TORINO - In testa c'è quel drago che ha divorato in meno di un anno 362 euro a ogni lavoratore. Si apre così a Torino il corteo della Cgil, con una dedica beffarda al fiscal drag che, seppure il potere d'acquisto di salari e pensioni si riduca, «il governo - spiega il sindacato - non vuole restituirci». Via Po, che collega piazza Vittorio (la partenza) a piazza Castello (l'arrivo), è gremita: ci sono tutte le categorie. Ci sono gli insegnanti, i metalmeccanici, i pensionati e gli studenti. Dicono basta al governo dei tagli e vogliono una svolta, perché la crisi non è vicina, «la crisi la stiamo vivendo».
La risposta è stata buona, ventimila persone secondo gli organizzatori. Davanti, i cartelli con i prezzi raddoppiati dal 2001 a oggi (un chilo di pane +50,8%, il gasolio +65,8%). Un'immagine simbolo la trovi, invece, nel secondo spezzone: Angelo, rsu alla Key Plastics di Beinasco, ha per mano la sua bambina che fa le elementari, entrambi portano un cartello. «Siamo tutti coinvolti - spiega - io perché il sindacato difenda il suo ruolo, mia figlia perché è importante una scuola di qualità, che sia pubblica». Antonio, pensionato, guarda ai figli che pagano mutui che non possono permettersi e sbotta: «La tanto agognata proprietà della casa è il male, se vedi la crisi americana non puoi non pensarlo». Vicino a lui, Giorgio, ancora qualche anno prima della pensione e una casa in affitto: «Con uno stipendio di 1100 euro, una moglie a carico e una figlia che fa le superiori, mi spiegate come si fa ad arrivare a fine mese?».
Uno degli spezzoni più corposi è quello della Flc. Maestre con grembiule e fischietto, scandiscono slogan: «Gelmini non ci fai paura, Moratti ci ha insegnato a far la faccia dura». Dietro lo striscione, anche il segretario provinciale Igor Piotto: «I tagli alla scuola destrutturano tutto il sistema scolastico, abbassandone la qualità. E poi c'è il disegno Aprea che vorrebbe espropriare il sindacato del suo potere contrattuale. Sabato manifesteremo a Torino». A poche decine di metri, ci sono gli studenti. Arrabbiati anche loro. Roberta, 19 anni rete Reds, ex Albe Steiner (istituto professionale per grafici) e neo iscritta a Scienze Politiche: «Con i tagli - racconta - sono state ridotte le ore di carattere tecnico-professionale, che in una scuola come la mia sono fondamentali, così il diploma perde valore».
Più indietro ci sono gli operai della Bertone, da mesi sulle prime pagine dei giornali locali: «Dopo l'Alitalia - dice Giacomo Zulianello, rsu Fiom - siamo noi i prossimi, a dicembre rischiamo il fallimento». Uno dei motivi del tracollo - spiegano - è che Lilli Bertone, la proprietaria, non vuole cedere a nuovi acquirenti (Lotus tra gli altri), ma per farci cosa? «Motori ad aria compressa e auto in proprio. Qualcosa di assolutamente anacronistico».
E poi, ecco quelli che Brunetta chiama «fannulloni», i lavoratori della funzione pubblica: «Il ministro non è che un esempio comune di questo governo, creano un clima di emergenza senza risolvere nulla». Qualcuno parla della giornata di oggi come della prima per una nuova opposizione: «Visto che i partiti della sinistra non ci pensano, lo facciamo noi. E ci auguriamo, anzi ci impegneremo per farlo, che il manifesto resista» sottolinea Diego. Si arriva tutti in piazza, parla Donata Canta, segretario della Camera del lavoro. La battaglia per i diritti continua.
domenica 28 settembre 2008
sabato 27 settembre 2008
Pandora, il nuovo format dal basso
È proprio la curiosità, anche imprudente, di Pandora, che manca al giornalismo di oggi. La volontà di scovare e testimoniare quello che gli altri non vogliono o magari non possono dire. Non c'è allora nome più adatto per un nuovo progetto televisivo, appunto Pandora: idea lanciata alcuni mesi fa da Giulietto Chiesa e che ora - con redazioni e comitati sorti un po' in tutta Italia - prende forma. Si tratta di uno spazio di informazione indipendente che andrà in onda su satellite (Sky 924), reti regionali e web. Un programma di approfondimento giornalistico finanziato dai cittadini. Dal vaso della mitologia questa volta, però, non «verranno liberati» i mali del mondo, ma le verità che nessuno vuole più raccontare.
