sabato 28 marzo 2009

Marchionne: fabbriche da «razionalizzare, ma non ora»

L'assemblea degli azionisti approva il bilancio 2008. Sindacato preoccupato per Pomigliano e Termini

TORINO - Cinque anni fa la Fiat disse che non avrebbe toccato nessuno stabilimento. Ora, questa certezza non è più così salda. L'amministratore delegato Sergio Marchionne, davanti all'assemblea azionisti del gruppo, fa notare come «una necessità di razionalizzazione sia evidente». Causa una sovracapacità produttiva nell'industria dell'auto, con cui l'Europa deve fare i conti. Cosa questo significhi non è chiaro. Ma c'è chi teme possa presupporre l'accorpamento di Cassino con Pomigliano o la chiusura di Termini Imerese. Marchionne, però, butta acqua sul fuoco: «Un riassetto produttivo delle fabbriche non è all'ordine del giorno». Una ristrutturazione complessiva, invece, sì. E si preferisce estenderla a un livello globale: «L'obiettivo è portare l'industria automobilistica a un livello di sostenibilità economica». E, a chi chiede se «salterà» qualche stabilimento nel nostro Paese, Marchionne risponde: «Non si può parlare di Italia e basta, è un problema di sistema e non di sola Fiat. Ma c'è il rischio in Europa che più di un sito chiuda». L'unico in salvo - garantisce - è quello di Mirafiori, essendo il «centro pensante».

In verità, l'assemblea al Lingotto si era aperta con un proclama d'ottimismo, da far sembrare il tunnel della crisi quasi finito. «Ci stiamo preparando a giocare un ruolo da protagonista nel lungo periodo, in ogni settore» ha detto il presidente Luca Cordero di Montezemolo. «Nonostante le difficoltà del quadro economico internazionale - ha aggiunto Marchionne - confidiamo di poter chiudere l'anno con un risultato della gestione ordinaria di oltre un miliardo di euro». I primi veri segnali della ripresa si dovrebbero vedere nella seconda metà dell'anno, prima negli Usa, poi in Asia e in Europa.

Ieri, gli azionisti hanno approvato il bilancio 2008, chiuso con una gestione ordinaria di 3,4 miliardi di euro (+4% rispetto al 2007). «La migliore di sempre» ha sottolineato Montezemolo. Ma anche con un significativo calo dell'utile netto, che si è fermato a 1,7 miliardi di euro (-16,2%). Il quarto semestre del 2008 è stato, infatti, drammatico: -17,2% dei ricavi, compensati solo in parte dai primi nove mesi (+8,4%). Alla fine, un totale di 59,4 miliardi di euro (+1,5% rispetto il 2007). L'ottimismo, un po' di facciata, è motivato comunque dall'accordo Chrysler, le cui voci di salvataggio da parte del governo americano insieme agli effetti degli incentivi alla rottamazione in Italia (Montezemolo ha elogiato il governo) hanno fatto salire il titolo in borsa. «Se l'accordo con Chrysler si farà - ha detto Marchionne - porterà grandi benefici e vedremo la prima macchina nel 2011». I sindacati esprimono preoccupazione. In mattinata hanno distribuito una lettera aperta a Marchionne. «Loro fanno i conti - osserva Airaudo della Fiom - ma i conti non tornano mai per i lavoratori. La Fiat si deve impegnare a mantenere la produzione in Italia e il governo, oltre agli incentivi, che non sono risolutivi, deve aumentare l'assegno della cassa ed estenderla».

Da il manifesto del 28 marzo

venerdì 27 marzo 2009

La strage alla Thyssen ricostruita in digitale

TORINO - Si tratta di una breve sequenza, una manciata di minuti che finiscono con una vampata. Ritrae i primi attimi del rogo della Thyssen. Tutto ricostruito in digitale, con un'animazione 3D. Fiction, certo. Ma l'impatto emotivo è assolutamente realistico. Il video è stato mostrato ieri mattina in Corte d'Assise. Racconta la notte del 6 dicembre 2007: siamo sulla linea 5 e un gruppo di operai imbraccia gli estintori per spegnere delle fiamme. Antonio Boccuzzi si inginocchia per prendere la manichetta dell'acqua, un suo collega lo guarda e, improvvisamente, un'onda di fuoco lo inghiotte. Durante la proiezione, alcuni parenti delle vittime hanno lasciato l'aula, altri sono rimasti con le lacrime agli occhi.

A illustrare il video è stato il professor Norberto Piccinini, consulente della procura, che ha ricostruito insieme a due colleghi la dinamica dell'incendio. Secondo i periti dell'accusa, tutto è partito da una lamiera: scorrendo lungo la linea, sbandò e fece attrito su un sedimento, producendo scintille che caddero su della carta abbandonata. «La carta che brucia - ha spiegato Piccinini - fa fiamme piuttosto modeste però pezzi di questa sono scesi verso il basso e hanno trovato dell'olio che è evaporato e ha preso fuoco». L'olio si trovava in una gabbia metallica di due metri per due e mezzo, posta sotto la spianatrice e accumulato per l'incuria.

Le fiamme si alzarono per più di un metro. Gli operai, come in altre occasioni, intervennero con gli estintori. «Nessuno pensò che i flessibili non potevano resistere al fuoco oltre i cinque, dieci minuti. I lavoratori, quindi, non si allontanarono». Ma a un certo punto proprio un tubo flessibile d'olio idraulico si ruppe: il liquido scaraventato fuori ad altissima pressione nebulizzò e venendo a contatto con il fuoco generò la fiammata. Una nuvola incandescente di dieci metri di diametro che si abbatté sugli operai, rimanendo sospesa a un'altezza di circa un metro. Lo si nota dalle fotografie, ecco perché fu risparmiata la parte inferiore del muletto che salvò la pelle a Boccuzzi.

