Nell’ultimo decennio il Museo, che vanta una cineteca di oltre 16 mila copie, ha rilanciato l’attività di restauro. Ventiquattro opere recuperate, da Cabiria alla serie Maciste, che si inseriscono in un più ampio progetto di valorizzazione del cinema muto, in particolare torinese. E poi la sperimentazione di un nuovo modo di comunicare, attraverso festival, progetti didattici, proiezioni in spazi storici della città e sonorizzazioni dal vivo, anche eterodosse, per esempio con gruppi indie rock. E le sale sembrano riempirsi.
Alla base c’è una nuovo approccio teorico che “propone l’attenzione filologica degli interventi come garanzia e incentivo per una maggiore fruibilità e un piacere della visione” sottolinea Claudia Gianetto responsabile dei progetti di restauro cinematografici. L’ultimo lavoro Jone del 1913 verrà presentato in anteprima il 16 aprile al 64° convegno internazionale della Fiaf (Federazione internazionale degli archivi di film) di Parigi.
In via Sospello, dove ha sede
I primi restauri del Museo si sono concentrati sui titoli dell’Itala, che insieme all’Ambrosio era la casa produzione più importante. Nella scelta dei titoli si è cercato di rappresentare generi diversi: il comico con La paura degli aeromobili nemici (1915) e il film storico con La caduta di Troia (1911). Nel 2006 il Museo ha portato a compimento il suo più grande progetto: Cabiria il kolossal di Giovanni Pastrone, sia nella versione muta del 1915 sia in quella sonora del 1931. Subito dopo è partito un progetto pluriennale per il restauro dei film interpretati dall’attore Bartolomeo Pagano nei panni di Maciste.
Molte opere, per esempio una buona parte dei sedici titoli proposti l’anno scorso, sono state presentate al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, che insieme alle Giornate del cinema muto di Pordenone, rappresenta il massimo evento del settore in Italia. ”Accanto ai progetti sul cinema muto torinese, c’è un interesse per il cinema a tutto tondo, a breve dovrebbero partire anche nuovi progetti per il restauro di film sonori”, sottolinea Claudia Gianetto “con un’attenzione particolare dedicata alle opere realizzate negli anni Settanta da grandi autori del cinema italiano come Francesco Rosi e Marco Ferreri.”
Il buon restauratore deve sapere un po’ di tutto: dalla storia al cinema e alla chimica. “Deve studiare il costume, la politica e la mentalità di un’epoca. E poi deve avere una buona vista, il lavoro è infatti certosino” precisa Dagna.
Nessun commento:
Posta un commento