E un progetto che nasce dal basso, presentato ufficialmente a Roma qualche giorno fa, non può non mettere le radici là dove è stato sperimentato un modello di partecipazione. Così Pandora, ha fatto ieri la sua prima vera uscita pubblica proprio in Val Susa. Dopo essere stata a Torino (alle 18), è sbarcata in valle a Bussoleno, alle 21.15, per la presentazione del progetto con Chiesa e Udo Gumpel, corrispondente in Italia della tedesca Ntv, che sarà il direttore della testata.
La sottoscrizione è stata lanciata da tempo e, ad oggi, più di 3.500 cittadini si sono dichiarati disposti a versare la quota (da 100 a 250 euro) per dar vita a Pandora, dimostrando un'esigenza, non demandabile, di pluralismo e libertà di informazione. Anche i lavori per il format sono iniziati, se tutto andrà come dovrebbe, partirà a dicembre. A Torino si è formata una piccola redazione, dove già si parla di come impostare i servizi, che taglio dare (inchiesta o cronaca), ma anche di come recuperare le telecamere.
Pandora nasce puntando sulla qualità - sia di contenuti sia di forma - con professionisti della comunicazione, ma è aperta alla collaborazione di chi abbia qualcosa da raccontare. E soprattutto, dicono gli organizzatori: «Pandora non è il megafono di qualcuno o per qualcuno, vuole dare voce a chi non ce l'ha». Si propone come esempio autentico di servizio pubblico, una televisione che risponde a un unico editore: i suoi telespettatori. Si partirà allora con un programma settimanale di 90 minuti e un notiziario quotidiano sul web e sul satellite, realizzati negli studi di Europa 7 di Di Stefano. E se si scorre la lista dei primi firmatari, le prospettive non possono che essere buone: da Alex Zanottelli a Sabina Guzzanti, da Luciano Gallino a Felice Casson, da Franco Cardini a Moni Ovadia, da Valentino Parlato a Serge Latouche, da Gianni Minà a Ennio Remondino. Per il resto, si può andare sul sito, www.pandoratv.it.
venerdì 5 settembre 2008
«La fine del fordismo? Venite in fabbrica a vedere»
TORINO - Sembra che ci sia un mondo che dimentichi sistematicamente il lavoro, ma i lavoratori quel mondo non lo dimenticano. C'è il vissuto e la rabbia in chi parla, ma c'è anche uno sguardo che va oltre: alle condizioni dei propri simili in ogni parte del globo. E' questo lo spirito del forum di Sbilanciamoci, apertosi ieri; è questo lo scopo del nuovo sindacato come dice Giorgio Airaudo della Fiom: «Difendere i salari ed esportare i diritti, battersi per l'ambiente e contro la precarietà». E c'è chi addirittura parla di sogni di «un mondo più giusto» come Nina Leone, rsu alla carrozzeria di Mirafiori. Ma poi c'è il dramma della realtà: «E' il peso del precariato che ti porta a sbagliare» sbotta Giovanni Pignalosa, rsu Thyssenkrupp, che a 38 anni, in quella terribile notte di dicembre, era il secondo più anziano dopo Rocco Marzo, la quinta vittima della strage. Questo, per dire quanti giovani c'erano in quella fabbrica, con contratti temporanei e poca formazione.
