Ad aspettarli ci sarebbe stato ancora l'amianto. Superarono quel confine tra Italia e Jugoslavia che aveva pochi giorni e lasciarono il loro paese, Salona d'Isonzo, che stava cambiando il nome in Anhovo. Era da poco finita la guerra, quando il 3 marzo del 1947, Romana Blasotti, che quel giorno compiva 18 anni, e i suoi familiari partirono, con pochi averi, alla volta del Piemonte. Papà Ottavio lasciava il lavoro in una fabbrica di manufatti a base d'amianto. Arrivarono a Casale Monferrato e lì fu assunto all'Eternit. Non subito (era sempre comunque un profugo), dopo cinque mesi. Stesse modalità produttive, stesso veleno. Romana si sposò un anno dopo con il Mario (Pavesi): «Lo conobbi una domenica pomeriggio, non credevo guardasse proprio me. Invece, scattò qualcosa. Ancora adesso penso sia stata una persona a cui valeva la pena volere bene. Entrò anche lui all'Eternit nel 1958. E fu la sua fine».
Nel 1956 Bruno Pesce
iniziava, a soli 14 anni, il lavoro da garsunin in un
laboratorio orafo a Valenza. «Una
delle prime cose che mi dissero fu “prendi quella lastra d'amianto
e usala per saldare”. Sembrava cartone, grigiastro, era crisotilo
pressato, meno pericoloso dell'amianto blu che si lavorava nello
stabilimento di Casale, ma sempre cancerogeno. Certo, ai tempi non lo
sapevo». A 22 anni era
già sindacalista, Fiom. Nel 1969, Nicola Pondrano, una notte -
mentre tornava dalla visita per il servizio di leva all'ospedale
militare di Genova e prima di riprendere il cammino verso Vercelli,
dove abitava - si fermò vicino allo stadio insieme a due amici: «A
un certo punto veniamo abbagliati dai fanali di centinaia di
biciclette. Operai. Girano l'angolo e vanno verso il Ronzone. Passano
e lasciano per terra una scia bianca. Polvere, tanta polvere. Li
seguiamo, pedalano in fretta, riusciamo solo a vedere una scritta,
«Eternit». Poi, il buio riprende il sopravvento. Quelle scie
bianche, senza comprendere cosa fossero, non lo dimenticherò più».
Romana, presidente
dell'Afeva (l'associazione dei familiari), Bruno, coordinatore della
vertenza amianto, a lungo segretario della Camera del lavoro di
Casale, e Nicola, ex operaio Eternit, sindacalista e presidente del
Fondo vittime amianto, sono i tre principali protagonisti di una
lotta più che trentennale. Lunedì sarà il giorno della sentenza
d'appello nei confronti della testa della multinazionale
dell'amianto, al maxi processo di Torino che è seguito all'indagine
del pool di Raffaele Guariniello: 3000 vittime fino al 2008 (2200
morti e 800 malati), tuttora in aumento (sono oltre 50 i casi annuali
di mesotelioma solo a Casale). Con la recente morte di uno dei due
imputati, il barone belga Louis De Cartier, che non ha mai sborsato
un euro per risarcire le vittime (a rischio, infatti, i risarcimenti
di 1500 parti civili sulle 2800 totali), sul banco degli imputati
rimane il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, condannato in primo
grado a 16 anni per disastro ambientale doloso permanente e per
omissione volontaria di cautele antinfortunistiche.
Da Casale arriveranno,
come a ogni udienza, i pullman carichi di familiari e attivisti. Pure
da Cavagnolo, dove c'era uno dei quattro stabilimenti Eternit
italiani, e molto probabilmente da Rubiera, che, in primo grado,
aveva visto, come Bagnoli, prescritti i reati riferiti al proprio
territorio. Ci saranno le Voci della memoria, una giovane
associazione di Casale che con Luca e Diego e tanti altri ha messo in
connessione storie di lavoro, di movimento, di lotta. Partendo
dall'Eternit, una fabbrica in cui un tempo trovare lavoro era come
entrare in banca: «Ti regalava pure il polverino, gli scarti per
pavimentare i cortili. Altro veleno».
