TORINO - «Quella là è la Casa Bianca» dice Dario del Gabrio, indicandomi una scala di via Revello. Che strano, un’area di una palazzina occupata che si chiama come la residenza del presidente americano? Vai a vedere che i brutti e cattivi dei centri sociali si sono imborghesiti. Risposta errata. «L’hanno chiamata loro così». E il loro, sta per i ragazzi etiopi ed eritrei, che vivono in un’ala dell’ex clinica San Paolo, uno stabile occupato lo scorso ottobre da oltre duecento rifugiati politici o per motivi umanitari. Tutti scappati dalle guerre civili del Corno d’Africa. Quella parte dell’edificio l’hanno «intitolata» ad Obama. Non casualmente. E basta vedere i loro occhi che brillano, quando gli parli del nuovo inquilino dello Studio Ovale, per capirlo.
«Crediamo tantissimo in lui» racconta Melaku, 26 anni e tante treccine in testa. Martedì sera, quella degli scontri con la polizia in piazza Castello, lui c’era: «Manifestavamo per i nostri diritti: una casa, un lavoro, una residenza. Non possiamo più sopportare che ci vengano negati e sabato lo faremo di nuovo sentire». Oggi pomeriggio ci sarà, infatti, un presidio del Comitato di solidarietà davanti alla Prefettura contro il pacchetto sicurezza e le «leggi razziste» del governo. Melaku parla di una lotta per la libertà: «In Etiopia avevo studiato all’università, poi nel 2006 sono scappato. Ho fatto 20 giorni di deserto e mare, ho speso 6 mila dollari per venire in Italia. Per cosa? Per rischiare ogni volta uno sgombero?». E magari di essere malmenati da un agente, come è successo qualche sera fa.
C’è un senso di precarietà e disillusione che si propaga tra le stanze della palazzina. Molti vorrebbero andare via dall’Italia: alcuni per tornare in patria, tanti invece per andare altrove, in Svezia o in Inghilterra. Gemale, arriva dall’Eritrea, è seduto sul suo letto, racconta che segue dai media le lotte che stanno nascendo; ha parenti a Lampedusa con cui si sente regolarmente. Nella sua piccola camera arriva un amico: «Noi siamo legati a questo dito – dice, mostrandomi il pollice - perché quando ti prendono le impronte e diventi rifugiato, sei obbligato a rimanere in quel paese».
La rabbia e il dolore sembrano essere esplosi tutto d’un tratto: da Lampedusa a Massa, fino a Torino. Se ci sia «una regia» è difficile dirlo: un movimento trasversale sicuramente esiste. Non riguarderà tutti - la paura si sente (pure qui) - ma non sono fatti estemporanei. «Perché da una coscienza della sofferenza – spiega Massimiliano Orlandi volontario della San Vincenzo, in prima fila nell’aiuto dei profughi – nasce sempre una coscienza politica». E aggiunge: «A fronte di una richiesta di 30 mila rifugiati, l’Italia offre solo 3 mila posti d’accoglienza: una risposta assai insufficiente da parte del governo».
All’ex clinica San Paolo, c’è chi è sbarcato a Lampedusa o chi arriva da Caltanisetta, Crotone oppure Foggia. Come Daud Hassan Ali, 32 anni somalo, che non sta nella Casa Bianca, bensì nell’ala principale, più fatiscente. Tiene due bimbi per mano e tocca a lui parlare con i giornalisti nella conferenza stampa dopo i fatti di martedì: «Esiste una Convenzione firmata a Ginevra – afferma - che definisce lo status di rifugiato e ne garantisce i diritti, ma in Italia noi non siamo nessuno. Viviamo nella palazzina senza riscaldamento, luce e poco cibo. Siamo scappati dalla guerra per salvare bambini e famiglie e l’altra sera abbiamo capito che l'Italia non è il nostro secondo Paese». L’affermazione è secca e fa star male. Poi, a microfoni spenti, sottolinea: «Qui divento pazzo, preferirei quasi la guerra a questa vita. Abbiamo patito il gelo, non avevamo nemmeno l’acqua per lavarci, e da mesi aspettiamo che il Comune sblocchi la situazione. Niente. E siamo pure stati picchiati dalla polizia». Risponde, inoltre, a chi li accusa di essere strumentalizzati (il sindaco Chiamparino): «Siamo responsabili delle nostre vite, non c’è nessuno che parla per nostro conto». Il riferimento è ai ragazzi dei centri sociali Askatasuna e Gabrio: fanno parte del Comitato di solidarietà con i rifugiati e le rifugiate, che - insieme a quasi 30 associazioni di diversa provenienza (laiche o cattoliche) – sta aiutando gli occupati dell’ex clinica. Il Comitato nasce nel 2006, quando 40 profughi del Darfour si accamparono sotto Palazzo di Città; l’anno successivo ci fu l’occupazione di via Bologna e il 12 ottobre scorso l’ultima nell’ex clinica di corso Peschiera, angolo via Revello. All’inizio erano un centinaio: sudanesi, etiopi, eritrei e in particolare somali. «Molti – racconta Dario - li incontrammo lo scorso giugno durante la Giornata mondiale del rifugiato, non sopportavano più le condizioni in cui vivevano. E la decisione di occupare è partita da loro». Le condizioni dello stabile, abbandonato e di proprietà di un privato (che sollecita lo sgombero), erano pessime: sanitari distrutti e cavi elettrici spariti. Ora, che i migranti sono addirittura 250, con donne e bambini, la situazione, seppur molto critica, è un po’ migliorata: almeno possono farsi una doccia e grazie al “gruppo sanità” hanno ottenuto un’assistenza sanitaria. Ma non basta per una vita civile. Don Ciotti – il gruppo Abele è una delle associazioni che offre assistenza – poco tempo fa invitava, proprio riferendosi al caso torinese, a mettersi nei panni di «una madre con un bambino di tre mesi che vive senza riscaldamento, senza letti, in 200 persone con due bagni».
Martedì sera è salita la tensione. Già aleggiavano voci di sgomberi e l’incontro nel pomeriggio in Comune, tra associazioni e assessori (che lamentano i pochi fondi da Roma), non è andato a buon fine. Inadeguata la proposta tampone delle istituzioni, rivolta solo a 80-90 persone d’accogliere in un centro della Croce rossa a Settimo. Da lì, è partita la protesta dell’ala più radicale verso la Prefettura. Il resto è cronaca: cariche della polizia, feriti da ambo le parti e 11 denunciati tra i manifestanti. Sulle polemiche politiche meglio tralasciare. Bisogna, comunque, sottolineare che non solo i centri sociali non hanno condiviso la proposta del Comune, ma anche le associazioni, che hanno poi avanzato l’idea di un tavolo di coprogettazione.
Quando raggiungiamo al telefono Massimiliano Orlandi sta portando cibo e bevande dentro lo stabile, parla a nome delle associazioni: «Saremo dei sognatori, ma ci battiamo perché si trovi una soluzione di dignità, d’accoglienza vera e di inserimento sociale, per i rifugiati che stanno soffrendo da mesi. Non vogliamo lo sgombero. Chiediamo, invece, che gli enti locali gli conferiscano la residenza, necessaria per poter trovare un’occupazione». Sarebbe un passo verso i diritti. E nella ex clinica, fuori o dentro la Casa Bianca, c’è chi si dice – in caso di sgombero - disposto «a perdere la vita» per difendere il proprio diritto, non solo a resistere, ma ad esistere.
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Da il manifesto del 31 gennaio
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