«Dopo questa prima esplosione, sono scoppiati altri dieci o dodici tubi», ha fatto notare un altro consulente, l'ingegner Allamano, che ha spiegato come l'impianto della linea 5 non avesse un sistema di centraggio automatico delle lamiere. L'azienda che lo costruì non lo installò, seppur fosse un dispositivo poco costoso: «È roba da ventimila euro». Avrebbe potuto limitare lo sbandamento del nastro trasportatore e la produzione di scintille. Dalle immagini scattate si vede infatti come le strutture di carpenteria della linea fossero tutte segnate: «Il nastro sbandava e andava sempre a grattare contro le pareti».

Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Raffaele Guariniello, Allamano ha sottolineato poi che «la manutenzione su una linea come questa fosse indispensabile, perché problemi su impianti del genere si verificano quasi quotidianamente». Ma gli ultimi mesi della Thyssen sapevano solo di abbandono. Se agli operai fosse almeno stato indicato di schiacciare in circostanze simili il temuto pulsante d'emergenza, questo non avrebbe attivato alcun impianto antincendio ma avrebbe sicuramente limitato il flusso dell'olio.

Processo Thyssen, dodicesima udienza
Da il manifesto del 26 marzo

martedì 24 marzo 2009

Shoegaze 1. Ri/scoperte


Questa rubrica - con una dedica un po’ retrò - la chiamo così (Shoegaze, appunto), perché ai concerti anche se non stavo sul palco mi guardavo le scarpe. L’intento è parlare degli ascolti del momento, provando – senza grandi pretese - a tirarne le fila. E a raggrupparli con un po' di senno.

Per le riscoperte di ciò che valeva (tanto) e non si era approfondito: Sylvain Chauveau e Lighting Bolt. Del primo, pianista e compositore francese, è uscita la ristampa de Le Livre Noir Du Capitalisme (2000, ora pubblicato con titolo in inglese): incantevole mix tra ricerca sperimentale e tradizione classica. Dei secondi, duo noise basso e batteria, basta farsi travolgere dal muro del suono che sia Wonderful Rainbow (2003) o Hypermagic Mountain (2005).

Poi, una nuova scena lo-fi. Le coordinate musicali sono più o meno nei paraggi dei No Age. Ma ogni noiser ha la sua forma e il bello è che puoi trovare d'un tratto piccole gemme come l’esordio dei canadesi Women, registrati da Chad Van Galeen in luoghi anomali come una stazione ferroviaria o un fiume gelato: dieci tracce umorali tra melodia e rumore. O scovare Abe Vigoda, non l'attore ma una band di giovanissimi ispanici losangelini, che con Skeleton spremono in mezz’ora le loro ottime doti art(tropical?)punk. Altri nomi: Wavves (pseudonimo di Nathan Williams) e il terzetto Times New Viking.

Max Richter ti fa scoprire un mondo. Sia perché di cose ne fa tante, muovendosi con nonchalance da suoni d’avanguardia ad atmosfere più pop fino al cinema (la sincopata e avvolgente colonna sonora di Valzer con Bashir). Dietro a lui, allievo di Luciano Berio, esiste un mondo ambient-drone-noise. E i percorsi per scoprirlo, sono dei più vari. Si va dai più assimilabili al suo stile Worrytrain e Julien Neto (con il giovane spagnolo Bosques de mi Mente), autori di paesaggi noir, romantici e melanconici , al mininimalismo oltranzista di Alva Noto (in uscita Xerrox VOl.2), passando per il post-rock rachelsiano dei Balmorhea. Se ai passaggi elettronici più dilatati si sovrappongono strati di noise incontriamo Tim Hecker (An Imaginary Country). E, proprio a proposito di rumore, non si può che citare la techno noise dei Black Dice (anche loro di Providence come i Lighting Bolt) e il lavoro solista di uno dei suoi membri Eric Copeland, Hermaphrodite.

Infine, esce in questi giorni Beware di Bonnie ‘Prince’ Billie (di cui ancora non so), allora ripasso i Mountains Goats. E dall’anno passato: la cantautrice Larkin Grimm, gli islandesi Hiijatalin (più Sufjan Stevens che Sigur Ros) e la psichedelia pesante dei Black Angels. In giro, anche il live casalingo di Daniel Johnston e la fantastica raccolta Dark Was The Night con la supervisione dei National e fondi destinati alla Red Hot Organization (contro l'Aids). A maggio arriveranno, invece, gli album di Grizzly Bear e Akron Family. Il primo (grazie bolachas), insieme a quello degli Animal Collective, sembra già uno dei dischi dell’anno. E’ tutto. Pure troppo.

sto qui: last.fm

mercoledì 18 marzo 2009

Al processo Thyssen in scena silenzi e contraddizioni degli operai

Un ex capoturno si contraddice in aula. E i pm indagheranno per capire se ha ricevuto qualche «favore» dall'azienda

Silenzi, contraddizioni e pure un lapsus in aula. Alla domanda della pm Francesca Traverso se si fosse tenuto in contatto con qualcuno degli imputati, Giuseppe Caravelli, ex capoturno della manutenzione, ha prima risposto «sì» e subito dopo «no», precisando che non ha più rapporti con i sei dirigenti. Sull'attendibilità della sua testimonianza, la pubblica accusa nutre diversi dubbi: nella scorsa udienza le sue dichiarazioni erano apparse in netto contrasto rispetto a quelle rilasciate durante le indagini. Aveva sostenuto, per esempio, che la manutenzione programmata continuava ad essere fatta anche dopo l'annuncio di chiusura. Contrariamente a ciò che avevano detto gli operai testimoni e a quello che lui stesso riferì nel febbraio del 2008. Ecco perché la pubblica accusa ha voluto riascoltarlo.

