domenica 30 novembre 2008

Richey Edwards (1967 - ?) che un giorno scappò via


Dopo quasi 14 anni dalla sua scomparsa, una sentenza ha dichiarato morto Richey Edwards, chitarrista dei Manic Street Preachers. Gallese, genio tormentato. Ma troppo sensibile. Si ammalò di quel disagio che talvolta stritola gli artisti. Il primo febbraio del ‘95 decise di far perdere le sue tracce. Inizia qui il suo mistero.

Tirò fuori dalla tasca un coltello e si incise l’avambraccio sinistro. Scrisse “4 real”: davvero. Rivolgendosi a Steve Lamacq, giornalista del New Musical Express, che aveva davanti, e a tutti quelli che non volevano credere alla sincerità della sua arte. Era il 15 maggio del 1991 e la sua band, i Manic Street Preachers, stava per diventare importante. Quello sguardo, lucido ma inquieto, ritratto in uno scatto, è entrato nelle pagine della storia del rock. Richey Edwards, famiglia proletaria e laurea in storia politica, fu portato in ospedale e gli furono cuciti 17 punti. Ma a lui non importava: era riuscito a dimostrare l’autenticità della sua musica. L’aveva fatto sulla sua pelle. Fin da bambino – svelerà più avanti - provava un disagio: non riusciva a esprimere quello che sentiva. Come quando le cose si schiacciano fino a nascondersi dentro di te. Ogni tanto escono e possono diventare poesia. Così nelle sue canzoni, oltre alla cultura punk, si scorgeva Camus e Mishima. Uniti a forti dosi di marxismo. Senza nessun retaggio borghese, perché i Manic arrivano dal Galles delle miniere.
Richey era entrato nella band nel 1989, tre anni dopo gli altri (Nicky, James e Sean). Prima guidava solo il furgone. Poi imbracciò la chitarra (quella ritmica), con scarsa tecnica, ma diventando presto la coscienza del gruppo. Con la sua aria diafana, spaventata, è stato il volto più rock, nell’accezione fragile di questo termine, del quartetto. Ma come Cobain patisce il successo. E inizia un tunnel: depressione, alcool, droga e anoressia. Un malessere che confluisce nel capolavoro dell’agosto 1994 The Holy Bible. Qualche mese dopo sembra superare gli incubi e suona con i compagni a Londra. Il suo ultimo concerto. Perché il primo febbraio del 1995, all’età di 27 anni, a pochi giorni dal tour negli States, Richey fa perdere le tracce. Esce alle 7 del mattino dall'Hotel Embassy, a Bayswater Road. E scompare. La sua auto viene ritrovata qualche giorno dopo vicino a una stazione di servizio nei pressi del fiume Severn. Accanto a un ponte, facendo pensare a un suicidio. Lui che aveva detto – magari nascondendo la sua paura più forte – che quella parola che inizia per S non gli era mai balenata in testa. Da quel momento iniziano gli avvistamenti in giro per il globo: qualcuno dice di averlo incontrato addirittura in India. Sono passati quasi quattordici anni, il suo corpo non è stato mai trovato. Ora dopo una lunga sentenza, durata 7 anni (il minimo perché una persona scomparsa possa essere considerata deceduta) la famiglia ha ottenuto la dichiarazione ufficiale dell'avvenuta morte. Giuridicamente Richey non c’è più. Ma c’è chi ancora pensa sia solo scappato dai suoi fantasmi.