Sono voci raccolte in assemblea a Torino, nella sede della quinta lega Fiom: un incontro, introdotto da Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci, con gli operai di Fiat e Thyssen. Finalmente, si parla di lavoro: «E' stato eliminato dall'agenda pubblica, sembra che il conflitto sociale non esista più, invece riguarda milioni di persone» sottolinea Lucio Zola di Lunaria, una delle associazioni che organizza la contro-Cernobbio torinese. «Dicono che il modello taylorista-fordista è stato superato. Vengano in fabbrica, il lavoro alla catena di montaggio non è tanto diverso da quello di Chaplin in Tempi Moderni» spiega Ugo Bolognesi, Fiom Mirafiori, che aggiunge: «Non ci sono più stati morti nello stabilimento, ma aumentano le malattie da sforzo ripetuto». «E così a 50 anni non vedi l'ora di andare in pensione o magari sperare in una mobilità» dice Nina Leone.
A Torino sono 75 mila le persone impiegate nell'industria dell'autoveicolo. Solo poco tempo fa sembrava non esistessero. Il sindaco Chiamparino parlava di rilancio olimpico, di turismo, in un'ottica di dopo Fiat. Poi c'è stata la tragedia Thyssen, e si sono riaccorti delle tute blu. «E quello non era il posto con le peggiori condizioni lavorative - commenta Fabio Carletti, Fiom - c'era, a differenza di altre realtà, ancora una rappresentanza sindacale». Era un'azienda però che faceva «dumping sociale», aggiunge Airaudo: «Ci sono benefit per i capi del personale che risparmiano a scapito della sicurezza». La Thyssen ha ispirato La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti, che a Venezia si è sperticato in elogi a Renata Polverini, segretaria Ugl, un sindacato che nell'azienda torinese non esisteva. Pronta la risposta di Airaudo: «Dispiace che Calopresti non veda anche il sacrificio dei delegati Thyssen. Certo, la Polverini la si può incontrare a Venezia o a Roma e non tra i metalmeccanici torinesi».
Sono voci raccolte in assemblea a Torino, nella sede della quinta lega Fiom: un incontro, introdotto da Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci, con gli operai di Fiat e Thyssen. Finalmente, si parla di lavoro: «E' stato eliminato dall'agenda pubblica, sembra che il conflitto sociale non esista più, invece riguarda milioni di persone» sottolinea Lucio Zola di Lunaria, una delle associazioni che organizza la contro-Cernobbio torinese. «Dicono che il modello taylorista-fordista è stato superato. Vengano in fabbrica, il lavoro alla catena di montaggio non è tanto diverso da quello di Chaplin in Tempi Moderni» spiega Ugo Bolognesi, Fiom Mirafiori, che aggiunge: «Non ci sono più stati morti nello stabilimento, ma aumentano le malattie da sforzo ripetuto». «E così a 50 anni non vedi l'ora di andare in pensione o magari sperare in una mobilità» dice Nina Leone.
A Torino sono 75 mila le persone impiegate nell'industria dell'autoveicolo. Solo poco tempo fa sembrava non esistessero. Il sindaco Chiamparino parlava di rilancio olimpico, di turismo, in un'ottica di dopo Fiat. Poi c'è stata la tragedia Thyssen, e si sono riaccorti delle tute blu. «E quello non era il posto con le peggiori condizioni lavorative - commenta Fabio Carletti, Fiom - c'era, a differenza di altre realtà, ancora una rappresentanza sindacale». Era un'azienda però che faceva «dumping sociale», aggiunge Airaudo: «Ci sono benefit per i capi del personale che risparmiano a scapito della sicurezza». La Thyssen ha ispirato La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti, che a Venezia si è sperticato in elogi a Renata Polverini, segretaria Ugl, un sindacato che nell'azienda torinese non esisteva. Pronta la risposta di Airaudo: «Dispiace che Calopresti non veda anche il sacrificio dei delegati Thyssen. Certo, la Polverini la si può incontrare a Venezia o a Roma e non tra i metalmeccanici torinesi».