Ieri mattina, nella decima udienza del processo Thyssen, la pm Traverso ha esordito mostrandogli la riproduzione del verbale che aveva firmato un anno fa. L'interrogatorio non ha, però, sciolto i dubbi: né sui guasti ai flessibili (uno degli apparecchi che causò la vampata), né sulle ispezioni di sicurezza eseguite nell'ultimo periodo. Il teste, che la volta scorsa aveva detto di averne fatte una o due di ispezioni, ieri ha risposto di averne fatta forse una con il nuovo responsabile «o almeno - ha poi puntualizzato - ci eravamo parlati». Il suo esame è comunque durato meno del previsto, perché gli avvocati della difesa hanno dato consenso ad acquisire i verbali delle deposizioni. Quasi sorprendendo la presidente della Corte d'Assise, Maria Iannibelli, che rivolgendosi ai legali ha sottolineato: «Naturalmente siete consapevoli del fatto che così hanno valenza probatoria».

Una versione in contrasto, dunque, in una seduta tesa, interrotta pure da un allarme antincendio, scattato per sbaglio nei corridoi del Palagiustizia. Ma Caravelli, licenziatosi qualche settimana prima del rogo, non è stato il solo che si è discostato dalle precedenti dichiarazioni. Seppur in modo meno palese e più titubante, anche Roberto Chiarolla, l'ultimo dei quattro capiturno manutenzione a dimettersi, non ha confermato tutte le deposizioni: «Non è vero - ha detto questo volta - che i lavoratori venivano sempre avvertiti prima della visita di ispettori Asl». Le parole dei capiturno - soprattutto quelle di Caravelli - invece di chiarire il quadro sulle condizioni di sicurezza nello stabilimento hanno destato le perplessità dei pm, lasciando irrisolti parecchi interrogativi. I magistrati intendono verificare se alcuni lavoratori, dopo aver lasciato la Thyssen, si siano impiegati in aziende in qualche modo collegate.

È toccato a Rocco Morano, addetto alla linea 5, ricostruire le condizioni dell'impianto che prese fuoco: «Aveva 15 anni e cadeva a pezzi, mentre in una delle sedi Thyssen in Germania lavorai su uno che ne aveva 50 e sembrava nuovo». Ha poi spiegato alla Corte che gli incendi erano frequenti e gli operai dovevano intervenire subito, senza chiamare i vigili del fuoco, per evitare noie con l'assicurazione. Una volta fu pure rimproverato dal direttore Salerno (imputato), perché nello spegnere le fiamme non riuscì a evitare danni. L'avvocato difensore Ezio Audisio ha, infine, evidenziato un giallo che Morano non ha potuto risolvere. «Quando me ne andai - ha riferito l'operaio - la linea 5 era ferma per un guasto a una fotocellula. Erano le ventidue». Il legale ha fatto invece notare che secondo i computer interni lo stop durò dalle 20.06 alle 21.39. Il 25 marzo un filmato digitale di quattro minuti, realizzato da due consulenti della procura, ricostruirà in aula le fasi più drammatiche di quella notte maledetta.

Processo Thyssen, decima udienza
Da il manifesto del 18 marzo

giovedì 12 marzo 2009

Maledetta Thyssen. Le voci della tragedia

TORINO - In Germania, chissà perché, l'impianto lo fermavano una volta alla settimana, per pulirlo. Qui da noi manco lo facevano più. «E l'olio rimaneva lì sul pavimento e se ci camminavi sopra ti prendevi pure una storta». Lo racconta, durante la nona udienza del processo Thyssen, Salvatore Pappalardo, operaio che la notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 era in servizio al laminatoio Skinpass 62. La sua è una testimonianza forte, che fa male. Che fa venire un groppo in gola, ogni volta che la sua voce si spezza e le lacrime gli impediscono di parlare. E' un uomo che soffre. Quel giorno maledetto l'ha vissuto in diretta con i compagni che gli morivano davanti. Ancora oggi rivive le scene dell'incendio. «Quando torno a casa mi compare accanto al portone Bruno (Santino, ndr) che mi chiede aiuto, nudo con le braccia aperte, carbonizzato, come l'ho visto l'ultima volta». Fortunatamente, alcuni di quei terribili flashback l'hanno lasciato. Non vede più Angelo Laurino passargli davanti, né Rocco Marzo che lo saluta da un carro funebre: «Non dormivo la notte, vegliavo le mie tre bambine, per paura che capitasse un incendio. E ora vado avanti solo per loro».

Salvatore, 34 anni, voleva diventare capoturno, ma adesso in una fabbrica non ci entrerebbe più, «nemmeno per 5 mila euro al mese». E' in terapia psichiatrica per superare gli incubi che lo tormentano. Il tracollo totale lo ha avuto tempo fa, quando - in cassa integrazione - seguiva il corso di formazione stabilito dall'azienda. «La teoria mi piaceva, ma quando siamo scesi in officina e mi sono ritrovato con il grembiule, davanti ai macchinari con i miei ex compagni, tutto riportava a quella notte e mi sono sentito male». Un'ambulanza lo ha trasferito d'urgenza al pronto soccorso e i medici gli hanno aumentato la dose di psicofarmaci, che prendeva invece più saltuariamente. «Ho smesso di andare al corso e, nonostante i fogli della mutua, mi hanno bloccato la cassa. La mia ultima busta paga è stata di 26 euro». Ventisei euro. Sembra di non aver sentito bene - un avvocato di parte civile glielo fa ripetere - ma è proprio così. «E con una moglie e tre figli - sottolinea - non so come arrivare a fine mese».

