Al processo Thyssen l'imputato principale ammette di aver dirottato i fondi per la sicurezza della linea 5 da Torino a Terni
TORINO - Le mani incrociate sulle ginocchia, la schiena dritta, lo sguardo sicuro. Harald Espenhahn, l'amministratore delegato della Thyssenkrupp imputato di omicidio volontario, si è sottoposto alle domande di pm e avvocati di parte civile. Assistito, come aveva richiesto la difesa, da un'interprete, che spesso si è trovata in difficoltà nella traduzione dal tedesco all'italiano. Espenhahn, da 7 anni in Italia, non ci ha pensato due volte prima di venirle in «soccorso» correggendola. Come quando dopo un errore su una cifra è intervenuto sottovoce in italiano. «Gli è scappata», penseranno i maligni.
Espenhahn non si è scomposto. Nemmeno ad ammettere che dall'inizio del 2007 non fossero più stati fatti investimenti nello stabilimento di corso Regina Margherita. Anche quelli già previsti. Dopo l'incendio nella fabbrica di Krefeld in Germania (giugno 2006), l'azienda pensò, infatti, di stanziare per Torino un milione e 500 mila euro di interventi infrastrutturali. «Bisognava ottenere il certificato di prevenzione incendi - ha spiegato Espenhahn - ed erano necessari interventi alle gallerie e alle porte tagliafuoco. Ma quando ho deciso di chiudere la sede (marzo 2007, ndr) quei fondi sono stati dirottati sul finanziamento di un secondo progetto, di due milioni e 300 mila euro, che riguardava anche l'impianto che sarebbe stato trasferito da Torino a Terni». Il riferimento è alla tristemente famosa linea 5, quella del rogo del 6 dicembre.
La domanda è: se si fosse investito sulla sicurezza si poteva impedire la strage? Secondo la pubblica accusa l'ad sarebbe stato al corrente dei problemi sulla linea 5 ma avrebbe deciso di posticipare i lavori di adeguamento dopo il trasferimento dell'impianto in Umbria. Espenhahn ha precisato: «Nulla fu posticipato». Secondo il suo legale Ezio Audisio, «gli interventi previsti con il milione e mezzo erano solo quelli sulle infrastrutture». Tradotto: non fu posticipato, bensì non fu mai fatto.
L'audizione è durata tre ore. Solo in un momento l'imputato è sembrato scomporsi. Più nella postura che nella dialettica. Agitato, invece, il collegio di difesa. È stato quando il pm Raffaele Guariniello ha mostrato il documento ritrovato nella borsa del dirigente tedesco un mese dopo la strage. Una sorta di «memorandum» in cui si scaricava la responsabilità sugli operai distratti, si descriveva Torino come culla delle Brigate rosse e si parlava di Guariniello come di un magistrato rognoso. «Lo ricevetti la mattina in cui mi fu sequestrato» ha detto l'ad. «Mi dissero che si trattava di un documento redatto dai dipendenti del reparto legale tedesco». Guariniello ha ribattuto: «Com'è possibile che sia stato scritto da dipendenti tedeschi quando contiene notizie precise sulla dinamica e le cause dell'incendio di Torino?». Risposta: «Le voleva la casa madre e le avevano raccolte». L'ultima domanda è di Guariniello: «Gli operai deceduti hanno fatto tutto quello che dovevano fare?». Espenhahn è cauto: «E' difficile dare una risposta». Nella mattinata è stato ascoltato anche Gerald Priegnitz, l'altro imputato tedesco, più vago: «Conoscevo il budget per l'antincendio ma non il suo uso e la sua destinazione».
Intanto, fuori dal Tribunale l'azienda si trova alle prese con la crisi economica. Il 16 ottobre ha inviato a 45 dipendenti della Rothe Erde di Visano (Brescia) le lettere di licenziamento con effetto immediato. «Uno strappo senza precedenti» lo considera il neonato coordinamento Fiom di Thyssen, che invita i lavoratori delle varie sedi del gruppo a convocare assemblee.
Da il manifesto del 5 novembre
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