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mercoledì 3 settembre 2008
Micah P. Hinson - And the Red Empire Orchestra (2008)
Starà anche sulle spalle dei giganti. Su quelle di Cash, Dylan e Waits, ma il piccolo Micah – 27 anni, nato lo stesso giorno in cui Ronald Reagan venne colpito in un attentato (30 marzo 1981) - può già guardare in alto. Nonostante i dolori alla schiena, i tormenti dell’animo e quelli della vita. Ora al terzo disco con la Red Empire Orchestra affina il suo talento, meno rude rispetto all’esordio e più elegante. Ma che non fosse un semplice nano - come tutti noi - lo si capiva dal primo album, per quella voce calda e maledetta, che lo fa sembrare, nel suo corpo gracile e imberbe, molto più vecchio di quello che è.
E non è solo un fatto di corde vocali: in lui cova tutto il germe di una tradizione americana “sad and beautiful”, triste e splendida. Il suo recente passato parla di dark lady che ti strappano il cuore, di notti in cella, di psicofarmaci e di un padre integralista cristiano che non ti vuole più vedere. Di contorno c’è la provincia americana, il Texas e la noia: quei sapori western che emergono nel brano di apertura Come home quickly darlin’, in una bassa fedeltà che pian piano si fa più ariosa, rivelando il registro orchestrale di buona parte dell’album. I colori sono sempre accesi, i sentimenti forti, ma i tratti rimangono sobri ed essenziali. When we embraced, banjo e voce, è la perfezione della semplicità, ma è in I Keep Havin’ These Dreams, con il suo tappeto d’archi, che si rivela il nuovo Micah. Non si dimena più come una volta, ma certo non si risparmia con la voce: come quando questa si spezza, si accende o si fa drammatica in The Fire Came Up To My Knees. Va poi a scoprire i giganti del passato: in We Won’t Have to be Lonesine c’è Dylan, in Throw The Stone ma ancor più nella splendida e finale Dyin’ Alone c’è Cash.
Un po’ di serenità l’ha raggiunta - ad un concerto a Londra ha chiesto la mano alla fidanzata Ashley - ma ancora una volta I’album è nato dal tormento. Dopo l’ultimo tour si trovò a casa con la schiena che scricchiolava e mille incertezze sul futuro. Così la musica si è fatta catarsi, ma senza nulla di paradisiaco: “I’m not afraid of suffering or pain, I’m afraid to die alone” sono le parole finali del ragazzo del Texas, sempre più intenso.
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E non è solo un fatto di corde vocali: in lui cova tutto il germe di una tradizione americana “sad and beautiful”, triste e splendida. Il suo recente passato parla di dark lady che ti strappano il cuore, di notti in cella, di psicofarmaci e di un padre integralista cristiano che non ti vuole più vedere. Di contorno c’è la provincia americana, il Texas e la noia: quei sapori western che emergono nel brano di apertura Come home quickly darlin’, in una bassa fedeltà che pian piano si fa più ariosa, rivelando il registro orchestrale di buona parte dell’album. I colori sono sempre accesi, i sentimenti forti, ma i tratti rimangono sobri ed essenziali. When we embraced, banjo e voce, è la perfezione della semplicità, ma è in I Keep Havin’ These Dreams, con il suo tappeto d’archi, che si rivela il nuovo Micah. Non si dimena più come una volta, ma certo non si risparmia con la voce: come quando questa si spezza, si accende o si fa drammatica in The Fire Came Up To My Knees. Va poi a scoprire i giganti del passato: in We Won’t Have to be Lonesine c’è Dylan, in Throw The Stone ma ancor più nella splendida e finale Dyin’ Alone c’è Cash.
Un po’ di serenità l’ha raggiunta - ad un concerto a Londra ha chiesto la mano alla fidanzata Ashley - ma ancora una volta I’album è nato dal tormento. Dopo l’ultimo tour si trovò a casa con la schiena che scricchiolava e mille incertezze sul futuro. Così la musica si è fatta catarsi, ma senza nulla di paradisiaco: “I’m not afraid of suffering or pain, I’m afraid to die alone” sono le parole finali del ragazzo del Texas, sempre più intenso.
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