Prima dell'incidente la sua vita era regolare «tra lavoro e famiglia». Era entrato nello stabilimento di corso Regina Margherita 400 nel 1997 e la sua mansione gli piaceva: era di quinto livello, un «leader», titolo interno che fa quasi sorridere, ma significava solo avere qualche responsabilità in più. «Non avevo un incarico preciso, dipendeva dalle necessità di reparto, potevo fare il gruista o il carrellista e se serviva anche dare una mano al capoturno». Pappalardo era stato pure in Germania, a Krefeld, in visita a una delle tanti sedi Thyssen: «La fabbrica era pulita e in ordine. Ogni settimana bloccavano l'impianto per pulirlo». Rimase talmente impressionato che tornato in Italia incominciò a proporre le stesse idee per Torino. Le riferì a Raffaelle Salerno, direttore dello stabilimento (uno dei sei imputati). «Ma non ebbi risposta». Anzi una volta, vedendo Salvatore con scopa e paletta lo rimproverò: «Non è ora di pulire, mi disse».

A Torino, si era già deciso di chiudere baracca. Sicurezza e manutenzione venivano sacrificate in nome della produzione. Dalle testimonianze degli operai emerge come il personale fosse scarso, la manutenzione assente, gli estintori spesso vuoti e il servizio di pulizia fornito da un'impresa esterna eliminato. Si ramazzavano le stanze se arrivava l'amministratore delegato. Questa situazione era tale dalla decisione di chiusura (giugno 2007), ma segnali e incuranze c'erano da ben prima, dal 2005. «Fino a quell'anno - ha spiegato un altro teste, Giovanni Pignalosa (ex rsu Fiom) - la manutenzione era programmata, poi si fece solo su richiesta. Anche le riunioni dell'antinfortunistica cominciarono a scemare». E poi ha aggiunto che, nei confronti delle nuove generazioni assunte con contratti atipici, esistevano pressioni psicologiche «affinché non schiacciassero il pulsante d'emergenza». I problemi bisognava risolverseli da soli, per evitare di bloccare la «sacralità» della produzione. Pignalosa ha anche ricordato la notte del rogo quando «un collega arrivò gridando che la linea 5 era scoppiata ed erano morti tutti» e si diresse verso l'incendio. «Rocco Marzo camminava sulle sue gambe ed era tutto ustionato, sembrava bollito. Mi chiese di avvisare la sua famiglia ma di non farli preoccupare». La seduta si è conclusa con la deposizione dell'ex capoturno manutenzione Caravelli. Rispondendo all'accusa, ha più volte contraddetto quanto aveva dichiarato dopo l'incidente, sostenendo ora che la manutenzione programmata continuava ad essere fatta. Per questo la pm Traverso ha chiesto di riascoltarlo il 17 marzo.

Processo Thyssen, nona udienza
Da il manifesto del 17/03/09

mercoledì 11 marzo 2009

Per amore e per legge

TORINO - Le hanno convocate da subito, dal primo grado di giudizio, ed è la prima volta. Non era mai successo. Due coppie di donne che dopo essersi viste rifiutare la pubblicazione di matrimonio civile dal Comune di residenza, avevano fatto ricorso al Tribunale. Sì, avete letto bene, stiamo parlando proprio di matrimonio, non di Pacs o Dico. Contratto in Italia, non all'estero. A Saluzzo, a giorni ci sarà la sentenza, e sotto la Mole, il 6 aprile, l'udienza davanti i giudici della settima sezione, quella che si occupa di diritto di famiglia. A Roma e a Firenze avevano, invece, respinto il ricorso e tanti saluti. Certo poi in quest'ultimo caso, nell'appello, la Corte fiorentina aveva disposto l'audizione delle parti dimostrando - seppur il reclamo sia stato rigettato - un interesse ad affrontare un tema delicato. In Piemonte, qualunque sarà l'esito, hanno deciso fin dall'inizio di discuterne nel merito. Formalmente, la legge non vieta le nozze tra persone dello stesso sesso, né la Costituzione, né il Codice civile. E' vero, ci sono ordinanze fumose che si oppongono, varie interpretazioni normative e soprattutto un senso comune difficile da scalfire.

Così ventidue coppie, conviventi da tempo, da Nord a Sud, hanno deciso di mettere in gioco la loro faccia, la loro storia in questa battaglia che ha valore non solo simbolico, ma giuridico e politico. Si chiama «Affermazione civile» ed è una campagna lanciata dall'associazione radicale Certi Diritti e sostenuta dalla Rete Lenford, formata da avvocati che si occupano della diffusione del rispetto dei diritti delle persone omosessuali (il nome per esteso è «Avvocatura per i diritti Lgbt») e della loro tutela. «Visto che la strada legislativa oggi pare bloccata proviamo a percorrere quella giudiziaria» spiega Michele Poté, vicepresidente della Rete e avvocato del foro di Torino, che segue il caso delle due coppie piemontesi. «Non c'è alternativa a questa via, è troppa la sudditanza alle gerarchie cattoliche» aggiunge Enzo Cucco di Certi diritti. L'obiettivo è quello di stimolare un dibattito giuridico e provocare sentenze, che possano essere d'aiuto per arrivare a una legge che tuteli davvero i diritti delle coppie di fatto: «Se dovesse servire - sottolinea Poté - ci appelleremo fino alla Corte di Strasburgo».

