sabato 21 febbraio 2009

Contro la crisi, alle Presse di Mirafiori arrivano i Gruppi d'acquisto

TORINO - Un conto è mangiar poco, talvolta può anche far bene. Ma mangiare male, invece, è sempre cattiva cosa. E la crisi economica porta i lavoratori a rinunciare, oltre che alla quantità, anche alla qualità del cibo. Allora perché – si sono detti alle Presse di Mirafiori – non provare a mangiare bene, senza spendere un capitale? Anzi, pagando meno del solito, perché se alla quarta settimana non ci si arriva già con lo stipendio pieno, figuriamoci in cassa integrazione.

Le possibilità ci sono: basta abbattere i costi di distribuzione, pubblicità e quant’altro. Come fare? Andando direttamente dal produttore, magari in campagna. E così, per la prima volta in una fabbrica metalmeccanica è nato un Gas, un gruppo di acquisto solidale. Gli operai si sono autorganizzati e la scorsa settimana hanno raccolto le prenotazioni per il paniere. La Fiom ha dato supporto non solo logistico: «Non ci rifugiamo nel mutualismo – ha spiegato il segretario Giorgio Airaudo - la lotta contrattuale continua, pure quella per la difesa del posto e a sostegno del reddito. Ma in questa fase così critica è indispensabile costruire delle reti di solidarietà nella migliore tradizione del movimento operaio».

Ieri, davanti alla porta 15 di Mirafiori è stata la volta del debutto per il primo paniere di prodotti alimentari. Quello della quarta settimana. C’era un po’ di ansia da esordio e anche qualche fotografo a immortalare l’evento. Ecco, il camion frigo, per il cambio turno (13,20 – 14,30): un banchetto e fuori le buste della spesa. Tre tipi di carne, latte, stracchino, parmigiano, gorgonzola, uova e mozzarelle. E arrivano i primi lavoratori. Beppe è dal 1987 in Fiat, «uno degli ultimi assunti» precisa. Fa il delegato e ha aderito al Gas, che qua chiamano Gasp, perché ci mettono al fondo l’iniziale di Presse: «Il gruppo nasce per venire incontro a chi paga sulla propria pelle il prezzo della crisi ed è un modo per riscoprire la solidarietà negli acquisti». Era da tempo che alle Presse stilavano un grafico sugli indici dei prezzi al consumo diffusi dall’Istat. Fatti due calcoli, hanno notato che si poteva risparmiare, senza rinunciare alla qualità. In un supermercato lo stesso paniere varia dai 31 ai 56 euro, un cesto Gasp ne costa invece 25. I fornitori sono, per ora, la Centrale del latte di Alessandria e Asti e la cooperativa Sapori 4 Cascine.

In un angolo c’è Fortunato, 49 anni: da 31 lavora in Fiat e da 6 è in cassa integrazione. Di crisi, se ne intende. Sta in disparte, ha in mano la busta paga, quella di gennaio e quella di dicembre. Cinquecentosettanta euro di differenza, tra l’una e l’altra. Nell’ultimo mese ha lavorato, mentre sotto Natale è rimasto a casa, prendendo 700 euro: «La rotazione prevista per legge – mi spiega - non è mai applicata in modo regolare, sempre a svantaggio di qualcuno. Dal 2003 avrò fatto 9 mesi di servizio. Il problema è che la forbice tra salari e costo della vita si allarga sempre di più e se non avessi i miei genitori a darmi una mano, con 360 euro al mese di mutuo, non saprei come campare». Non conosceva il «paniere», la vede come una buona idea, ma non si sbilancia. Silvia sorride di più e si avvicina con la sua borsa: «Tanto di cappello alla Fiom, ora però voglio assaggiarli questi prodotti prima di dire come sono».

Sempre alla porta 15 è continuata la raccolta firme per chiedere l'adeguamento dell'indennità di cassa integrazione all'80%. Come mi dice Antonello: «A una crisi straordinaria chiediamo al governo provvedimenti straordinari». Alle due e mezza si smonta tutto, Elisa, da trent’anni in Fiat, è contenta del risultato: «Per essere la prima volta è andata bene, ormai siamo un centinaio al Gas. Tutto merito delle Presse» conclude con un po’ di orgoglio. La stessa iniziativa verrà ripetuta mercoledì alla Viberti di Nichelino.