sabato 29 novembre 2008

Tff 5: La febbre di sabato è stasera

TORINO - C'è chi si è preso una settimana di ferie, chi è venuto nel fine settimana o chi ancora l'ha guardato con diffidenza. Ma le code e soprattutto i numeri parlano chiaro, il festival è stato un successo: 44% in più di presenze nel week-end e un po' di fisiologico calo nella settimana. Non tutto a ciel sereno però. Le polemiche, talvolta anche sterili, ci sono state, in particolare dopo l'inaugurazione al Regio con W. di Oliver Stone: troppo di sinistra per alcuni, troppo poco politico per altri. Ora, che manca solo la chiusura con The Edge of Love e la premiazione dei concorsi, l'interesse è già proiettato al dopo. Moretti continuerà a guidare il Tff? Nello staff le bocche sono cucite. O almeno sembra che la verità la conosca solo lui. Emanuela Martini, coordinatrice del festival e stretta collaboratrice del direttore, glissa: "Non sappiamo nulla, spetta a Nanni la decisione. Per ora festeggiamo gli ottimi risultati del festival. Il concorso è piaciuto molto per la sua qualità e la retrospettiva su Melville è stata come quella su Cassavetes lo scorso anno: i giovani non lo conoscevano, ma l'hanno scoperto e apprezzato. Grande interesse, inoltre, per i documentari". Non nasconde poi che – dopo due anni alla conduzione della rassegna – non gli è passata la voglia, anzi: "Sarebbe un peccato – spiega Martini - andasse perduto un patrimonio, perché si è formata una buona squadra di selezionatori". Moretti, intanto, alimenta la suspense. I meglio informati dicono che alla fine ci riproverà.

Questa sera gran finale e vedremo se si sbottonerà. Per i premi la giuria si sta riunendo: si parla di un testa a testa tra Tony Manero del cileno Pablo Larrain e Die Welle (L'Onda) del tedesco Dennis Gansel. Mancano poche ore al gala. Ed è già tempo di bilanci. La Martini, critica cinematografica di lungo corso (ha diretto Film Tv) e che del festival è stata una delle menti, è soddisfatta. Difende anche la scelta di W.: "E' un buon film, meno retorico rispetto ai suoi ultimi deludenti lavori. Appena l'ho visto ho detto: Stone è ritornato al passato e anche con un po' di humour . E' un'opera che testimonia come in America gli anticorpi liberal sono sempre vivi". Non parla – essendo ancora gara aperta - del concorso lungometraggi di cui è stata responsabile, ma si esprime sui film che ha preferito, fuori competizione: "Sicuramente United Red Army di Koji Wakamatsu e Of Time and the City di Terence Davies". Nega qualsiasi competizione con il festival di Roma, anche se Torino alla capitale aveva proprio soffiato la pellicola di Stone: "Non c'è concorrenza perché le due rassegne sono così diverse". Sotto la Mole si punta sul binomio qualità e popolarità. E l'idea di Moretti, confessata alla stampa estera, di portare il Tff in giro per altre città le piace pure. Giù il sipario, allora, con l'anteprima al Massimo del film di John Maybury, storia d'amore ispirata alla vita di Dylan Thomas, con Kiera Knightley e Sienna Miller. E poi vedremo se verranno sciolti i dubbi sul futuro. Sulle spine anche i lavoratori del festival.

venerdì 28 novembre 2008

Realt Time di Randall Cole (2008)

Un giovane gambler (giocatore d’azzardo) e un sicario di mezza età, incaricato di ucciderlo. Il loro viaggio in auto, verso il destino.

