zona la raccontano come un territorio di confine “da colonizzare”. Non sanno dove mettere un impianto inquinante? Allora, lo piazzano qui ai confini tra le province, sperando di non avere troppe noie dagli abitanti. Ma c’è chi non ci sta: «Facciamo informazione – spiega ancora Andorno - verso la popolazione, le scuole, i gruppi. Da qui, l’idea di un documentario. Cercavamo un mezzo per arrivare al maggior numero di persone possibile, ci siamo autotassati e abbiamo affidato l’incarico al regista più bravo della zona, Matteo Bellizzi (autore di “Sorriso amaro”, ndr)». Un lavoro duro, 35 ore di ripresa. «Abbiamo trascinato Matteo ai convegni, ai tour sulle discariche, ai dibattiti nelle piazze, nelle cascine per intervistare i contadini locali». Poi la suspense del montaggio e la nascita di “Valledora. La terra del rifiuto”. «Un film bellissimo, vero, caldo. Il nostro problema è riassunto in 63 minuti e c’è proprio tutto. Matteo ha creato i personaggi e finalmente Valledora ha la sua storia».
In questi oltre due anni di lavoro il Movimento Valledora è diventata una presenza costante e “fastidiosa” sul territorio, con interventi puntuali ogni volta che si è prospettata l’apertura di un nuovo impianto potenzialmente inquinante. «Per ogni richiesta di apertura di cave, discariche o impianti richiediamo il progetto, informiamo la popolazione attraverso serate e volantinaggi, presentiamo osservazioni e tentiamo di incontrare le istituzioni». Una procedura che gli attivisti ripetono anche ad ogni nuova legge regionale o iniziativa provinciale che viene avanzata. E i primi segnali di ascolto da parte delle istituzioni sono arrivati. Il sindaco di Moncrivello (Vercelli) ha votato una mozione contro l’apertura di nuove cave sul territorio, anche se la ditta interessata ha comunque presentato una pratica di autorizzazione. Inoltre, la Regione Piemonte, anche sull’onda delle richieste del Movimento, ha commissionato il documento “Ipotesi di Piano strategico della Valledora”, che racconta lo scempio perpetrato a danno delle popolazioni locali e di quest’area in cui crescono i rischi per la salute se si considera la presenza delle falde acquifere e il pericolo che vengano inquinate dalle sostanze che si depositano nel sottosuolo.
E poi le azioni legali, difficili da portare avanti autonomamente perché costose. «Lavoriamo per i ricorsi al Tar con gli avvocati di Legambiente, Pro Natura e Lipu. Attualmente è in corso un’indagine della magistratura su un nostro esposto per un presunto danno ambientale provocato da una cava. In passato invece abbiamo vinto contro la provincia di Biella il ricorso sul Bioreattore di Cavaglià e abbiamo ottenuto un’ispezione della provincia di Vercelli alla discarica Ciorlucca di Alice Castello, dove sono state rilevate irregolarità”.
Un’attenzione allargata verso tutto ciò che può essere uso improprio del territorio e al tempo stesso risposta all’eccessivo consumo, a partire dalla più semplice delle azioni, come la raccolta differenziata. Anche per questo il Movimento Valledora ha aderito al Manifesto nazionale di “Stop al consumo del territorio”, un’iniziativa portata avanti da diversi comuni e associazioni italiane per sensibilizzare cittadinanza e istituzioni contro l’irrefrenabile marcia del cemento e lo sfruttamento incondizionato del paesaggio. In questo senso, ad esempio, a fronte della futura costruzione di tre nuove discariche nel comune di Livorno Ferraris il Movimento ha lanciato una petizione per l’impianto di 20mila alberi al posto di una discarica. «Siamo folli... – sorride Anna Andorno – Ma la nostra unica speranza è la coscienza dei cittadini. Che si risvegli e poi... nessuno ci fermerà».
Ilaria Leccardi e Mauro Ravarino
da Cenerentola di febbraio
giovedì 4 marzo 2010
La Fiom di Torino: «Democrazia, non siamo minoranza»
Airaudo e Rinaldini ribadiscono le ragioni della mozione Due. E fanno i conti con la crisi
La sfida è la democrazia. All'interno dell'organizzazione. Come fuori, a difesa della Costituzione e dei diritti dei lavoratori. Democrazia è stato uno dei termini più ricorrenti negli interventi al congresso provinciale della Fiom di Torino. «L'unità è un bene prezioso ma vive solo nell'affermazione di una democrazia interna», ha detto il segretario generale Gianni Rinaldini, denunciando come la seconda mozione al Congresso Cgil sia stata presentata solo nel 50% delle assemblee. E il segretario torinese Giorgio Airaudo ha precisato: «A chi ci vuole identificare come una mozione, noi ribadiamo che siamo una categoria della Cgil, i metalmeccanici non possono essere considerati minoranza».
Per Airaudo non è un appuntamento come un altro. Dopo 8 anni finisce il suo mandato (in futuro, la segreteria regionale o nazionale). Anni intensi raccontati con commozione davanti alla platea. Con la gratitudine «di aver ricoperto il ruolo di segretario a Torino, uno degli incarichi più alti per un sindacalista». Il pregio della contaminazione nel movimento: «Sotto la Mole sarebbe meglio l'auto elettrica della Tav». E un cruccio: il rimorso della Thyssen. Sotto la sua segreteria la categoria è cresciuta: 19600 iscritti, la più numerosa d'Italia.
