domenica 31 marzo 2013

Non siate ingenui, internet non sarà mai la democrazia

Internet & potere: le idee di Evgeny Morozov: "La rete non è neutrale. Un algoritmo non risolve le ingiustizie. Il web ottimismo fa comodo ai forti"

Un algoritmo salverà il mondo? Internet è libertà, rivoluzione e democrazia? La rete spazzerà via criminalità e corruzione politica? Aprirà i palazzi del potere come una scatoletta di tonno? Secondo Evgeny Morozov sono ingenuità. È da alcuni anni che il giovane (1984) sociologo e giornalista bielorusso ribalta i più assodati luoghi comuni del cyber-ottimismo, minando il mito che Internet sia di per sé una forza per il cambiamento sociale, che elevi l’istruzione, salvi l’economia o rovesci un dittatore.
[CONTINUA]

Da Linkiesta del 31 marzo

domenica 24 marzo 2013

Così la Valle si scopre di lotta e di governo

Il defender bianco attende fuori dal cancello della strada dell’Avanà. Dentro ci sono stipati, stretti stretti, alcuni parlamentari del M5s, insieme ai collaboratori. Saranno gli ultimi a superare i cancelli del cantiere della Maddalena, quelli di Sel sono più avanti, con altri grillini, nei due pullman appena transitati.
Un giovane – trent’anni scarsi, la spilletta con scritto «A sara dura» e un inconfondibile accento del sud – tira giù il finestrino, allunga la mano e stringe quella di Marisa Meyer, le dice «lei è come Ghandi». Marisa, pensionata valsusina di 68 anni, lo scorso anno si incatenò per tre ore ai cancelli. «Io, lì dentro non entro, non voglio vedere lo sfacelo – sottolinea – ma è giusto che lo facciano questi parlamentari». E, così, il misterioso cantiere del tunnel esplorativo, circondato dal filo spinato, è stato svelato: «Resta una vergogna. Tutta questa militarizzazione non ha senso. Non è un cantiere, è un fortino» tuona Alberto Perino, leader storico della lotta, che li ha accompagnati.
Nel pomeriggio, una folla davvero oceanica, decine di migliaia di persone (ottantamila per gli organizzatori), invade, sotto la pioggia battente, le strade della Val di Susa, da Susa a Bussoleno. Famiglie con bambini – alcuni travestiti da trenini – ragazzi e pensionati, una marcia eterogenea e lunghissima, aperta dallo striscione «Difendi il tuo futuro». Ambientalisti, Fiom e sindacati di base, centri sociali, bandiere dei partiti di sinistra e tantissime spille a Cinque Stelle appuntate sulle giacche. «Una manifestazione che chiede cambiamento, nessun governo può andare contro questo popolo anzi ne deve raccogliere la spinta» sintetizza Giorgio Airaudo, uno dei dodici parlamentari di Sel in visita alla Maddalena; i deputati e senatori del M5S sono, invece, sessanta, capitanati da Vito Crimi, capogruppo al Senato, che lancia la «richiesta di una commissione d’inchiesta» sulla Tav. «Sempre più certi che possa venire bloccato» aggiunge il senatore valsusino Marco Scibona. «Spesa insopportabile» concorda Sel.
I parlamentari sono scesi fino a quei 40 metri scavati nella roccia, verso quella che considerano un’inutile devastazione. Tecnici del movimento hanno messo in difficoltà quelli di Lyon Turin Ferroviaire (Ltf), ancora sprovvisti del progetto esecutivo. Alberto Airola, senatore torinese del M5S, si è avvicinato ai poliziotti che difendono il sito: «Siamo qui anche per liberare voi». Oltre a Perino, presenti alla visita al cantiere gli esponenti No Tav Luca Abbà e Lele Rizzo, che, a fine manifestazione, ha descritto «il fortino come un set cinematografico dove i ruoli non si riconoscono», aggiungendo: «Abbiamo preso le misure per smontarlo». Alla Maddalena è arrivato solitario anche Stefano Esposito, senatore Pd ultrà Sì Tav, che ha lanciato una provocazione ai grillini: «Se votate la fiducia al governo, blocchiamo la Tav». Dura risposta di Ivan Della Valle, M5S: «Non facciamo inciuci con chi ha rovinato il Paese negli ultimi 20 anni».
Poche ore dopo, un fiume festoso di ombrelli e striscioni ha travolto ogni polemica raccontando il movimento nel suo aspetto più popolare e trasversale. «Una manifestazione così grossa non l’avevo mai vista» ha detto Perino. Solo una contestazione a Crimi, da parte di militanti Usb al grido: «Siamo tutti antifascisti». Dietro alle mamme e ai bambini, i gonfaloni di comuni piemontesi, di Napoli e di Corciano (Viterbo), qualche politico o sindacalista fuori dal Parlamento (Ferrero e Cremaschi), i No Tav francesi e quelli contro il Terzo Valico, i No Muos e i sindaci avvolti dal tricolore: «All’Italia non serve un grande cantiere per un’opera inutile – è il commento di Nilo Durbiano, sindaco di Venaus – ma tante piccole opere».