Ontologia del reale, tout court. I settantasette minuti della diegesi coincidono con la durata del film. Ed è il tempo che separa il giovane Andy dalla sua esecuzione. Ha un debito incolmabile: 68 mila dollari a un tipo della mala locale. Reuben, un killer, ha il compito di eliminarlo. Gli concede però un’ora per riflettere sulla sua vita. Per redimersi un po’, prima dell’aldilà. Un boia particolare, quasi una guida spirituale. Il film, che si snoda come un road-movie, si basa proprio su questo duetto attoriale esilarante: da una parte Jay Baruchel (già in Million Dollar Baby) e dall’altra Randy Quaid. Un equilibrio all’apparenza esile e un rischio - la verbosità della sceneggiatura – in agguato. Tutto neutralizzato. La carta vincente è l’alchimia tra i due protagonisti. Reale e finzionale. Gestita con maestria da Randall Cole (al secondo lungometraggio), che sceglie l’automobile come luogo topico e intimo di questa commedia nera. Su una Lincoln berlina nasce, infatti, una complicità all’inizio cinica ma poi sodale, tra la simpatia da schiaffi di Andy e la serafica saggezza di Reuben. Cole si ispira a Mikey and Nicky (1976) con John Cassavetes e Peter Falk. E a L’ultima corvè (1973), dove la parte del ragazzo toccava a Quaid. Come riferimento d’immaginario, filtrato però da una debita distanza canadese, c’è Scorsese, per i dialoghi serrati (e divertenti) e per un particolare uso – strutturale – della musica. Trentamila dollari, su un milione di basso budget, spesi solo per Without You di Harry Nilsson. Anche la svolta morale del finale, con effetto suspence, non stona nell’insieme, perché funzionale alla logica del rapporto tra i due. Due grandi attori.

giovedì 27 novembre 2008

Tff 4: Tra passato e futuro

TORINO - Un cinema che guarda al futuro, senza dimenticare il passato. Che sperimenta e scopre nuovi talenti e, allo stesso tempo, recupera i classici e i lavori perduti. L'anima bifronte del Torino film festival macina film su film e ormai - superata la boa di metà settimana – si avvia alla chiusura. Ancora tre giorni. Finora il pubblico ha risposto più che bene: le code non sono cessate nemmeno in settimana. E ora sembrano anche sfumare le polemiche politiche che hanno scandito i giorni della rassegna. Ecco l'ultimo outing: l'ex governatore Enzo Ghigo (Pdl) vorrebbe Moretti direttore anche nel caso in cui il centrodestra vincesse la Regione. Per Nanni, l'ultimo giorno non sarà uno qualsiasi: scadrà il suo mandato e, probabilmente, svelerà se sarà ancora alla guida del Tff.

Tornando al programma, questa sera evento speciale al cinema Massimo (ore 20): sarà presentato Diario di un Maestro (1973), la versione restaurata dell'opera di Vittorio De Seta, il maestro del documentario italiano. Ma il film in questione è uno sceneggiato, nasce infatti come produzione per la Rai e racconta la storia di un giovane insegnante napoletano che, fresco di nomina, assume l'incarico in una scuola romana. La classe più scomoda e difficile sarà affidata a lui. Che fare? Proporre un nuovo metodo basato sul dialogo, ma che alle alte sfere non piacerà. La proiezione sarà anticipata da un incontro tra il regista (siciliano, classe 1923) e Moretti. Uno dei tanti duetti del festival. Come nell'Amore degli inizi, dove il direttore conversa con sei registi italiani alla fine della proiezione del loro film d'esordio. Oggi, sarà la volta di Salvatore Piscicelli, domani di Marco Tullio Giordana e sabato di Paolo Virzì. Sempre a proposito dell'occhio verso il passato, venerdì sarà anche il giorno de La classe operaia va in paradiso, restaurata dal Museo del cinema.

Per quanto riguarda invece lo sguardo rivolto al futuro, oltre al concorso principale (ieri ancora tutto esaurito per il tedesco L'Onda), alle 16,30 al Massimo 3 sarà la volta di Hunger: l'esordio al cinema del videoartista inglese Steve McQueen. Film di denuncia sulle torture subite dai prigionieri dell'Ira. Rimanendo sempre nel Regno Unito, una delle sezioni che ha riscontrato il maggior successo è British Renaissance, quasi 40 opere girate tra gli anni Settanta e
Ottanta accomunate da un fervido anti-tacherismo. Applausi, e anche risate, in sala per Michael Palin, attore dei Monty Python.