Dopo Torino, anche a Venezia e a Bergamo sono state convocate le parti. Ma facciamo un passo indietro. Intorno allo scorso maggio fu lanciato un appello rivolto a coppie stabili intenzionate a sposarsi, per rivendicare il diritto dei gay e delle lesbiche al matrimonio. Non tutti nel movimento saranno stati d'accordo, ma per ora vige un tacito consenso dice Cucco: «Sì è voluto per anni giocare al ribasso, perdendo costantemente, quando invece si doveva partire dal matrimonio. E noi iniziamo da lì, senza cercare contrasti con altre componenti impegnate nella lotta». E' nata, allora, questa campagna, non di disobbedienza civile, ma di «affermazione», perché chiunque - sempre in teoria - può chiedere la pubblicazione degli atti. Gli unici «disobbedienti» sono gli avvocati che non richiedendo un onorario contrastano un loro obbligo professionale. In Italia sono ormai 44: la loro associazione l'hanno intitolata a Lenford «Steve» Harvey, un avvocato giamaicano, che difendeva i diritti delle persone sieropositive, barbaramente ucciso nel 2005 a soli 30 anni. La Rete (www.retelenford.it) è stata fondata a fine 2007 dagli avvocati Francesco Bilotta, Saveria Ricci e Antonio Rotelli e si è costituita nel gennaio dello scorso anno a Firenze con un convegno - tema le unioni tra persone dello stesso sesso - dai cui atti è stato prodotto il primo testo giuridico sulla materia. A Torino è sbarcata sul finire della scorsa primavera e oltre a Potè, hanno aderito Cesarina Manassero e Donata Brancadoro.

A Marene, paese di tremila abitanti in provincia di Cuneo, una coppia di donne si era recata in Comune per richiedere la pubblicazione degli atti di matrimonio. All'ufficio di Stato civile, dopo uno spaesamento iniziale - un copione che si è ripetuto in diverse città - hanno bocciato la loro richiesta. Utilizzando una formula che ormai è diventata classica: «E' contraria all'ordine pubblico intero». Si appella a una circolare del ministero dell'Interno (diffusa ai tempi di Amato), che però se vai a leggerle bene, come ha scritto Francesco Bilotta (uno dei fondatori della Rete Lenford, nonché ricercatore all'Università di Udine), «fa riferimento all'ordine pubblico internazionale, relativamente alla trascrizione di matrimoni celebrati all'estero». Il sindaco della cittadina, Edoardo Pelissero, sicuro della scelta e di aver rispettato ogni norma, ha constatato che nel nostro ordinamento «non esiste nulla che contempli il matrimonio tra persone dello stesso sesso». Ma, allo stesso tempo, quindi nemmeno che lo vieti. Le due donne, seguite dall'avvocato Michele Poté, hanno allora impugnato il diniego del Comune davanti al Tribunale di Saluzzo. Il 22 gennaio si è svolta l'udienza con un'inaspettata nota positiva. «Il pm - spiega il legale - a differenza di quanto è avvenuto a Firenze, non si è opposto al nostro ricorso. Ha evidenziato l'assenza di una normativa per il settore e ha fatto riferimento agli articoli 2 e 3 della Costituzione in cui si riconoscono pari dignità e diritti a tutti. Ha, infine, sottolineato che fino a quando ci sarà una coppia discriminata, l'articolo 3 verrà violato». La decisione adesso tocca dunque ai giudici. Chissà se il comune di Marene sarà il primo a consentire il matrimonio tra omosessuali? Una piccola avanguardia in quella provincia che ai tempi della Dc era la più bianca della regione. Per ora, sugli esiti, nessuno si sbilancia. «In caso di sentenza negativa - aggiunge - ricorreremo in appello, in Cassazione ma anche in sede europea».

Cambia la società, cambiano le famiglie e il diritto italiano rimane al palo. «Mi verrebbe da dire - dice Enzo Cucco - che questo terribile ritardo sia l'estensione di un pregiudizio patologico radicato nel nostro paese. Mentre in altri stati, vedi la cattolica Spagna, hanno tradotto i cambiamenti sociali in norme giuridiche, qui non è quasi possibile parlarne». Solo qualche decennio fa, nel mondo non c'erano paesi in cui si contemplasse l'unione tra gay. Poi, in Belgio, Olanda, Spagna, Canada, Norvegia, Massachusset, Norvegia, Connecticut è successo che il diritto di matrimonio sia stato esteso alle coppie dello stesso sesso. Anche in Sud Africa, dove c'è stata una battaglia simile a quella intrapresa dalla campagna di «Affermazione civile». In Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Germania sono, invece, state introdotte soluzioni analoghe ma con un nome diverso. «E' bastato - dicono dalla Rete Lenford - superare una convenzione linguistica e marito e moglie sono diventati semplicemente i coniugi».

Sono processi lunghi nella società, ma l'avvocatura Lgbt è pronta e ci crede all'impresa. E con l'aumento degli avvocati che partecipano alla Rete, cresce anche il numero delle coppie che si «offrono» alla causa e accolgono l'appello di Certi diritti (www.certidiritti.it). A Torino, o meglio in Piemonte, oltre alle due citate, se n'è aggiunta un'altra, sempre di donne, che ha da poco ricevuto il diniego dagli uffici comunali. E c'è, inoltre, una coppia di uomini che è intenzionata a intraprendere l'iniziativa. Tutte le persone coinvolte per ora vogliono mantenere l'anonimato, per evitare eventuali speculazioni mediatiche. Gli avvoltoi ci sono sempre e tutte le coppie sono consapevoli dell'importanza della battaglia, non vogliono fare passi falsi. Intanto, sale l'ansia per la sentenza di Saluzzo e per l'udienza di Torino, il 6 aprile, giorno importante per il Palagiustizia, contemporaneamente ci sarà l'udienza preliminare per la strage silenziosa dell'Eternit.