Da il manifesto del 24 marzo

venerdì 22 marzo 2013

Please please me, il primo disco dei Beatles ha 50 anni

Oggi l’anniversario, ad aprile il Record Store Day. È l’occasione giusta per riprendere in mano il vecchio album e fareil punto sulla stato del vinile


Il produttore George Martin convocò i quattro ragazzotti di Liverpool nella sede della Emi, a Londra in Manchester Square, e gli chiese di sporgersi dalla ringhiera della tromba delle scale. Sorriso. Clic! Ecco, in due righe, la copertina dell’album Please Please Me, nello scatto di Angus McBean, fotografo surrealista gallese. Da sinistra a destra, Ringo, da poco entrato nel gruppo, Paul, George e John. Il 22 marzo del 1963 uscìil primo Lp dei Beatles. Venne registrato, un mese prima, in sole quindici ore di lavoro, a eccezione dei singoli che erano stati suonati in studio nell’autunno precedente (Love me do e il brano che dà il titolo all’album). [CONTINUA]

Da Linkiesta del 22 marzo

venerdì 15 marzo 2013

Eternit, Guariniello chiede 20 anni per i «big» Schmidheiny e de Cartier

Dello stabilimento di via Oggero, dove la pianura lascia spazio alla collina e la scritta rossa «Eternit» si vedeva da lontano, non c'è più nulla, se non la palazzina degli uffici, lasciata in piedi quasi come monito perché una tragedia simile non si ripeta. Perché «una così grande non l'ho mai vista» ha detto, ieri, il pm Raffaele Guariniello a termine della requisitoria del processo d'appello, a Torino, in cui ha chiesto la condanna a 20 anni per il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e per il barone belga Louis de Cartier, la testa del colosso dell'amianto, che a Casale Monferrato come a Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli (e in tanti luoghi d'Italia e del mondo) continua a provocare morti.
Un disastro che, secondo l'accusa, è conseguenza cosciente della condotta imprenditoriale dei due imputati, condannati in primo grado per disastro ambientale doloso e omissione dolosa di cautele. «Hanno accettato e continuano ad accettare questo immane disastro - ha aggiunto Guariniello - che ha colpito e colpisce cittadini, non solo lavoratori. È un disastro che non può essere ridotto ai luoghi di lavoro ma si sta consumando ai danni della popolazione, di tutti noi. Continua a seminare morte e continuerà a farlo chissà fino a quando». Basta alzare lo sguardo, oltre via Oggero, per capire che il lascito di quella storia maledetta non è debellato; costeggiare le baracche sul Po con i tetti coperti dal grigio ondulato, attraversare Casale (dove la bonifica pubblica è stata la più avanzata) e dare un'occhiata ai soffitti delle fabbriche abbandonate o abbassare gli occhi e osservare il battuto dei cortili di Casale Popolo, realizzati con il polverino (il materiale di scarto).
Tutto, qui, sapeva di polvere, lo racconta Nicola Pondrano, ex operaio e poi sindacalista, che da giovane ancora inconsapevole era rimasto stupito dalle scie che le biciclette degli operai lasciavano per strada. Scie bianche. Lui è uno dei protagonisti di questa lotta trentennale, insieme a Bruno Pesce, sindacalista e coordinatore vertenza amianto, l'oncologa Daniela Degiovanni e Romana Blasotti, presidente dell'Afeva, che con i suoi occhi chiari e una volontà di ferro ha reagito alle morti in famiglia, cinque in tutto, il marito Mario, la figlia Maria Rosa, poi una sorella, una cugina e un nipote.
«Oggi - ha ammonito Guariniello - stiamo facendo un processo, ma domani ci saranno altri morti. E avviene anche in altre parti del mondo, tutto sotto un'unica regia. Questa tragedia si è consumata senza che mai fino a oggi nessun tribunale abbia chiamato a rispondere i veri responsabili». I parametri per cui sono stati chiesti 20 anni sono «l'enorme gravità del danno, l'eccezionale intensità dell'elemento soggettivo e il dolo diretto. Non siamo - ha sostenuto - al cospetto di titolari di un'officina metalmeccanica, ma dei vertici di un'enorme multinazionale, con un'alta capacità economica. Gli imputati, per anni, hanno negato la pericolosità e la cancerogenicità dell'amianto e sono stati mossi da una volontà precisa di proseguire l'attività a tutti i costi mettendo a repentaglio la salute dei lavoratori e della popolazione». Infine, «Schmidheiny ha mascherato attività di spionaggio e attività lobbistica dietro l'attività filantropica per evitare di rispondere della sua condotta davanti ai giudici».
Familiari, attivisti, ex lavoratori (i pochi rimasti) sono arrivati al Palagiustizia in pullman come a ogni udienza del maxi-processo iniziato l'11 dicembre 2009. I numeri sono significativi: 3000 vittime (2200 morti e 800 malati, dati in aumento) e 6300 parti civili costituite. Il pm ha chiesto, inoltre, che gli imputati siano condannati anche per le vittime da amianto degli impianti di Rubiera e Bagnoli. Un capo di imputazione che la sentenza di primo grado aveva considerato prescritto. «Riteniamo che la loro responsabilità sia ancora attuale anche per quanto riguarda quei due siti». La sentenza è attesa per fine maggio, nella speranza che non sia un remake di quella Thyssen. Poi, probabilmente, ci saranno un Eternit bis e un tris. È una storia lunga cent'anni, che avrà ancora dolore da consumare, ma pretende giustizia.  

Da il manifesto, 14 marzo