martedì 25 novembre 2008

Tff 3: Record d'incassi e Gaglianone tra i doc

TORINO - Nel giorno in cui Oliver Stone trova un distributore italiano per il suo W., la Dall’Angelo Pitctures, il Tff festeggia il parziale record d’incassi. Nei primi tre giorni è cresciuta del 44% la vendita di biglietti rispetto alla scorsa edizione. Intanto, smaltite (ma non troppo) le code del Week-end, continua il concorso lungometraggi. Oggi in programma Die Welle (un insegnante alle prese con il totalitarismo), Demain (dramma familiare) e Momma’s man (un padre con la sindrome di Peter Pan). E poi le altre sezioni. Una su tutte Italiana.doc sulle nuove forme del documentario. La più vivace tra quelle «nazionali». Ecco come il festival replica alle accuse, un po’ strumentali, di esterofilia mosse prima dell’inaugurazione. Daniele Gaglianone, regista torinese (già a Cannes), ha inaugurato sabato, davanti a un cinema Greenwich gremito, il concorso con il suo ultimo lavoro - molto applaudito - Rate Nece Biti (non ci sarà la guerra): dieci ritratti dalla Bosnia, da Sarajevo a Srebrenica. Un viaggio alla ricerca di incontri e di volti, in bilico tra la capitale dal passato cosmopolita e la campagna dove le ferite del conflitto non sono ancora sanate. «Era un’idea - ha spiegato l’autore - che avevo in mente da dieci anni, ma solo grazie alla proposta della Babydoc Film, arrivata in un momento complicato della mia carriera, sono riuscito a realizzare».

sabato 22 novembre 2008

Tff 2: Una pietra sopra Bush

TORINO - Stone arriva elegante con un cravattino celeste nella passerella più glamour che il Torino film festival abbia mai visto. Certo, a qualsiasi aficionados di Cannes o Venezia sarà apparsa fin troppo sobria. Ma per l'austera Torino e per il suo festival, un tempo di nicchia, è già tanto. Ci sono le auto blu, qualche pelliccia sparsa, tanti fotografi e pochi studenti che volantinano. Niente tappeto rosso però. Di rosso c'è già il Regio, il teatro più importante della città, che quest'anno ospita l'inaugurazione della rassegna. In sala, insieme al direttore Nanni Moretti, i due premi Oscar: Roman Polanski e Oliver Stone. E così anche le note di colore spariscono, spodestate dall'impegno, dalla politica. Perché il film che apre la ventiseiesima edizione è un'opera forte: W., l'ultimo lavoro di Stone, che racconta la parabola di George W. Bush. La pellicola rischia però di non trovare un distributore in Italia: "Sarebbe assurdo – ha detto Moretti - se da noi non uscisse". L'autore di Platoon rifiuta l'etichetta di regista controverso: "Sono solo un uomo che cerca di raccontare la realtà col cinema". E prima che in sala le luci si spengano e appena dopo la standing ovation a Polanski, Stone si rivolge al pubblico: "La storia del film è stata a lungo nascosta ed è uscita grazie ai giornalisti. Bush è diventato quello che è, perché sottovalutato e questo è stato un grave errore". Parte così il Tff, in bilico tra popolarità e qualità. Una sfida difficile, ma che si può vincere. La prima volta a Nanni era riuscita, non resta che bissare e magari migliorare il successo dello scorso anno.

