Un seminario di Micromega. Con Landini, Revelli, Zagrebelsky, Gallino e Ingroia
TORINO - Il punto esclamativo sottolinea l’urgenza della questione. Vuota, smarrita, sovvertita, ma anche un orizzonte strategico, la battaglia su cui fondarsi. È di democrazia che parliamo, anzi Democrazia! (come Fiom e MicroMega hanno intitolato il seminario di ieri a Torino). Dopo Pomigliano, dopo Mirafiori – qualcuno direbbe anche dopo la Tunisia e l’Egitto – è il problema all’ordine del giorno. E il referendum del 14 gennaio, quello del «vota sì se no ti chiudo la fabbrica», è stata la più chiara rappresentazione. Sul tema si sono confrontati sindacalisti, analisti, studenti, ricercatori, gente di movimento. Giuristi come Gustavo Zagrebelsky, studiosi come Luciano Gallino e Marco Revelli, magistrati come Antonio Ingroia. «Il popolo dell’Altra Italia» sintetizza una voce dal pubblico, una platea stipata all’inverosimile nella Fabbrica del Gruppo Abele.
Tocca a Maurizio Landini, leader della Fiom, rompere il ghiaccio: «Le leggi di questo governo in sintonia con Confindustria, gli accordi separati, gli attacchi di Marchionne segnano uno scarto, un passaggio d’epoca, il tentativo modificare il sistema di regole. Non si vuole permettere alle persone di decidere sulle proprie condizioni ma solo imporle. E se il modello autoritario passa in fabbrica, rischia di estendersi anche fuori». Anche per il sociologo Luciano Gallino «la riduzione dei diritti dei lavoratori preannuncia la sottomissione a un potere totale nella società. La grande impresa non è mai stata così libera di decidere cosa produrre, dove produrre e pure di causare effetti negativi sulla società e sull’economia».
Paolo Flores D’Arcais, direttore di Micromega, si è interrogato sui rapporti tra capitalismo e democrazia: «Con il combinato disposto Marchionne-Berlusconi si è raggiunto il diapason della distruzione della democrazia liberale. Un fenomeno globale, dopo il 1989 non sono state la Russia e la Cina a procedere verso la democrazia, ma il capitalismo occidentale a inserire dosi massicce di putinismo nella sfera civile. Negli ultimi anni i movimenti sono stati l’unica opposizione effettiva». Ma ora devono porsi il tema di uno sbocco politico: «La lotta della fabbrica diventi quella della città e del Paese». E la parola «partito» aleggia con pudore. Secondo il procuratore Antonio Ingroia i poteri criminali hanno inciso sulla storia italiana rendendo la democrazia incompiuta. «La strage di Portella della Ginestra ha condizionato la prima repubblica e le stragi mafiose del 92-93 hanno influenzato l’inizio della seconda. Fa parte dei diritti di un popolo conoscere le verità sulle proprie origini. E tuttora ne siamo orfani».
La fuga della politica dalle responsabilità e le contraddizioni dell’intesa di Mirafiori sono state il centro dell’intervento del costituzionalista Zagrebelsky: «L’accordo ha avuto un carattere costituente, tra i soggetti firmatari è stato concordato un sistema di relazioni sindacali e industriali chiuso, seppur riguardi tutti i lavoratori. E se questi ultimi violassero i patti l’azienda non investirebbe più, ma se li violasse la Fiat cosa potrebbero fare i lavoratori? Niente, solo perdere il posto». Sottolinea un aspetto: «La trattativa sotto minaccia non è una trattativa perché non produce un accordo ma una normazione prodotta dall’azienda. Un accordo presuppone eguale libertà delle parti». In altre parole, un manifesto ideologico da sottoscrivere. E scatta l’applauso. «Ci sarebbe voluto l’intervento di un ente terzo, lo Stato per esempio, per ritrovare un riequilibrio; la politica avrebbe potuto presentare il suo volto benefico. Si è scaricato invece la responsabilità su poche migliaia di lavoratori, eroi del nostro tempo».
Che si doveva fare? Lo dice Marco Revelli: «Aprire una vertenza territoriale. Se riusciremo ad attrezzare le nostre città alla negoziazione riusciremo a resistere e poi a vincere». Per il sociologo torinese lo scandalo principale della vicenda Mirafiori è «l’asimmetria spaventosa tra un potere onnipotente e 5500 uomini e donne già provati dalla cassa su cui è piombata una scure da 435 piani più in alto (considerando la sperequazione di reddito). La distanza diventa di 7-8 mila piani se si valutano le stock option». Aggiunge: «Un festino del premier costa più di quanto guadagna una squadra di operai di Pomigliano o Mirafiori in un anno di lavoro. Quello che è successo ci fa balzare a prima del 1789, all’Ancien Régime».
In tanti hanno preso la parola. Studenti. Roberto Iovino, Rete della conoscenza, per cui «a forme autoritarie si devono contrapporre forme alternative e cooperanti». Secondo Luca Carfagna, Uniriot, la similitudine tra Marchionne e Gelmini è lampante: «Il meccanismo ricattatorio è la storia istituzionale del governo Berlusconi». Alice Graziano, Studenti indipendenti, si è soffermata sull’università come luogo scarsamente democratico: «Quel poco è stato stravolto dalla Gelmini, noi abbiamo pensato a contromisure, al referendum per esempio». Per l’economista Emiliano Brancaccio «senza la critica del liberoscambismo di sinistra sarà difficile salvare la democrazia».
Per Francesco Garibaldo si deve partire dalla «lezione della Fiom per ricostruire un potere collettivo». E Mario Pianta, Sbilanciamoci, suggerisce: «Dove si trovano i soldi per l’alternativa? Dalle tasche dei ricchi». Per Tonino Perna l’alternativa al capitalismo è «l’economia sociale di mercato». E Andrea Bagni, insegnante, invita a contrapporre anticorpi al corpo berlusconiano: «La Fiom ha offerto un ordine simbolico». Infine, Tiziano Rinaldini, Fondazione Sabattini: «La democrazia è un ordine strategico». Dai lavoratori agli studenti il movimento fa rete e diventa grande. Pensa al dopo.
Da il manifesto del 30 gennaio
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