Da il manifesto del 21 febbraio

sabato 14 febbraio 2009

«Ho scavalcato un corpo e non ho capito che era un essere umano»

TORINO - «Lì non c'era nessuno. Proprio nessuno che mi dicesse cosa si dovesse fare, quali erano i rischi. Di incendi ne ho visti tanti e, in questi casi, trovo sempre degli addetti alla sicurezza che mi spiegano cosa è successo, che danno indicazioni sul da farsi». Ma in corso Regina Margherita 400, in quella notte maledetta, non erano presenti. «Solo dopo quasi un’ora, sono riuscito ad acquisire informalmente i nomi dei responsabili della sicurezza». Sono parole dell’ispettore capo della polizia Massimo Galasso, il primo testimone del processo ThyssenKrupp.

Fu proprio lui, uno dei primi a entrare nello stabilimento per soccorrere chi fuggiva dalle fiamme. «Siamo stati chiamati da un gruppo di operai agitatissimi che ci gridavano che c'era un incendio in corso, che c'erano dei loro compagni feriti». Gli agenti arrivarono sul luogo dopo pochi minuti, entrando alle spalle dell’incendio. Davanti a loro: fuoco e tanto fumo, un muletto e macchinari che bruciavano e per terra i feriti «Ho scavalcato un corpo – racconta - e all'inizio non ho neanche capito che era un essere umano, mi era sembrato un sacco dell'immondizia, poi un altro mi è sbucato davanti e mi ha detto che non voleva morire allora io gli ho stretto la mano». Cercarono di allontanarli dal rogo. «I feriti – continua Galasso - erano coscienti, non si lamentavano ma parlavano, uno era totalmente nudo, un altro aveva una piccola parte di indumenti all'altezza del pube». La polizia, su invito del pm Guariniello, incominciò l’individuazione dei presenti. All’appello mancava un solo operaio: Antonio Schiavone, travolto da una palla di fuoco, tra gli 800 e i mille gradi. Fu il primo dei sette morti della strage.

L’ispettore, in servizio al commissariato San Paolo, ricorda poi l’incontro con Antonio Boccuzzi, ex operaio della linea 5 ora parlamentare del Pd: «Era agitato e l'ho invitato più volte ad andare via ma lui insisteva a rimanere. Quando gli abbiamo detto che un suo compagno era morto si è sentito male ed è stato portato in ospedale». Galasso, tra i primi ad arrivare, è stato l’ultimo ad uscire dallo stabilimento. Solo dopo aver rimosso il cadavere e apposto i sigilli: «Chiamammo noi la polizia scientifica» aggiunge. Il suo racconto nella maxi aula del Palazzo di giustizia è drammatico. Ma è soprattutto quell’affermazione sull’assenza di esperti della sicurezza, che getta una luce ancora più oscura sui fatti: «Li rintracciai – precisa - tramite il personale di vigilanza alla guardiola». Tra questi, anche Cosimo Cafueri, responsabile dell'area ecologia-ambiente-sicurezza dell’acciaieria torinese, uno dei sei imputati al processo.

Processo Thyssen, quarta udienza
Da il manifesto del 14 febbraio
Sullo stesso numero, l'apertura di Sara Menafra: La telefonata di Piero: «Aiuto, brucia tutto»

lunedì 9 febbraio 2009

Animal Collective - Merriweather Post Pavillion (2009)

Ogni volta è un passo più in là. Verso l’ignoto, oltre la frontiera. Ad ogni appuntamento in studio, gli Animal Collective rimodulano il proprio linguaggio. E i cambiamenti influenzano una scena musicale sempre più ampia. Ecco perché definirne un disco è prova ardua. Mai come questa volta. Ci sono le melodie di Beach Boys e Beatles (alcuni lo chiamano il Sgt. Peppers della band), l’elettronica minimale degli anni Settanta e i ritmi sbilenchi dei Novanta. Però, è qualcosa di impalpabile, che ti scappa: un flusso che si modifica continuamente. Da subito, con In the Flowers, si è immersi in un mare magnum digitale, cavalcato da voci trasognate. Metabolizzata la svolta sintetica di Strawberry Jams, ora le chitarre – vista anche la dipartita di Josh Dibb – sono sciolte nel pastiche psichedelico che attraversa l’album, tra basse frequenze e synth pulsanti, ritmi liquidi e altri ossessivi. Summertime Clothes è una hit straordinaria, che non ti fa restare fermo. E qui, l’influenza del progetto solista di uno dei membri, Panda Bear, si sente parecchio. In mezzo, troviamo il pop sincopato, pieno di voci, di Also Frightned e Lion In A Coma e i tribalismi di Guy’s Eyes. Infine, la chicca Brothersport: due pezzi fusi insieme in crescendo. Per una volta un po’ di entusiasmo, gli Animal sono il futuro. Se poi così sarà, è tutto da vedere.