A Saluzzo, l´avvocatura dello Stato, che rappresentava il Comune di Marene, ha contestato l'istanza di ricorso sostenendo che «il matrimonio è un´istituzione tradizionale basata sulla diversità di sesso». Ma è proprio questa la tesi che gli avvocati della Rete rifiutano. L'articolo 29 della Costituzione riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. «Ecco non si parla del sesso dei coniugi» sottolinea Poté, che spesso si è occupato di diritti Lgbt, anche collaborando con Famiglia Arcobaleno, (associazione di genitori omosessuali). Neanche il Codice civile dice qualcosa e quindi ci si affida all'interpretazione di altre norme come quelle sulla filiazione. Non ne parlano - per dirla tutta - anche perché negli anni Quaranta non era prevedibile un matrimonio gay. Ma ora sì. «Sposarsi - conclude l'avvocato Potè - è un diritto per chi vuole garantire a sé e al compagno una tutela anche in caso di morte o di separazione». Il diritto di famiglia - riformato nel 1975 - ha già più volte ricevuto stimoli dalle sentenze. E se i tribunali spesso non fanno arrivare nemmeno i ricorsi in aula, a Torino un primo passo si è fatto. La strada è ancora lunga.

Da il manifesto del 11/03/09

lunedì 9 marzo 2009

Hanna Kowalewska - Quell’estate a Zawrocie

Perché la casa non è andata a Pawel, il nipote prediletto, l’orecchio assoluto che ora vive in un «labirinto di suoni»? E’ il dubbio di Matylda davanti all’eredità inaspettata. Quella donna spigolosa e superba, anche se era sua nonna, l’aveva vista una volta sola: da bimba, col sedere sopra la torta nuziale della cugina Zosia. E come mai, prima di morire, le ha lasciato l’aristocratica tenuta di Zawrocie? Quali misteri nasconde? Si apre, così, il romanzo d’esordio di Hanna Kowalewska (classe 1960), che nel 1997 fu un best-seller in Polonia e per la prima volta esce in Italia, grazie alla neo-nata Edizioni del Gorgo di Ferrara. A Matylda, che arriva da Varsavia e dagli studi di teatro, quel dono sconvolge la vita. La sua permanenza in provincia si prolunga. Leggendo i diari della nonna, scava nel passato di Alexandra, che negli anni grigi del comunismo viveva come in una torre d’avorio nel culto – magari arrogante – della bellezza. Arriverà a conoscerla, scoprendo che, nel suo gelo, aveva vissuto passioni. E la scelta controcorrente di non lasciare l’eredità a Pawel era stata anche d’amore. Matylda completerà le pagine bianche, cambiando il modo di guardare sé e il mondo. E’lei, che ricorda e tesse le fila del romanzo, che tende e allenta - a ritmi alterni - la tensione narrativa. Lo stile di Kowalewska si fa lirico a Zawrocie e realistico nelle poche fughe in città. Sullo sfondo, una Polonia che cambia nelle contraddizioni del post-comunismo. Una saga familiare, non corale ma introspettiva.

Edizioni del Gorgo, 2008

Da Diario del 6 marzo (n.4, 2009)

venerdì 6 marzo 2009

«Cercate di non farvi male»

TORINO - Milena Ben arriva da Trento e ha perso il figlio 14 anni fa in un incidente sul lavoro. E’ venuta al Palagiustizia con un mazzo di mimose e rose per consegnarlo alle madri delle vittime della Thyssen. Non tanto per celebrare la festa della donna, «ma per tracciare – ha precisato - un collegamento tra la tragedia torinese e l’incendio che a New York a inizio secolo costò la vita a tantissime lavoratrici». E’ ripreso così, ieri mattina, il processo in Corte d’Assise. L’ottava udienza è iniziata con il «controesame» di Antonio Boccuzzi, che ha risposto alle domande della difesa. Di nuovo è emerso come nell’ultimo periodo le condizioni d’incuria nello stabilimento, che ormai perdeva le migliori professionalità, fossero all’ordine del giorno. E in caso di ispezioni dell’Asl o dell’Arpa «lo sapevamo in anticipo». Solo in vista di queste si facevano le pulizie: «In genere - ha spiegato Boccuzzi - ci veniva detto da Cafueri», uno degli imputati (accusato di omicidio con colpa cosciente). Proprio sui rapporti tra l’ex rsu (ora parlamentare) e il responsabile della sicurezza si sono concentrate alcune domande: «Per Cafueri - ha detto Boccuzzi - era difficile risolvere i problemi che gli presentavamo, perché spesso dall’azienda non gli davano il materiale necessario. All'annuncio della chiusura mi sembrava fosse preoccupato per la sicurezza. Diceva sempre che la cosa più importante per noi era non farsi male». Sono poi stati ascoltati tre operai prsenti la notte del rogo. E dalle loro testimonianze, oltre all’incubo indelebile di quella notte (per cui sono ricorsi a cure psichiatriche), emerge il ritratto di una fabbrica quasi allo sbando, dopo l’annuncio della serrata. Roberto Di Fiore, addetto alla squadra d’emergenza, non sapeva più chi fosse il capoturno, Mauro Pontin, l’altro addetto alla squadra, non aveva mai fatto un corso antincendio e Paolo Regis, elettricista del pronto intervento, ha spiegato come gli interventi tampone fossero la regola.

Processo Thyssen, ottava udienza
Da il manifesto del 6 marzo

mercoledì 4 marzo 2009

«Il fuoco alla linea 5 sembrava un'onda anomala»

TORINO - «Sembrava un’onda anomala. Le fiamme si alzarono per qualche metro, per poi ricadere più in basso. E come una grossa mano, travolsero i miei compagni, che erano là davanti. Il rumore dell’esplosione era stato sordo, simile a quello di una caldaia a gas quando accendi l’acqua calda». Antonio Boccuzzi ora fa il parlamentare del Pd, ma quella notte alla Thyssen la tragedia se la vide tutta davanti agli occhi. Lui, unico sopravvissuto della linea 5 e primo soccorritore, fece il possibile. Per poi sentirsi impotente di fronte al fuoco e agli estintori che non funzionavano. Ieri, è stato il suo turno – come testimone - al processo in Corte d’Assise, che per la seconda volta ha visto presenti in aula due dei sei imputati: i manager Raffaele Salerno e Cosimo Cafueri, su cui pende l’accusa di omicidio con colpa cosciente.