Dello stabilimento di via
Oggero, dove la pianura lascia spazio alla collina e la scritta rossa
«Eternit» si vedeva da lontano, non c'è più nulla, se non la
palazzina degli uffici, lasciata in piedi quasi come monito perché
una tragedia simile non si ripeta. Nicola ci entrò per la prima
volta l'11 settembre
1974. Nato il 12 giugno, lo stesso giorno – 28 anni dopo - di Mario
Pavesi, ne raccoglierà il testimone da delegato sindacale. Comunista
un po' anarchico, era un ragazzone che non stava zitto. «Sei venuto
a morire anche tu?» gli disse un giorno, seduto su un sacco di
amianto, uno dei facchini più anziani, Piero Marengo. Capì presto
di non trovarsi in un posto normale. I manifesti da morto che ogni
giorno vedeva ai cancelli della fabbrica, il rapporto con il prete
operaio Bernardino Zanella – con cui aveva mappato i problemi
dell'azienda - fecero crescere in Nicola una nuova consapevolezza.
«Era venuto il momento di lottare contro la fabbrica della morte.
Non si poteva più morire di lavoro». L'incontro con Bruno, nel
1979, diede il via alla vertenza amianto. Nel sollevare problemi
ambientali, spesso tabù, furono un'avanguardia nel sindacato: Pesce
alla Camera del Lavoro e Pondrano all'Inca Cgil, che andò a dirigere
nel 1980, dove era consulente medico una giovane e tenace oncologa
Daniela Degiovanni, tuttora figura cardine nella lotta. Iniziarono
esposti, denunce, convegni, indagini epidemiologiche. La richiesta di
giustizia, bonifica e ricerca. E la fabbrica chiuse nel 1986.
Ci vollero anni prima che
Casale, nel suo letargo prettamente piemontese, si accorgesse della
strage in corso. Romana divenne presidente dell'associazione dopo la
morte del marito, per mesotelioma,ò nel 1983. Il primo, l'unico che
aveva lavorato all'Eternit, dei cinque suoi familiari che la bestia
(come a Casale chiamano questo tumore) le ha portato via: Libera, la
sorella; Giorgio, il nipote; Anna, la cugina che viveva in Slovenia,
e, infine, la figlia Maria Rosa. «È stata la più dura. Era triste,
capitava che litigassimo. L'ultimo giorno ci siamo guardate negli
occhi, i suoi erano grandi e belli, non ci siamo parlate, ma ci siamo
dette tutto». Nonostante il dolore le abbia asciugato le lacrime,
Romana lotta ogni giorno con una forza incredibile, perché ci sia
giustizia. E perché «lunedì venga confermato il dolo».
«Non ci siamo mai persi
d'animo – racconta Pesce - il processo di Torino ha una lunga
storia. Bisogna tornare ai primi anni Duemila quando l'epidemiologo
padovano, Enzo Merler, impegnato in un'indagine sugli immigrati in
Svizzera ammalatisi una volta tornati in Italia (dopo aver lavorato
nella fabbrica Eternit di Niederurnen), segnalò al pm Guariniello,
un magistrato esperto, il caso di un torinese. A Casale, dove un
processo dieci anni prima aveva portato magri risultati, si accese la
speranza. Partì una mobilitazione che coinvolse anche le altre
località dove risiedeva l'Eternit, come Cavagnolo, su cui ha
competenza la Procura di Torino. Costruimmo un maxiesposto con un
migliaio di nomi di ammalati e morti per l’amianto che depositammo
in Procura nel 2004. Finalmente ci sarebbe stato un processo sul
ruolo della multinazionale e in grado di considerare anche le vittime
tra i cittadini».
Il 6 aprile 2009 è
iniziata l'udienza preliminare. Pondrano è stato nel processo il
teste principale dell'accusa. Il 13 febbraio del 2012 è arrivata la
sentenza di primo grado per un disastro immane che, secondo l'accusa,
è conseguenza cosciente della condotta imprenditoriale dei due
imputati.