sito e myspace

Da Diario del 6 febbraio (n.3, 2009)

giovedì 5 febbraio 2009

Scontro sui manager. Parti civili: sì ad alcuni colleghi e ai sindacati

TORINO - Era da poco superata la metà dell’udienza ed erano appena state mostrate dal pm Laura Longo email in italiano dei manager ThyssenKrupp. La maxi aula era come sempre gremita e si discuteva sulla questione di nullità avanzata dalla difesa, a proposito della mancata traduzione in tedesco di alcuni atti. Gli avvocati di Espenhanhn e Priegnitz avevano, infatti, ribadito che i loro assisti non parlano italiano.

Quando, colpo di scena: la pubblica accusa mostra un video tratto dal tg1. Un’intervista all'amministratore delegato Harald Espenhahn (imputato per omicidio volontario con dolo eventuale) nella nostra lingua. Stupore in aula. Tra il pubblico si levano grida: «vergogna». Spiazzata anche la difesa. Secondo l'accusa questo documento sarebbe la conferma che l'imputato non necessitasse della traduzione delle citazioni a giudizio. Un elemento di prova che fa sostenere al pm Longo un’affermazione forte: «La difesa avrebbe così operato un tentativo di ingannare i giudici e far tornare indietro il processo di un anno». Se le eccezioni venissero accolte, lo riporterebbero, infatti, alla fase delle indagini preliminari.
Dura la replica del legale di Espenhahn, l'avvocato Ezio Audisio, che ha contestato il fatto che il filmato, «che risale ad alcuni anni fa», sia stato acquisito soltanto nei giorni scorsi. «E’ irrituale - ha aggiunto - compiere attività di integrazione di indagine il giorno prima dell'udienza e produrre la documentazione senza che la difesa ne sia stata messa al corrente». Ribattendo inoltre: «Abbiamo appreso di questo documento solo questa mattina e ci è stato detto che l'avviso è stato inviato in ufficio mentre ero in udienza». Il collegio difensivo si è anche indispettito per l’accusa «di voler ingannare i giudici» rivolta dal pm: «Dobbiamo accettare questi insulti? Non lo meritiamo» ha osservato un avvocato. Pronta la risposta del presidente della Corte d’Assise Maria Iannibelli: «Riteniamo di essere capaci di non essere ingannati, in ogni senso». E tra il pubblico – molti operai e anche i parenti delle vittime con i volti dei loro cari stampati su maglie bianche – è scattato l’applauso. Sull’eccezione di nullità avanzata da Audisio, che ha chiesto che il video sia restituito all'ufficio del pm, la Corte si pronuncerà entro il 10 febbraio, data della prossima udienza.

Al termine, il pm Raffaele Guariniello, che ha guidato l’indagine, ha invitato a moderare gli accenti polemici: «La difesa, per esempio, dice che abbiamo fatto tutto troppo in fretta. Noi, invece, riteniamo di aver svolto bene il nostro lavoro». Per Ciro Argentino, delegato Fiom e uno dei fondatori dell’associazione Legami d’acciaio (ex-operai Thyssen), «il video come gli altri elementi di prova sono schiaccianti e dimostra che le eccezioni di nullità fanno acqua da tutte le parti».