Settima udienza, quindi, con un inizio stentato – caratterizzato da una lunga serie di obiezioni formali dell’avvocato della difesa Ezio Audisio nei confronti del consulente dell'accusa Diego Cavallero (chiamato a revisionare le traduzioni dei documenti) -, una coda più tesa e una parte centrale di nuovo drammatica, che ha fatto rivivere l’ora della strage. Boccuzzi, lucido nel rispondere alle domande del pm Laura Longo, ha raccontato come all’inizio l’incendio «fosse piccolo» e non destasse preoccupazioni. Certo, c’era quel maledetto estintore vuoto: un pessimo presagio. «Andai con Santino e Laurino a recuperare una manichetta. La collegai a un innesto e controllai che l'acqua uscisse. Poi tirai su la testa per vedere se veramente usciva dalla lancia che teneva in mano Scola». Vide l’inferno dell’esplosione: «Sentivo le urla dei miei colleghi provenire dalle fiamme ma non riuscivo a scorgerli, il caldo era insopportabile e il mio orecchio destro si stava sciogliendo. Provai a comporre il 9 per avvertire le guardie ma il telefono non funzionava». A un certo punto, Scola uscì dal fuoco, che ancora lo avvolgeva: «Lo chiamavo perché sentisse che ero lì, lui urlava e dopo si accasciò». Dal rogo spuntò anche Laurino: «Era bianchissimo, come se fosse stato bollito». Come altri testimoni, Boccuzzi ha parlato dello stato di degrado in cui viveva lo stabilimento dopo l'annuncio della chiusura (carenza nelle pulizie e un'emorragia di alte professionalità nella manutenzione). Le avvisaglie c’erano state ben prima di quel giorno del giugno 2007 in cui l’ad Harald Espenhahn comunicò la serrata. «Ce lo disse in italiano e lo parlava molto bene», ha precisato l’ex operaio.

La presidente Iannibelli ha poi sospeso la seduta per una pausa. Nell'intervallo, uno dei legali di parte civile, Sergio Bonetto, ha avuto un malore per cui la seduta è stata rinviata a giovedì. Al ritorno in aula, l’avvocato Audisio ha denunciato un episodio avvenuto appena prima. Uno degli imputati, Salerno, è stato insultato da un parente delle vittime mentre raggiungeva il bar. «E’ intollerabile – ha affermato il legale - che ci si debba difendere in un clima di intimidazione». Il ragazzo si è subito scusato. I familiari vorrebbero, infine, che «qualche rappresentante dello Stato partecipasse alle udienze, perché la difesa sta rallentando il regolare svolgimento del processo».

Processo Thyssen, settima udienza
Da il manifesto del 4 marzo

Rosario lo diceva: «Se c'è un incendio, qui moriamo tutti»

TORINO - Il dopo è tragico per tutti. Chi non riesce più a stare al buio, chi si sente irascibile come non mai, chi non prova più gioia, nemmeno di essere mamma di due gemelline. E chi vorrebbe solo che suo figlio ritornasse a casa e riaprisse la porta con le chiavi. Sesta udienza del processo Thyssen, di nuovo drammatica. E’ stata la volta delle testimonianze dei familiari. Ma anche di uno degli operai che per primo soccorse i feriti.

«L'unica cosa che vorrei è avere indietro mio figlio. Voglio sapere perché è morto». Sono le parole di Grazia Cascino, ripetute più volte con la voce rotta dal pianto, rispondendo alle domande degli avvocati. E’ la mamma di Rosario Rodinò, uno dei sette operai uccisi nel rogo. «Eravamo orgogliosi che fosse andato a lavorare in quella fabbrica, la fabbrica d’oro come la chiamava suo papà, che lì ha lavorato 40 anni. Adesso ci sentiamo in colpa per averlo mandato alla Thyssen, a casa non viviamo più, quasi non ci sopportiamo». Ha firmato, come gli altri familiari, l’accordo di risarcimento con l’azienda. «Ma l'unica cosa che voglio è che mi ridiate mio figlio. Aspetto sempre che torni».

Rosario parlava della fabbrica: «Nell'ultima settimana – ha spiegato la madre - diceva che se fosse scoppiato qualcosa non si sarebbe salvato nessuno. E lui non si è salvato». Concetta, la sorella, ha aggiunto: «Se avesse visto qualcuno in difficoltà si sarebbe subito buttato per aiutarlo. Era fatto così mio fratello». Ha poi testimoniato l’altra sorella di Rosario, Laura Rodinò: «Ero all'ottavo mese di gravidanza, aspettavo due gemelle e quando sono entrata in sala parto mi sono imposta di non soffrire, di non gridare perché mio fratello era bruciato vivo, aveva sofferto molto di più. Mi hanno pure tolto la gioia del diventare mamma». Le parole di Laura sono anche di rabbia, la tragedia ha influenzato i rapporti con il marito: «Prima ci divertivamo insieme, adesso non ho più voglia di fare niente. Sono scontrosa, arrabbiata, cattiva». E poi, girandosi verso l’avvocato della Thyssen Ezio Audisio: «Non mi sento, però, più cattiva degli assassini di mio fratello».

