Parla Sergio Bonetto, l'avvocato di parte civile al processo ThyssenKrupp di Torino. Per la prima volta 48 operai si sono costituiti parte civile
TORINO - Il giorno dopo la sentenza le gambe sono ancora molli. Segno della tensione accumulata in una giornata infinita e della paura (nessuno la nasconde) che la speranza di giustizia andasse in fumo. I parenti delle vittime della Thyssen si sono stretti e hanno pianto, insieme a quelli della strage di Viareggio e dell'Eternit. Gli ex colleghi hanno finalmente sorriso. Hanno tenuto duro in queste 88 udienze. Si sono costituiti parte civile, come operai e persone. «Non come sagome umane per lanciatori di coltelli come voleva far credere la difesa», dice Sergio Bonetto, avvocato di parte civile per i lavoratori dell'acciaieria. Una lunga esperienza alle spalle, Bonetto è anche legale delle vittime dell'amianto.
Quali sono gli elementi che rendono storica la sentenza della Thyssen? Prima di tutto, il riconoscimento del dolo eventuale per le morti sul lavoro. In genere, in questi casi, veniva sempre contemplato l'omicidio colposo. Una sanzione troppo generosa. La ThyssenKrupp avendo messo in con to che si verificasse quello che è successo ha deciso di correre il rischio e di far lavorare gli operai seppur non ci fosse la sicurezza necessaria. Ci sono le prove. Dopo un analogo incidente in Germania (l'incendio allo stabilimento di Krefeld nel 2006) la casa madre tedesca stanziò fondi per mettere al sicuro tutte le sedi della multinazionale. La Thyssen italiana, guidata da Harald Espenhahn, decise di non farlo e posporre l'intervento dopo la dismissione dello stabilimento torinese e il trasferimento della linea 5 a Temi. C'è poi un altro episodio decisivo: l’Axa, a queste condizioni, non avrebbe voluto assicurare lo stabilimento di corso Regina Margherita, lo ha fatto solo a patto di 100 milioni di franchigia. La Thyssen decise di correre il rischio per motivi di convenienza economica. Non si è trattato di una «colpa» normale, ma di qualcosa di più. Non un omicidio in stile «coltello alla schiena», ma, comportando un'accettazione consapevole del rischio, di un omicidio volontario con dolo eventuale (come già previsto negli incidenti stradali), reato per cui l'amministratore delegato è stato condannato a 16 anni e 6 mesi sei mesi di reclusione. Poi c'è un altro elemento di novità ed è merito degli operai.
Si riferisce ai lavoratori costituiti parte civile? Nei giorni in cui un ente dopo l'altro si costituiva, sembravano rimanere fuori solo gli operai, che avevano corso il rischio direttamente. E hanno deciso di costituirsi parte civile singolarmente. Uno a uno. All'inizio erano 120, poi il ricatto dell'azienda (incentivi) ha ridotto il numero a 48. La presenza degli operai esposti al rischio nel processo è un altro fatto mai visto prima e la Corte lo ha riconosciuto, con un risarcimento di 50 mila euro a testa. Li avevano come mandati in guerra, ma senza avvertirli. Uno dei legali della difesa, Franco Coppi, nella sua arringa, per confutare l'ipotesi di omicidio volontario, ha addirittura evocato l'esempio del lanciatore di coltelli. Ma i lavoratori non volevano fare le sagome.
Quali erano gli umori prima della sentenza? Dico la verità, avevo paura. Ero in una condizione che ribaltava quella famosa frase di Gramsci: «Il pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà». Certo, c'era la speranza di un cambiamento epocale, ma anche il timore che gli operai scomparissero ancora una volta dalla storia.
A due anni di distanza dall'inizio, che processo è stato? Il lavoro delle Corte è stato molto accurato e professionale. E nella sentenza ha portato a sua volta elementi di novità, come il sequestro dell'impianto fino al passaggio in giudicato. Se innovativo è stato il processo, all'avanguardia erano state le indagini preliminari. Il pool di Guariniello le ha svolte come in una normale inchiesta criminale e le perquisizioni sono state fondamentali.
Cosa potrà cambiare per la sicurezza sui posti di lavoro e per l'infortunistica penale? Mi domando: se avessero saputo che rischiavano il carcere e pene severe gli imprenditori avrebbero accettato di correre il rischio? E non parlo solo della reclusione ma anche delle sanzioni economiche. Toccati nei loro affetti più cari, il portafoglio, datori e consiglieri di amministrazione saranno d'ora in poi costretti a riflettere prima di ogni decisione che riguardi la sicurezza dei lavoratori. E mi auguro, finalmente, che si capovolga la gerarchia delle decisioni.
Da il manifesto, 17 aprile