Oggi programma fitto fin dal mattino nelle 11 sale del festival. La scelta è varia e orientarsi non così semplice. La retrospettiva British Renaissance inizia subito a pieno ritmo, attraverso lo sguardo dei talenti d'Oltremanica che più di vent'anni fa hanno rappresentato sullo schermo la Gran Bretagna dell'era Thatcher. Per farsi un'idea si può optare tra Jubilee di Derek Jarman, i lavori per la tv di Ken Loach, Angel di Neil Jordan, My beautiful laundrette di Stephen Frears, The great rock'n' roll swindle di Julien Temple o Drowing by Numbers di Peter Greenaway. Chi ieri si è perso W. può vederlo alle 14,30 all'Ambrosio 1, seguito dall'irlandese Helen di Joe Lawlor e Christine Mollowy (17,30), primo film del concorso lungometraggi. Stessa sala per l'altra opera in gara, il belga Non-Dit di Fien Troch, (20,15). Nella sezione Fuori concorso spiccano Filth and Wisdom, l'esordio dietro la macchina da presa di Madonna (Massimo 1, ore 20), Katyn, l'ultimo lavoro del grande regista polacco Andrzej Wajda (Ambrosio 2, 20), e Dream di Kim Ki-duk (Nazionale 1, 22.15). Per italiana.doc in concorso c'è Rata Nece Biti (Non ci sarà la guerra) del torinese Daniele Gaglianone e per la più politica delle sezioni Made in America di Stacy Peralta. Infine, il grande maestro Roman Polanski incontrerà il pubblico alle 15 al Massimo 1. La sua retrospettiva oggi presenta Repulsion (Ambrosio 3, 10), Chinatown (Massimo 1, 17,30) e What? (Ambrosio 3, 21,30).

venerdì 21 novembre 2008

Perché tu pensi che essere poveri sia figo

A un certo punto le cose si fermano. Si fermano perché tu non sai più qual è la realtà. Si fermano perché non è possibile che tu non abbia nulla da tutto quel – anche poco - che fai. Idolatrare mai. Questo lo sapevo. Ma basta. Quel che stato è stato. Diffida di quelli che ti dicono “I want to live like common people”, come diceva Jarvis Cocker dei Pulp. Eh sì, ora cito le canzoni come un adolescente, ma che altro sono? “I said pretend you've got no money”. Ma non ci sarai ancora riuscita. Perché quando guarderai gli scarafaggi che si arrampicano sul muro, papà potrà risolvere tutto. Comunque, a me, continua a piacermi la versione in cui William Shatner, sì proprio il capitano Kirk di Star Trek, la canta, al Tonight Show with Jay Leno, con Joe Jackson e Ben Folds alla tastiera. Sparita da Youtube, l’ho ritrovata un po’ lo-fi.

Tff 1: Ciak con Stone e Polanski

TORINO - Di tempo ne è passato da quando si chiamava Cinema giovani ed era irriverente e di nicchia. Ora che di anni ne ha ventisei e grande lo è da un pezzo, apre - questa sera - la sua nuova edizione con due premi Oscar: Polanski e Stone. E lo fa addirittura al Teatro Regio. Quasi come una delle più tradizionali rassegne europee. Ma niente paura. Di lui, il Torino film festival, se ne parla sempre di più, ma la sua anima l’ha conservata: curiosa e inquieta. E continua a dar fastidio. Vedi le polemiche degli ultimi giorni, che hanno portato il direttore Nanni Moretti al tavolo di un’audizione in Comune. L’accusa del consigliere Ravello di An: «nessun italiano nel concorso principale». Basterebbe ricordare, per sgonfiare la polemica, che nemmeno lo scorso anno c’erano. Nanni difende il suo festival e ribadisce che l’unica discriminante è la qualità.

Tutto pronto allora per partire: 230 film per undici sale divise tra Massimo, Greenwich, Ambrosio e Nazionale. A cui si aggiunge il Regio per l’inaugurazione. L’appuntamento è quindi alle 20 con l’attesa anteprima di W., biopic sull’ultimo presidente degli Stati Uniti, George Bush, interpretato da Josh Brolin. In sala, insieme al regista Oliver Stone, anche Roman Polanski, a cui il festival dedica una retrospettiva completa da Rosemary’s baby a Il pianista. La coppia da Oscar sarà poi in esclusiva televisiva a Che tempo che fa su Raitre, sabato e domenica. Tra le quattro sezioni competitive la più importante è certo Torino 26, il concorso internazionale di lungometraggi. Quindici opere da tutto il mondo, che però possono essere raccolte in una tendenza comune: la famiglia in un momento di profonda crisi. Sono storie di amori e divorzi, di incontri e lutti. «Abbiamo scelto - dice Moretti - film che raccontassero qualcosa di nuovo». Con uno sguardo innovativo: dal cileno Tony Manero all’irlandese Helen.