Hanno testimoniato altri parenti. Ed emerge, tra l’altro, come nelle famiglie fossero diversi i dipendenti dell’acciaieria. Magari lo erano stati quando alla sicurezza si badava di più. E le parole di Fabio Simonetta - che la notte tra il 5 e il 6 dicembre lavorava alla linea 4 - descrivono bene le condizioni dello stabilimento: «Gli incendi erano quotidiani e dal settembre 2007 la manutenzione non si effettuava più». E la linea 5? «Era sporca con tante chiazze d'olio e carta. Quando doveva arrivare l’Asl venivamo avvertiti e ci mettevamo a pulire». Simonetta è stato uno dei soccorritori: «Le fiamme toccavano il soffitto – racconta - e si sentiva odore di carne bruciata. Ho visto Roberto Scola e Angelo Laurino in uno stato orribile. Scola urlava “portatemi via”. Cercai anche di spegnere l'incendio: afferrai la manichetta di un idrante ma si staccò». Dopo la tragedia soffre di «attacchi d'ansia, paura del buio e sensi di colpa per non aver potuto fare di più». La seduta è stata aggiornata al 3 marzo.

Processo Thyssen, sesta udienza
Da il manifesto del 4 marzo

domenica 1 marzo 2009

Una crisi da far paura

TORINO - Sui primi striscioni spuntano i nomi dell’Indesit, dell’Olimpias, della Zegna Baruffa e della De Agostini. Tutte le aziende coinvolte dall’ultimo ciclone della crisi, che in Piemonte non allenta la morsa. Poi ci sono quelle che con i remi in barca ci stanno da parecchio, vedi Bertone, Michelin, Pininfarina e Fiat Mirafiori. Ma attraversando il corteo Cgil, si percepisce un malessere ancora più diffuso, che va oltre all’insicurezza del posto di lavoro e parla del recente assalto al diritto di sciopero e pure di xenofobia (nel pomeriggio in scena anche la Rete migranti contro il pacchetto sicurezza).

Settentamila, per il sindacato, sono scesi ieri mattina in piazza per dire che contro la crisi una soluzione c’è: «lavoro e contratti». Un lungo serpentone, da piazza Vittorio a piazza Castello, ha fatto sentire meno sola la Cgil, compressa da un fuoco incrociato: da una parte, governo e Confindustria, dall’altra, Cisl e Uil con cui la spaccatura è ormai profonda. Avrebbe sperato in una loro presenza Agostino Megale della segreteria nazionale Cgil, che ha concluso la manifestazione. «Ma, ormai, stanno assecondando il disegno del governo» ha aggiunto il segretario regionale Vincenzo Scudiere. Non c’erano – per dirla ufficialmente - perché consideravano questa iniziativa «a difesa del vecchio e troppo connotata politicamente». Tanto da far rispondere a Giorgio Airaudo, segretario provinciale Fiom, che «è un problema loro se non sono qua, mentre dovrebbero ascoltare di più gli operai».

La Cgil ha marciato per difendere il lavoro, visto che fioccano gli annunci di chiusura degli stabilimenti. Prima l’Indesit di None (600 dipendenti), poi l’Olimpias (gruppo Benetton) di Piobesi (altri 150), entrambe le aziende vogliono smantellare la produzione in loco. «Ci sacrificano – spiega Gianni, rsu di quest’ultima - per rafforzare l’attività a Vicenza e quella di un nuovo sito in Tunisia. Abbiamo trovato la porta sbarrata a qualsiasi trattativa. Il 10 marzo avremo un altro incontro, se non ci saranno margini per impedire la serrata, chiediamo due anni di cassa e buonuscita, più mobilità e prepensionamento». Il Piemonte è una delle regioni più colpite dalla crisi: sono oltre 200 mila i lavoratori coinvolti, «lo stesso numero di posti di lavoro persi tra il 1980 e il 1990» precisa Scudiere. A fine gennaio, per citare un dato significativo, le ore di cassa integrazione ordinaria erano quasi 4 milioni, con un incremento del 599% rispetto al gennaio 2008, mentre quella di cig straordinaria ammontavano a oltre 2 milioni, con una crescita del 196,4%. Senza dimenticare i 28 mila lavoratori in mobilità (40% donne).

Fiati e grancasse della Bandakadabra hanno vivacizzato la testa del corteo, dove troviamo Pino, impiegato Utet (gruppo De Agostini), casa editrice che ha comunicato 56 esuberi su 94 dipendenti. «Chiediamo di ridiscuterli e ridimensionarli a 30 prepensionamenti». Poco più là, Ahmed attacca allo striscione del Coordinamento migranti di Pinerolo il modulo per il rinnovo del permesso di soggiorno. Arriva dal Marocco, è in Italia da vent’anni e fa il delegato Filcem: «Ai 72 euro che già paghiamo dall’inizio del 2006, vogliono aggiungerci ulteriori tasse, per non contare i ritardi a ogni rinnovo. L’aria è cambiata, si sono inaspriti i sentimenti razzisti, fomentati da una politica sbagliata». Compare poi lo spezzone delle «metalmeccaniche». Nina Leone è operaia alle Carrozzerie di Mirafiori: «E’ in atto un attacco alle donne, che più subiscono il precariato. L’unica parità che ci offrono è quella dell’età, mentre noi vogliamo quella salariale».

Si incontrano alcuni politici (Paolo Ferrero e Cesare Damiano), mancano però gli studenti dell’Onda che lo scorso dicembre erano invece scesi in piazza con la Cgil. Nelle ultime file, tre pensionati dello Spi portano al collo un cartello «no ronde». A Pierluigi, ricordano le squadre nere del ventennio che aveva visto da bambino e senza mezze misure dice: «Stiamo tornando un paese fascista». Uno degli argomenti caldi è la rottura sindacale. Per Michele, operaio Michelin: «Bisognava tagliare i ponti con Cisl e Uil ai tempi dell’articolo 18, l’unità ha portato solo danni». Infine, Megale è intervenuto sul ddl del governo a proposito del diritto di sciopero nei trasporti: «Ci opporremo. Come Cgil siamo sempre stati contro gli scioperi corporativi, ma questo non può voler dire procedere d'autorità modificando il diritto di sciopero».

Da il manifesto del 1 marzo