Dello stabilimento di via Oggero, dove la pianura lascia spazio alla
collina e la scritta rossa «Eternit» si vedeva da lontano, non c'è più
nulla, se non la palazzina degli uffici, lasciata in piedi quasi come
monito perché una tragedia simile non si ripeta. Perché «una così grande
non l'ho mai vista» ha detto, ieri, il pm Raffaele Guariniello a termine della
requisitoria del processo d'appello, a Torino, in cui ha chiesto la
condanna a 20 anni per il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e per il
barone belga Louis de Cartier, la testa del colosso dell'amianto, che a
Casale Monferrato come a Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli (e in tanti luoghi
d'Italia e del mondo) continua a provocare morti.
Un disastro che,
secondo l'accusa, è conseguenza cosciente della condotta imprenditoriale
dei due imputati, condannati in primo grado per disastro ambientale
doloso e omissione dolosa di cautele. «Hanno accettato e continuano ad
accettare questo immane disastro - ha aggiunto Guariniello - che ha
colpito e colpisce cittadini, non solo lavoratori. È un disastro che non
può essere ridotto ai luoghi di lavoro ma si sta consumando ai danni
della popolazione, di tutti noi. Continua a seminare morte e continuerà a
farlo chissà fino a quando». Basta alzare lo sguardo, oltre via Oggero,
per capire che il lascito di quella storia maledetta non è debellato;
costeggiare le baracche sul Po con i tetti coperti dal grigio ondulato,
attraversare Casale (dove la bonifica pubblica è stata la più avanzata) e
dare un'occhiata ai soffitti delle fabbriche abbandonate o abbassare
gli occhi e osservare il battuto dei cortili di Casale Popolo,
realizzati con il polverino (il materiale di scarto).
Tutto, qui,
sapeva di polvere, lo racconta Nicola Pondrano, ex operaio e poi
sindacalista, che da giovane ancora inconsapevole era rimasto stupito
dalle scie che le biciclette degli operai lasciavano per strada. Scie
bianche. Lui è uno dei protagonisti di questa lotta trentennale, insieme
a Bruno Pesce, sindacalista e coordinatore vertenza amianto, l'oncologa
Daniela Degiovanni e Romana Blasotti, presidente dell'Afeva, che con i
suoi occhi chiari e una volontà di ferro ha reagito alle morti in
famiglia, cinque in tutto, il marito Mario, la figlia Maria Rosa, poi
una sorella, una cugina e un nipote.
«Oggi - ha ammonito Guariniello
- stiamo facendo un processo, ma domani ci saranno altri morti. E
avviene anche in altre parti del mondo, tutto sotto un'unica regia.
Questa tragedia si è consumata senza che mai fino a oggi nessun
tribunale abbia chiamato a rispondere i veri responsabili». I parametri
per cui sono stati chiesti 20 anni sono «l'enorme gravità del danno,
l'eccezionale intensità dell'elemento soggettivo e il dolo diretto. Non
siamo - ha sostenuto - al cospetto di titolari di un'officina
metalmeccanica, ma dei vertici di un'enorme multinazionale, con un'alta
capacità economica. Gli imputati, per anni, hanno negato la pericolosità
e la cancerogenicità dell'amianto e sono stati mossi da una volontà
precisa di proseguire l'attività a tutti i costi mettendo a repentaglio
la salute dei lavoratori e della popolazione». Infine, «Schmidheiny ha
mascherato attività di spionaggio e attività lobbistica dietro
l'attività filantropica per evitare di rispondere della sua condotta
davanti ai giudici».
Familiari, attivisti, ex lavoratori (i pochi
rimasti) sono arrivati al Palagiustizia in pullman come a ogni udienza
del maxi-processo iniziato l'11 dicembre 2009. I numeri sono
significativi: 3000 vittime (2200 morti e 800 malati, dati in aumento) e
6300 parti civili costituite. Il pm ha chiesto, inoltre, che gli
imputati siano condannati anche per le vittime da amianto degli impianti
di Rubiera e Bagnoli. Un capo di imputazione che la sentenza di primo
grado aveva considerato prescritto. «Riteniamo che la loro
responsabilità sia ancora attuale anche per quanto riguarda quei due
siti». La sentenza è attesa per fine maggio, nella speranza che non sia
un remake di quella Thyssen. Poi, probabilmente, ci saranno un Eternit
bis e un tris. È una storia lunga cent'anni, che avrà ancora dolore da
consumare, ma pretende giustizia.
Da il manifesto, 14 marzo
Nessun commento:
Posta un commento