TORINO - Andava tutto bene, era tutto in regola. «Non è vero che i reparti fossero pieni di olio e carta sparsa». È solo la parodia della realtà. Per chi fosse venuto ieri per la prima volta in Corte d'Assise, senza saper nulla del processo Thyssen, quello fatto da Cosimo Cafueri, responsabile della sicurezza all'epoca del rogo, sarà sembrato il ritratto di una fabbrica normale. Non quello di uno stabilimento che giocava a dadi col destino, come invece risulta dalle decine di testimonianze finora raccolte. Una fotografia che il primo dei sei imputati non accetta, anzi capovolge. Quasi stupito quando il procuratore Raffaele Guariniello gli chiede come facesse a gestire una situazione così: «Non ha mai pensato di dimettersi?». Cafueri fa una pausa: «Così, in che senso?». Guariniello, come se dovesse precisare qualcosa di scontato, risponde: «A rischio». Per il responsabile sicurezza «le condizioni di lavoro non erano tali da prevedere quello che è accaduto». E sul piano della sicurezza «la situazione non era diversa dagli anni precedenti».
Cafueri entrò in Thyssen nel 1974, a 18 anni, come operaio. Una carriera tutta interna la sua. Nel 1995 assume la responsabilità sulla sicurezza nello stabilimento di Torino e nel 1999 quella sull'impianto trattamento acque. Parla davanti a un'aula gremita e si difende dall'accusa di non avere segnalato ai vertici societari l'esigenza di adottare misure preventive contro gli incendi: «Non mi risultavano gravi carenze. A ottobre gli ispettori non riscontrarono anomalie». In verità, prescrissero misure di sicurezza che l'azienda non adottò. «Se tutto andava così bene - chiede il pm Francesca Traverso - perché il giorno dopo l'incendio chiamò una ditta esterna per sistemare gli estintori?». Il tentativo fu bloccato dagli agenti di polizia. «Telefonai solo per avere la documentazione richiesta dagli ispettori della Asl».
Secondo Cafueri, accusato di omicidio con colpa cosciente, seppure diminuissero progressivamente le professionalità, non c'erano problemi di sicurezza. E non era strano che Rocco Marzo, una delle vittime («un mio amico» ribadisce più volte l'imputato), un lavoratore esperto ma senza un corso antincendio alle spalle, fosse stato nominato qualche giorno prima capoturno addetto alle emergenze: «La gestione della formazione era totale responsabilità di chi gestiva il personale. Il mio compito era proporre programmi formativi». Un concetto che ci tiene a ripetere: le responsabilità erano d'altri. «Non avevo il compito di sorvegliare, né di gestire le pulizie». A Torino chi decideva era Raffaele Salerno, capo dello stabilimento, suo diretto superiore; sarà interrogato mercoledì prossimo. Successivamente verrà ascoltato l'amministratore delegato Harald Espenhahn, sul quale pende l'accusa più grave, omicidio volontario con dolo eventuale.
Sul disordine che regnava nell'azienda, per Cafueri, in aula sono state raccontate falsità. «Qualcuno ci ha messo del suo». Si sente un brusio tra i parenti delle vittime. «Non volevo eroi ma gente con la testa. E nell'ultimo periodo gli operai avevano la testa da altre parti». Precisiamo: avrebbero perso il lavoro da lì a poco. Infine, ancora un sassolino su uno dei nodi centrali del processo: «Il personale sapeva benissimo che avrebbe dovuto usare il pulsante di emergenza». Ammette, però, che il piano d'emergenza quella notte non abbia funzionato. Ma forse non era tutto imprevedibile come ce lo racconta.
Da il manifesto del 7 ottobre
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