L’udienza di ieri si era aperta con il respingimento da parte della Corte della richiesta di costituzione di parte civile dei 56 operai che firmarono i verbali di conciliazione con la Thyssen per una buonuscita, con la quale rinunciavano a diritti risarcitori. I sindacati hanno sempre contestato la validità del verbale, perché differiva da una stesura precedente dell’accordo, ma la Corte ha affermato di non poter entrare nel merito: «Sarebbe altrimenti necessaria una complessa istruttoria per ciascun lavoratore». Escono dal processo anche tre persone, non considerate «prossimi congiunti» delle vittime. Tra queste, Salvatore Abisso, ex operaio Thyssen e convivente della mamma di Roberto Scola: «A questa giustizia non credo più» ha detto. Restano, invece, come parti civili i sindacati, gli enti locali (Regione, Comune e Provincia), Medicina democratica e 52 lavoratori. Respinta tra l’altro la richiesta della difesa di non ammettere gli operai che si trovano oltre i 20 metri dalla linea 5. «Un fatto positivo - dichiara Giorgio Cremaschi, Fiom – e nonostante l'ostruzionismo, esercitato dalla difesa, il processo assume sempre più il valore di un'importante occasione di verifica della validità dell'azione penale a tutela della salute sul lavoro».

Processo Thyssen, terza udienza
Da il manifesto del 5 febbraio

Wu Ming 1 - New Thing

Rispolvero un libro di cinque anni fa e un vecchio scritto

Opera solista di Wu Ming 1 - per la prima volta senza gli altri quattro del collettivo - New Thing è un romanzo corale che, nella New York del 1967, intreccia jazz e movimento dei diritti dei neri, collocando al centro del racconto la storia di Sonia Langmut, giovane giornalista, scomparsa dopo aver indagato su alcuni omicidi che scossero profondamente la comunità afro-americana. Quelli del «Figlio di Witheman» ai danni di alcuni jazzisti neri.

Tutto è costruito «a posteriori». I protagonisti di allora, che ora si trovano nell’America della «War on Terror», dopo l’attacco alle Twin Towers e nell’apice dell’ideologia neo-cons, sono intervistati da qualcuno, di cui non si sa niente, tranne che si sia messo sulle tracce della Langmut. La narrazione si sviluppa come un montaggio cinematografico e mescola l’approccio alla storia orale (lo spiega il post-scriptum metodologico o meglio i «titoli di coda») con l’inchiesta cara al new journalism e il linguaggio del documentario. L’autore, infatti, quasi si «sottrae» dal testo, spegnendo la propria voce, diventando così il regista dei fili del racconto.

Nel mezzo, New Thing, si tinge di noir con gli omicidi del «Figlio di Whiteman», mantenendo però sempre in vista l’articolato corpus tematico che abbraccia musica, storia e sperimentazione, sia letteraria sia politica. Chi è allora questo fantomatico «Figlio»? Una scheggia impazzita in un clima già surriscaldato dalla guerra in Vietnam e dai rigurgiti razzisti del Klu klux klan e simili, oppure è strumento dell’ establishment, proprio negli anni in cui l’Fbi istituisce il Cointelpro, un programma per condurre una sporca guerra contro i dissidenti neri? Domande a cui Sonia non può più rispondere. Lei, che era una reporter appassionata di musica, bianca e hippie, armata solo di un registratore butoba mt5, ci ha rimesso la pelle.

Sullo sfondo, che spesso invade il primo piano, si alternano importanti cambiamenti nella società e nella cultura afroamericana (e non solo), con l'ascesa del Potere Nero e della «nuova cosa» (new thing, appunto), il jazz libero di Albert Ayler, Archie Shepp e Bill Dixon. Sopra ogni cosa - tra le pagine - John Coltrane, nume tutelare della nuova onda e mentore di una società in divenire. Attraverso monologhi poetici, «Trane» (il confidente nell'ombra della giornalista), che nei giorni degli omicidi sta morendo di cancro, affronta una riflessione sulla vita e sulla fine di questa, ormai non lontana.

Wu Ming 1 (a.k.a. Roberto Bui) propone una spiazzante commistione tra fiction e realtà, dove il confine tra le due dimensioni è assolutamente labile ma fondamentale per raggiungere un perfetto equilibrio tra ricerca stilistica e ricerca documentale. Da leggere in ogni angolo e nota. Anche la bibliografia finale, in cui si cita l’autobiografia di Stokely Carmichael, scritta con Ekweme Michael, Ready for Revolution. Eh sì, perché in quegli anni, Stokely parlava in ogni dove di Black Power.

Einaudi Stile Libero, 2004