Poi, da non dimenticare Internazionale.doc e Italiana.doc, i concorsi dedicati alle forme del documentario. Tredici cortometraggi saranno, invece, in gara per Italiana.corti. Fuori dalla corsa ai premi Lo stato delle cose, sezione dedicata alla politica, e L’amore degli inizi con gli esordi al cinema di Marco Tullio Giordana e Giuseppe Bertolucci. In programma, fino al 29 novembre, anche un po’ di anteprime: The Edge of Love con Kiera Knightley e Sienna Miller e Dream di Kim Ki-Duk, a capitanare il plotone degli orientali. E due retrospettive: Jean-Pierre Melville, il più americano dei registi francesi, e British Renaissance, 40 titoli tra fine anni '70 e fine anni '80, che raccontano una Gran Bretagna arrabbiata. La novità di quest’anno è, infine, il Torino Film Lab, primo laboratorio internazionale per le opere prime e seconde. Si occuperà sia di training sia di development, ovvero di progetti ancora alla fase di trattamento e di altri alla ricerca di produttori per essere realizzati. A partecipare ventitré giovani di talento che si contenderanno
premi di produzione tra 50 e 200 mila euro.

sabato 15 novembre 2008

Adam Green, il furbacchione di talento

TORINO - E’ un furbacchione di talento. Di grande talento, altrimenti non staremmo qui a parlarne. Adam Green, origini newyorkesi, è nel mondo della musica da quando aveva quattordici anni (metà anni Novanta), prima con il progetto Moldy Peaches e poi dal 2002 da solista. Furbacchione perché riesce a saccheggiar musica dai grandi classici (da Scott Walker a Jim Morrison fino a Leonard Cohen) e a farla sua. Nessun plagio, ma grande capacità di contaminare e rinnovare. Con quell’irriverenza che gli è propria fin dagli esordi e che l’ha fatto eleggere a capostipite della nuova generazione anti-folk americana: musica folk, senza purismi, ed etica punk. Questa sera allo Spazio 211 (ore 22) Green presenterà il suo quinto album Sixes & Sevens, uscito per la storica etichetta inglese Rough Trade. A ventisette anni, si ritrova in una dimensione più soul e orchestrale (ascoltate, per esempio, Morning after midnight).

Il disco è stato registrato a New York in tante location diverse: il suo appartamento, il suo studio di Brooklyn, e una scuola per bambini autistici a Jersey, gestita dalla moglie del suo storico produttore Dan Myers. E poi, non passa certo inosservata la partecipazione di David Campbell, che ha lavorato con Michael Jackson, Elton John e Beck, in veste di arrangiatore. L’ironia maliziosa rimane quella di sempre e pure il metodo di composizione: Adam frulla tutto ciò che lo ispira. Ma adesso scopre nuovi lidi, il gospel. Ecco spiegata l’incursione di un coro gospel di Brooklyn nelle tracce dell’album. Gioca poi con la storia dei cantautori americani, anche con doti da intrattenitore e una faccia un po’ da schiaffi. Basti pensare che uno dei paralleli più ricorrenti è quello con Jack Black, l’attore di School Of Rock, che è tra l’altro è un suo fan. L’appuntamento per ascoltarlo è quindi in via Cigna 211 (biglietto a 12 euro). Per sentire così una delle più interessanti voci dell’indie rock: profonda, a volte sporca, e con un’aria scanzonata e dispettosa.

Ad aprire il suo concerto toccherà a El Cijo, gruppo di Ancona, prima band della nuova etichetta emiliana Still Fizzy Records, che presenta il proprio debutto, Bonjour My Love: folk, jazz e country in chiave contemporanea. Un suono malinconico e ipnotico dalle chiare radici americane e dal’interpretazione tutta europea. Segue Taboo, l’ormai tradizionale nottata danzate dello Spazio 211.