L'ultimo anno è stato quello della crisi con presidi in 35 aziende: «Ma il 2010 sarà peggiore e molte imprese stanno avviando ristrutturazioni al buio. Vedrete che gli esuberi saranno nell'ordine del 30%». E la Fiat di Marchionne: «Guarda più agli Usa che al nostro paese e vuole scaricare sui lavoratori i costi della permanenza in Italia (più ore e meno salario)». Nel torinese, le emergenze «ex Iveco e Cnh di San Mauro, che hanno quasi esaurito la cassa. A Mirafiori, invece, ce ne sarà di più».
L'accordo separato di Cisl e Uil sui contratti rimane una ferita aperta. Lo hanno sottolineato sia Airaudo che Rinaldini. «Un punto di non ritorno, se ne esce solo con regole democratiche». Per Rinaldini «il sindacato è in crisi e il confronto può solo ripartire da un ragionamento sulla riunificazione dei diversi rapporti di lavoro: basta parasubordinati e interinali».
Ma mentre la Fiom si prepara a raccogliere le firme per la proposta di legge di iniziativa popolare sulla rappresentanza (delegati in ogni azienda), il governo torna all'attacco: «Si inventa - afferma Rinaldini - nuovi contratti interinali (il lavoro a chiamata e l'affitto a tempo indeterminato) e poi attacca di nuovo l'articolo 18». Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele, è stato ospite del congresso: «Io c'ero il 23 marzo 2002 a difendere un diritto fondamentale. Ora dico che non basta l'indignazione, serve il disgusto. Siamo di fronte a una crisi totale, etica e politica». E Rinaldini: «Lo sciopero del 12 marzo dovrà essere come una vertenza nazionale». Infine il leader Fiom chiede che «il governo convochi un tavolo con Fiat e sindacati prima del 21 aprile», data in cui il Lingotto dovrebbe illustrare il piano industriale.
Da il manifesto del 4 marzo
La sfida è la democrazia. All'interno dell'organizzazione. Come fuori, a difesa della Costituzione e dei diritti dei lavoratori. Democrazia è stato uno dei termini più ricorrenti negli interventi al congresso provinciale della Fiom di Torino. «L'unità è un bene prezioso ma vive solo nell'affermazione di una democrazia interna», ha detto il segretario generale Gianni Rinaldini, denunciando come la seconda mozione al Congresso Cgil sia stata presentata solo nel 50% delle assemblee. E il segretario torinese Giorgio Airaudo ha precisato: «A chi ci vuole identificare come una mozione, noi ribadiamo che siamo una categoria della Cgil, i metalmeccanici non possono essere considerati minoranza».
Per Airaudo non è un appuntamento come un altro. Dopo 8 anni finisce il suo mandato (in futuro, la segreteria regionale o nazionale). Anni intensi raccontati con commozione davanti alla platea. Con la gratitudine «di aver ricoperto il ruolo di segretario a Torino, uno degli incarichi più alti per un sindacalista». Il pregio della contaminazione nel movimento: «Sotto la Mole sarebbe meglio l'auto elettrica della Tav». E un cruccio: il rimorso della Thyssen. Sotto la sua segreteria la categoria è cresciuta: 19600 iscritti, la più numerosa d'Italia.
L'ultimo anno è stato quello della crisi con presidi in 35 aziende: «Ma il 2010 sarà peggiore e molte imprese stanno avviando ristrutturazioni al buio. Vedrete che gli esuberi saranno nell'ordine del 30%». E la Fiat di Marchionne: «Guarda più agli Usa che al nostro paese e vuole scaricare sui lavoratori i costi della permanenza in Italia (più ore e meno salario)». Nel torinese, le emergenze «ex Iveco e Cnh di San Mauro, che hanno quasi esaurito la cassa. A Mirafiori, invece, ce ne sarà di più».
L'accordo separato di Cisl e Uil sui contratti rimane una ferita aperta. Lo hanno sottolineato sia Airaudo che Rinaldini. «Un punto di non ritorno, se ne esce solo con regole democratiche». Per Rinaldini «il sindacato è in crisi e il confronto può solo ripartire da un ragionamento sulla riunificazione dei diversi rapporti di lavoro: basta parasubordinati e interinali».
Ma mentre la Fiom si prepara a raccogliere le firme per la proposta di legge di iniziativa popolare sulla rappresentanza (delegati in ogni azienda), il governo torna all'attacco: «Si inventa - afferma Rinaldini - nuovi contratti interinali (il lavoro a chiamata e l'affitto a tempo indeterminato) e poi attacca di nuovo l'articolo 18». Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele, è stato ospite del congresso: «Io c'ero il 23 marzo 2002 a difendere un diritto fondamentale. Ora dico che non basta l'indignazione, serve il disgusto. Siamo di fronte a una crisi totale, etica e politica». E Rinaldini: «Lo sciopero del 12 marzo dovrà essere come una vertenza nazionale». Infine il leader Fiom chiede che «il governo convochi un tavolo con Fiat e sindacati prima del 21 aprile», data in cui il Lingotto dovrebbe illustrare il piano industriale.
Da il manifesto del 4 marzo
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